Quali echi di altri poeti si sentono in questi versi? Montale? De Angelis? O bisogna volgersi verso l’universo poetico in lingua inglese, come mi suggerisce – a voce – lo stesso autore? Ho incrociato questo testo quasi per caso, a una delle presentazioni che Sergio Rotino organizza, a Bologna, per MelBooks. Mi ha colpito. Ne parlo.
Bini ha una lingua molto musicale, intimamente legata all’andamento del verso classico italiano (endecasillabo, settenario…) ma senza nessuna adesione programmatica a una quantità sillabica precisa. Un modo di utilizzare il verso che ricorda, appunto, quello di Montale, cioè fatto a orecchio, ma con un orecchio ben consapevole e carico di ritmi poetici assestati. Qui si avverte questa sapienza persino nella distribuzione degli enjambement, o nell’utilizzo occasionale delle rime.
Questa andatura musicale (di quel passo musicale che caratterizza la poesia, e non la musica in senso stretto) ha buon gioco quindi nel trasformare gli oggetti in correlativi oggettivi, e il susseguirsi delle situazioni in allusioni ed enigmi. È così che Bini costruisce il senso magico del mondo, senza mai cadere in banalità, nei luoghi comuni facili del poetese. Persino il vento – così facile ai poeti della domenica – ci coglie qui (sotto) impreparati, per il modo trasversale in cui compare.
Non ci sono parole proibite, in poesia. Saba sapeva scrivere versi straordinari sulla rima più antica difficile del mondo: fiore / amore. Il problema è come queste parole entrano in scena; o come entra in scena l’io; o come entri in scena qualsiasi cosa che entra in scena. Il sistema delle allusioni dà il senso pieno alle parole. Può bastare un ritmo per sconvolgere tutto, che sia il ritmo degli accenti, o il ritmo delle situazioni nominate o evocate.
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