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Di Jiro Taniguchi e dello scrivere su di lui

Taniguchi Jiro, Quartieri lontani, p.200

Taniguchi Jiro, Quartieri lontani, p.200

Questo post vuole essere la continuazione del post precedente, ma ora parlerò di fumetti. Voglio scrivere di Jiro Taniguchi e del suo ultimo libro pubblicato in Italia: Quartieri lontani (Coconino Press, 2010 – l’originale giapponese è del 1998, ma Coconino l’aveva già stampato in due parti, nel 2002 e 2003, con il titolo In una lontana città).

Due parole sul suo tema le devo spendere, per permettere un minimo di orientamento a chi ancora non lo ha letto. Un uomo di 48 anni si trova  – come in una sorta di sogno incredibilmente realistico – a rivivere i propri 14 anni, ma con la consapevolezza dell’adulto. Ritornare a scuola, rivedere i propri genitori, proprio nel periodo in cui il padre è andato via, rivivere i rapporti con i compagni di scuola, il primo innamoramento…

Però niente è come prima, perché prima di tutto lui, nel corpo del quattordicenne, è un adulto gettato nel passato, che cerca di nascondere agli altri le proprie conoscenze sul loro futuro, non sempre riuscendoci del tutto.

L’idea di base forse non è originale, ma, come sempre, Taniguchi è un maestro a svilupparla e a portarla sino alle ultime conseguenze. Il risultato è così un racconto sospeso tra la sensazione del già visto e la tormentosa inquietudine del non capire come possa andare a finire: guarda casa, le stesse sensazioni del protagonista della storia!

Taniguchi ha un disegno lineare e chiaro, piuttosto statico, ma questa semplicità si rivela poi adatta a meglio trasmettere le emozioni dei volti e dei corpi, sempre molto vere. E, insieme, c’è una sapiente costruzione dell’insieme, con un gioco di accostamenti/contrapposizioni tra la costruzione ortogonale della pagina, creata dalla serie delle vignette rettangolari, e lo sviluppo delle linee delle figure in esse contenute, che sono spesso anch’esse ortogonali, ma a volte organizzate sugli assi diagonali. Questa piccola vivacità costruttiva è sufficiente a dare vita alle pagine di Taniguchi, anche nel loro insieme – mentre al tempo stesso raccontano con espressività quello che sta succedendo.

Se stessimo parlando di uno scrittore, staremmo lodando la raffinatezza del linguaggio verbale e insieme la sua capacità di usarlo efficacemente per raccontare le emozioni – due qualità diverse, e non sempre compresenti. In un disegnatore di fumetti il corrispondente è ovviamente il rapporto tra il tratto grafico e la composizione, oltre che il modo di farne uso.

La strategia di semplificazione visiva agisce, in Taniguchi, anche al livello narrativo. La storia è semplice, assai lineare: tutto gira attorno a pochissimi elementi. Ma proprio come con la linearità del disegno, la linearità del racconto finisce per mettere fortemente in luce gli elementi chiave. Pagina dopo pagina, l’assurdità di quello che capita al protagonista svanisce anche per il lettore, e la vita del quattordicenne di 48 anni procede nella sua normalità, nelle sue piccole sorprese, nei suoi grandi timori.

Ho letto le 414 pagine di Quartieri lontani tutto di un fiato. Ci vogliono un paio di ore. L’immersione che mi ha prodotto non era così dissimile – come ho già detto – da quella del suo protagonista. In più di un momento della lettura mi sono sentito vivamente emozionato.

Certo, il romanzo di Taniguchi gioca su temi profondi: la memoria, il rimpianto, il sogno di rivivere il passato. Ma proprio perché sono temi così intensi, il rischio di essere banali è estremo. La semplicità del disegno e del racconto di Taniguchi è per forza quindi soltanto apparente. Il ritmo che qui l’autore costruisce è magari quello del sogno – ma non si ha mai l’impressione di trovarsi dentro un sogno. Tutto è reale, e anche il racconto è quello di qualcosa di reale. Forse è proprio questo straniamento a portare avanti il lettore – ma nella capacità che ha Taniguchi di farci dimenticare che stiamo leggendo una storia (e una storia di Giapponesi, tanto differenti da noi!) c’è qualcosa di davvero straordinario.

Come ho detto nel post precedente, non mi interessa trovare una verità del testo, e non credo che la critica debba concentrarsi su quello. Se il messaggio di Taniguchi è efficace su di me, in questo caso è perché già lo conosco e lo condivido. Non è il messaggio la parte interessante di un testo artistico, bensì l’esperienza su cui il testo ci conduce, il percorso di scoperta o riscoperta di qualcosa, che già lo conosciamo o no. Il messaggio, in questo, farà anche la sua parte – e ci sono sicuramente testi in cui è una parte importante, e davvero impariamo qualcosa di nuovo. Ma lo impariamo solo perché il testo ci ha condotto attraverso un’esperienza coinvolgente.

P.S. Giusto un’osservazione per la Coconino. Ristampare In una lontana città è certamente una buona operazione, che ha tutta la mia approvazione. E capisco anche che la concomitanza con il film di Sam Garbarsky sia una buona occasione per un’operazione commercialmente positiva (cosa da non disprezzare per un editore di questi tempi) e insieme culturalmente utile. Ma non apprezzo il fatto che da nessuna parte del volume compaia il riferimento alla precedente edizione, con il titolo mutato: la trovo anche una piccola truffa ai danni dei lettori che già possedevano In una lontana città, e che ora acquisteranno Quartieri lontani credendo che si tratti di un lavoro nuovo.

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7 comments to Di Jiro Taniguchi e dello scrivere su di lui

  • […] This post was mentioned on Twitter by LoSpazioBianco, Daniele Barbieri. Daniele Barbieri said: Di Jiro Taniguchi e dello scrivere su di lui: http://wp.me/pOmeB-qJ […]

  • Fabio

    EHI è il mio preferito attuale!!!!!

  • galletti

    Daniele, te lo chiedo proprio perchè tu sei così bravo ad analizzare il segno. Premesso che Taniguchi è “nostro”, premesso che non esiste un Taniguchi anche quando adatta che non diventi lui e che non mi piace, premesso che anche l’ultimo che ho letto che era bello ma non un capolavoro ho pianto una lacrima su una panchina di Riomaggiore, e quando piango io ringrazio.
    Ripeto, te lo chiedo davvero perchè tu sei così bravo ad analizzare il segno, cosa che io neanche da lontano, ma poi però mi rendo conto che il segno agisce.
    Perchè il Taniguchi di “Al tempo di papà”, ma anche “L’olmo”. Il Taniguchi dal segno più fitto e particolareggiato, è per me un’altra cosa che si è persa e ha un altro valore, credo similarmente a quanto tu scrivi per Corto nella Top 11?
    Ciao

  • borisbattaglia

    massimo
    io non ho capito un cazzo della tua domanda e l’ho letta (mica guardata) tre volte.
    ‘dess voglio proprio vedere se e cosa ti risponde daniele.

  • @ Massimo
    Sinceramente non vedo molta differenza; e poiché a volte la memoria tradisce, mi sono ripreso in mano i Taniguchi più vecchi, e ancora non ho visto grandi differenze. Ma forse non stai parlando di “Quartieri lontani”, che in fondo è del ’98, ma delle cose davvero più recenti.
    Lì qualche differenza c’è, sì. Lo stile è meno freddo e un po’ più “manga” – e forse anch’io preferisco il suo segno precedente. Però, per un giudizio definitivo, non mi basta riguardare: dovrei davvero rileggere, e capire se la scelta di tratto non sia specifica e funzionale al racconto.
    In ogni caso sono certo che Taniguchi non ha ancora prodotto su di me un effetto Pratt. Là, è stato come se da un certo punto in poi si fosse rotta la magia. Qui c’è giusto qualche oscillazione, e mi sembra normale nel percorso di un autore.
    Ho risposto? Era questa la domanda?

  • galletti

    non mi hai risposto troppo ma non lo potevi fare perchè vedi qualcosa di diverso da me, che vedo qualcosa di simile a quel che tu vedi di Pratt in Taniguchi, e tu leggi quel qualcosa che io leggo in Taniguchi in Pratt.
    Ci sta, tranquillamente. Quello che mi chiedo aldilà dell’autore è perchè in una “leggerezza eccessiva” del segno che noi troviamo in autori diversi e diversamente passi così tanto della credibilità della loro narrazione.
    Chedo scusa ad Alex ma per semplificarmi ho semplificato e mi sembra ora di scrivere una cosa che significa meno di quella di prima, ma questa è una pippa. Riciao.
    PS una leggerezza eccessiva che peraltro in tutti e due i casi secondo me comunque perde un qualcosa di determinante ma senza snaturare stile, narrazione, nè tutto sommato qualità: solo quel di più che è magia, e che forse sta nei particolari tanto che nemmeno l’autore se ne rende conto.
    E mi viene in mente a questo proposito invece un vecchio aneddoto e recenti pensieri di impercettibili continue avanzate invece di un Mattotti recente affamato, nei fumetti, di particolari.

    • Solo una nota veloce.
      Non è la credibilità della narrazione in sé che conta. Semmai è il fatto che il fumetto è comunque narrazione per immagini, e non posso fare una valutazione senza mettere in gioco tutte le componenti, compresa la relazione tra loro.
      Ciao
      db

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