La disalterità di Lella De Marchi
(già pubblicato qui come nota critica a “Ipotesi per una bambina cyborg”, finalista a BIL 2021)
Quando l’altro è lo stesso, ma non del tutto, si generano delle inquietudini ossessive. Tutto scorre, ma è come se scorresse in circolo. Tutto ritorna, ma ogni volta è un poco differente. Identità e alterità si confondono, ma non possono confondersi del tutto, perché se un’identità è anche un’alterità, essa porta in sé il principio della diversità.
Una bambina cyborg non è un essere vivente, eppure lo è. Ha visto cose che voi umani…, ma sente le cose come tutti. È diversa, ma non lo è. È un’altra, e insieme è se stessa. Tornare a navigare nel grande vuoto, lanciando calci senza riceverne, in un liquido amniotico che torna più volte in queste poesie.
E tornano tante parole, a breve distanza, ossessive, e a lunga distanza, diversamente ossessive. E ritornano i suoni: assonanze, allitterazioni, paronomasie, bisticci. Una goccia stilla da una stella, di postille di pupille, tutto nel mondo si scinde, tutto nel mondo si sente, tutto è monco nel mondo. Del resto, io sono nata più volte. / inseguo nel niente una ripetizione costante.
C’è un andamento musicale, quasi danzante, in queste poesie di Lella De Marchi, anche se la danza non ci libera; è come una possessione, un ritmo da violino del diavolo a cui non si può resistere e che ci porta con sé. C’è anche un andamento narrativo, in queste poesie, ed è lì dentro che la possessione ci getta, a cavallo tra tenerezza, tenerezza e angoscia.
La bambina esiste davvero, è nata, gioca, viene presa per mano. Contemporaneamente, la bambina è la proiezione dell’infanzia di chi scrive. Il diverso è l’identico. L’identico è il diverso. La bambina è artificiale come l’amore che vive / e prolifera su questa terra. È unica e multipla. È lei stessa ed è tutte le cose e tutti gli animali che ci parlano, che naturalmente intervengono nel dialogo/monologo, nel ritratto/autoritratto. Del resto siamo la doppia immagine che può vedersi da sola.
Non si tratta però di un mondo di illusioni. In questa mise en abîme, di specchi che riflettono altri specchi, il sentimento traluce. Rischia di diventare falso solo quando se ne parla. Necessariamente c’è e si trasmette, perché tra l’io e l’altro c’è continuità, ci sono le cose che tornano, le parole che tornano, i suoni che si ripetono: sostanze, materia, carne.
Viceversa, l’amore non si cura della forma l’amore sa che la forma / non è che un antidoto alla paura. Poco importa mostrare di amare. Amare è ritrovarsi nel vortice di una differenza che insieme non lo è, eppure lo è, ma ancora lo nega. Ritornare ossessivamente, appassionatamente, musicalmente, sull’assenza di una distanza che c’è ma non c’è. E che in questa oscillazione ugualmente, paradossalmente, scorre.
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