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Della poesia civile, e di alcune donne in poesia

La guardiana

Torno alla casa che abbiamo ereditato
è grande e disposta su tre piani,
ma ne occorre un altro. Decido di scavare
in basso piuttosto che elevare al cielo.
Sappiamo tutti che quando possediamo un suolo
– ne abbiamo proprietà –
ci appartiene tutto ciò che è sottostante e ciò
che sta di sopra a dismisura fino alle galassie più
lontane
fino al centro della terra
– così dice l’ordinamento.
Ai piani alti di questa grande casa
vorrei solo aprire le finestre
a far entrare un po’ di luce
che penetri il mio petto svuotato a dovere
che giri un poco d’aria e di correnti
di sangue anche, se si preferisce.
Che il sangue torni a circolare e a distinguersi
tra quello rosso vivo e quello blu
di scorie.

.

Parlando con Raymond Carver

Quando faccio pulizie
mi capita di colloquiare con qualcuno.
Oggi tocca a te Ray e non è la prima volta.
Vorrei seguirti anche in questo
tu che parli con Joyce
tu che parli con Baudelaire
tu che parli di Shelley
sulle loro tombe, sempre.
Io sto solo aspettando che si asciughi il pavimento.
So che sembrerà retorico
assolutamente banale
dire che tra noi c’è un oceano
e io vorrei attraversarlo.
La tua immagine sul cofanetto dei Meridiani
mi fissa, ha un’aria simpatica, non sembra
di un ex alcolista. Comprendo il problema.
Vorrei parlarti di spazio
oltre quello oceanico che ci divide
oltre quello che c’è tra whisky e vino
oltre quello che c’è tra le mani che aggiungono all’argilla
e il marmo da scalpello
oltre quello che c’è tra chi ci lascia parole e chi no
ovviamente, spazio.

Un mio amico che si dice piccolo poeta mi ha insegnato:
lo spazio non è sempre uguale a se stesso
dieci centimetri fra due macchine
non sono dieci centimetri in un letto coniugale.
Penso abbia ragione. La coscienza cade sulle cose
che guardiamo diventare assenti
le scalpelliamo per porgerle, che qualcuno legga.
Ciò che non ha significato profondo
l’esistenza non ha alternative, in fondo non è necessaria
non trova radici se non nella combinatoria interna
divisa.

Patrizia Dughero, da Le stanze del sale, Le voci della luna, 2010
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BROCKWELL PARK

Da quando vivo sola ho imparato
che l’autunno è migliore dell’estate
al suo versarsi sulla terra piega
il chiaro delle voci nell’interno.

Il bambino nella finestra accanto
guarda le gazze prendere il volo
pensa forte una coperta d’alberi
di rami dispiegati sopra i tetti.

Gli scoiattoli in cerca di biscotti.

Ho messo nel lettore Figure Eight
perché spesso mi tornano i suicidi
con amara ed ironica pietà.
Solo i morti conosciamo davvero
il resto è imitazione dell’amato
nel buio non capire o trattenere.

I quaderni, le penne, le monete
nella borsa di Mary Poppins verde –

sono uscita senza aver lavorato
ma ho bisogno presto di un lavoro
della notte restituita al sonno
con il gemere delle tubature
l’urlo dei cani spento sopra i muri.

L’acqua nel parco si ammassa di foglie
un’isola nell’isola incostante –
le anatre cercano pozze scure
di pesci, riemergono nello strato
impietrito, lontano delle frasche.

Mi chiedo dei sopravvissuti, quanti
dai nidi – se sanno, se ricordano.

Un’altra acqua restituisce lenta
pezzi anonimi di senso, quest’osso
mutilato nel fango, non più bianco
l’inchiostro evaporato delle carte
un ordine di buste e di bottiglie.

Siamo l’archeologia di plastica
l’involucro deforme ci resiste.

Non scriverle le poesie, tienile
per camminare svelta nella pioggia
o nella luce quieta di novembre –

L’aria sulle vetrate rannicchiata
una seconda pelle che declina.

Spingendo nelle lame le parole
unirmi il sangue al sangue di altri uguale.
Non scrivere, non sperare, non dire.

C’è una gioia nella mia tristezza
e un’ombra disarmante nell’amore

mi cresce dentro il nudo dei tramonti.

Ho nostalgia del ferire inquieto
mi mancano le vite sconosciute.

Io – non riesco ad appartenere
eppure ogni gesto m’appartiene.

Esistono le cose tutt’attorno
fatti più trasparenti le vediamo –

mentendo la propria solitudine
si riconosce meglio dove amare.
Addomesticare poi significa
creare dei legami. Ogni giorno

un po’ più vicina, tenermi stretta
l’erba ruvida di spago, scorrere
i grani sporgenti, i nodi. La volpe

si può vedere a volte nella sera
sgusciare in una fiamma dai cancelli.

.

L’AIRONE CINERINO
(vita segreta dei giardini)

Hyde Park, fine d’ottobre –

la pioggia circonda le persone
un margine curvo, propagato
dal bagliore dei cigni sulla Serpentina.

Le folaghe e le oche si spingono
su molliche di pane galleggianti.
Un corvo intruglia la carcassa sfatta
di un piccione, il ricamo scarlatto
aggrovigliato al becco. Se ne stacca
distratto al mio passaggio.
Un cestino di ferri, lana, spilli –
le matasse disgiunte all’apertura.

Sotto il ponte iniziano i giardini.

La vegetazione lacustre scava
nell’argine recinti naturali
d’alberi, terriccio, cespugli, giunchi.

Lo scoiattolo percorre i tronchi,
scorteccia frenetico al midollo,
la gazza si affaccia dalla ringhiera.

Sul fondo l’airone grigio osserva –
il salice cascante lo nasconde.
Le pupille laterali, inespressive
come insetti dentro biglie d’ambra,
gli arti lunghi, cauti sopra l’erba
la giuntura flessibile del collo.
Il rostro impercettibile si affila –
un bisturi dell’aria sulle rane.

Dall’entrata la notte procede
oltre il flauto di bronzo del bambino.
“Non è lui – mi ripeto – non può essere”.
Dove il ghigno d’elfo, la tristezza?
L’ombra, gli sterpi di taglio nel corpo?

Sul cerchio dei lampioni, la foschia
viola come un tessuto muscolare.

L’odore d’acqua penetra i vestiti
dalle foglie stampate nelle suole.

(Hyde Park/Kensington Gardens, 28 ottobre 2007)

Francesca Matteoni, da Appunti dal parco, Nizartd 2008
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Mi accorgo che, recentemente, mi capita più spesso di apprezzare poesie scritte da donne piuttosto che da uomini. Niente di ideologico in questo, anzi niente di deliberato. Dico “mi accorgo che” proprio perché questo fatto, di carattere statistico/personale, mi colpisce, e mi porta a domandarmi se si tratti di un caso, o se qualche ragione di fondo ci sia, magari persino più stabile di una semplice momentanea maggiore rispondenza o affinità.

Ho un po’ frequentato questa primavera due diversi cicli di presentazioni di volumi di poesie, presso due diverse librerie di Bologna, Feltrinelli e Mel Books. L’occasione di questo post mi è stata fornita proprio da due di questi incontri, uno in cui intervenivano le due poetesse di cui avete appena letto i testi, l’altro in cui si presentava l’Annuario della Poesia 2011, da parte dei suoi due curatori, Paolo Febbraro e Matteo Marchesini.

È stato in questo secondo incontro che si è sollevato il tema della cosiddetta “poesia civile”. Febbraro e Marchesini affrontano la questione ponendo una semplice domanda: come si riconosce la poesia civile? La risposta sarà: be’, la si riconosce per il fatto che tratta temi civili. E dunque il problema è quali siano i temi civili, e come si decida se un tema sia civile o meno. Già: come si decide? La domanda sembra banale perché di solito lo abbiamo già deciso, e sappiamo tutti quali temi siano civili e quali no. Nei dibattiti il “civile” viene contrapposto tipicamente al personale e al “lirico”, un po’ come il pubblico (o il politico) al privato; e lo scrivere poesia civile starebbe allo scrivere poesia su temi personali come il fare attività politica o volontariato sociale starebbe al farsi i cazzi propri, magari pure sentitamente e sinceramente.

Ma la natura della poesia è differente da quella del fare attività politica o volontariato sociale. Pensare che la poesia possa migliorare il mondo secondo strategie analoghe a quelle dell’impegno vuol dire averla già ridotta a elemento funzionale all’interno di un dialogo (quello del “civile” e del personale), e che ha di conseguenza tanto più valore quanto più conta all’interno di quel dialogo. E siccome quel dialogo trova definizione precisa attraverso i mezzi di comunicazione di massa, lo stesso valore della poesia si troverebbe definito con la massima precisione all’interno di quel dialogo gestito dai media. La stessa definizione di che cosa sia “civile” si trova costruita in quel dialogo.

Questo discorso ascoltato (e qui riportato a memoria, con anche una certa probabile dose di interpretazione mia) mi ha chiarito di colpo le ragioni della mia diffidenza nei confronti dell’enfasi sulla poesia civile: il punto è che questa enfasi trova senso soltanto all’interno di una concezione già finalizzata della poesia e, tanto peggio, già finalizzata all’interno di una concezione del “civile” costruita e valorizzata attraverso i mezzi di comunicazione di massa, il consenso generale, e in fin dei conti, una certa banalità. Non che si debbano rifiutare i poeti civili, per questo. Pasolini e Fortini sono tra i poeti che ho letto e riletto con maggiore passione; e non posso negare che in parte questa passione sia dovuta a un riconoscermi nei loro valori. Tuttavia, potrei elencare molti altri poeti che ho letto con passione simile, e che farebbero fatica a rientrare nell’ambito di quello che chiamiamo “civile”. Anche leggendo questi poeti, indubbiamente, una parte della passione era dovuta a un riconoscermi nei loro valori, e questi, pur non essendo “civili”, ben difficilmente avrebbero potuto essere definiti “in-civili” o “a-civili”.

Aggiungo un’altra osservazione: sui temi civili si discute, e la discussione fa parte del loro senso e del loro valore. La poesia, in quanto tale, non è fatta per essere discussa, e non ha maggior valore come poesia se apre un maggiore dibattito. Alla critica spetta piuttosto questo ruolo; e solo in un contesto culturale in cui la critica ha più valore dei testi di cui parla, si può pensare che la poesia (o persino il romanzo) abbia più valore se contribuisce al dibattito.

Io credo piuttosto che la poesia agisca a monte dei dibattiti, contribuendo al formarsi di un senso profondo e comune, una sorta di stimmung, cioè di accordatura collettiva, che costituisce la base stessa su cui i dibattiti possono poi crescere. Una poesia mi piace o non mi piace, mi ci ritrovo e mi ci posso mettere in sintonia, oppure non mi piace e non trovo sintonia. Se ne discuto i temi, se non sono “d’accordo”, non la sto più trattando come poesia, ma come un semplice discorso, una proposta nel dibattito; il che naturalmente non è vietato, perché un testo poetico contiene magari anche quello; però se riduco la poesia a quello sto trattando lo specifico poetico come una semplice confezione, una luccicante cartina per trasmettere meglio il cioccolatino della verità contenuto al suo interno. E la poesia non è questo.

La poesia è piuttosto un tramite nei confronti di istanze profonde, quelle che fanno fatica o proprio non possono essere veicolate dal discorso normale, per quanto raffinato e acuto questo possa essere. La poesia ha a che fare con l’inconscio, gli dei, il mito, la natura, il desiderio, il dolore (cose grandi ma anche cose piccolissime), e tutto quello che ci prende come un groppo e le parole non bastano, e ha bisogno di trovare un altro modo per uscire. In questo senso non è in sé né personale né civile, eppure, quando funziona, quando ci colpisce, ci colpisce tanto nel personale quanto nel civile.

Forse è per questo, quindi, che mi trovo a leggere più volentieri poesie scritte da donne, e mi trovo a leggere più volentieri proprio quella scrittura femminile che viene tipicamente accusata di essere troppo lontana dal sociale, troppo poco “civile”. Rileggete i testi che ho allegato: a dispetto della superficie, a dispetto dell’”io” dichiarato nella lettera del testo, non sono poesie dove si parla di sé. Le trovo riuscite perché (in diversa maniera nelle due autrici) non mi danno l’impressione di parlare di loro stesse, delle autrici, bensì di qualcosa che si trova in loro così come si trova in me, e forse in tutti, o almeno in tanti.

In più, questa sentita consapevolezza condivisa si trova qui associata a esperienze quotidiane nelle quali ugualmente mi posso riconoscere, e di conseguenza un domani magari anche personalmente (senza più l’aiuto di questi testi) rivederle, riconoscerle, come vie d’accesso all’indicibile, a quel fondo inevitabilmente oscuro che condividiamo tutti, e che a tutti noi dà forma.

Tutta la buona poesia, io credo, è implicitamente poesia civile, perché ci fa sentire parte di un sentire comune e condiviso. Il suo ruolo si trova a monte dei dibattiti e di qualsiasi propaganda, anche quella di cui condividiamo i temi. La poesia non è pubblicità del bene; può essere grande poesia anche senza propagandare alcun bene, senza condannare alcun male. Il bene, semmai, lo fa; anche senza dirlo.

P.S. Avevo già in parte scritto queste righe quando Francesca Matteoni, su Nazione Indiana, ha pubblicato alcune poesie di Patrizia Dughero, tra le quali una di quelle scelte anche da me. La coincidenza non è casuale. È che gli incontri pubblici servono. Grazie quindi a coloro che li organizzano, nella fattispecie Guido Monti da un lato e Sergio Rotino dall’altro.

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