Valvointerviste 1988. 3: Marcello Jori

Marcello Jori 1988

Marcello Jori 1988

È per via dell’arte concettuale che mi sono messo a disegnare fumetti. Ho iniziato la mia carriera “ufficiale” di artista in pieno periodo di arte concettuale, e come artista concettuale sono nato. In quel momento, più che soddisfare la mia voglia di manualità e di pittura, cose che ormai non si facevano più, io progettavo i lavori. Il mio era infatti soprattutto un lavoro di progettazione, dopo il quale passavo il progetto agli artigiani, e vedevo realizzate alla fine le mie opere quasi senza toccarle. È stata così questa mancanza di sfogo della manualità a farmi venire una voglia immensa di ricominciare a disegnare e a dipingere; e il fumetto mi sembrava la strada più adatta.

Per di più, l’arte stava diventando totalmente chiusa al mondo esterno; l’artista lavorava su se stesso, lavorava sull’arte, e il lavoro era diventato talmente poco comunicativo che un’altra cosa che mi mancava era proprio la comunicazione, il contatto con il grosso pubblico, il contatto con quel mondo dell’immagine che entrava nelle edicole, dell’immagine che veniva riprodotta: insomma tutto quello che era negato più che mai in quel momento all’artista figurativo. È quindi questo uno dei motivi che mi ha spinto a fare il fumetto; un fumetto comunque, il mio, che era assai poco fumetto, che era quanto di più lontano ci fosse dal fumetto. Un fumetto molto concettuale: ho cominciato a piccoli passi, a piccole dosi. E infatti l’impatto con il pubblico è stato difficile, perché il mio lavoro era quasi offensivo. Io usavo le pagine dei giornali con un segno elementare, usavo magari un’intera pagina per fare una testa, quando invece il pubblico del fumetto allora voleva le pagine piene, voleva il fumetto classico, eccetera eccetera.

All’inizio Minus era di un bianco e nero asciuttissimo, povero povero, elementare, ed è andato poi riempiendosi di colore, e il colore ha introdotto quelle atmosfere, quel lirismo, quella poesia che il personaggio richiedeva. Il colore in Minus è fondamentale, perché è un po’ la poesia del mio fumetto, è quello che riempiva quei grandi vuoti, è quello che creava lo spettacolo in un fumetto che era eccessivamente povero. È ciò che mi permetteva di ricordare, di sognare Klee, cose che non potevo fare in pittura, perché lì non facevo il pittore. Il colore di Minus è influenzato dal colore dell’arte, è influenzato da Klee, da Steinberg, da tutti questi personaggi che stavano altrove e non nel fumetto.

Curiosamente poi, nel momento in cui io passo a Valvoline – e questo è l’unico legame che c’è tra la mia figura di artista e la mia figura di disegnatore di fumetti – nel momento in cui io torno a fare l’artista, cioè ritorno a usare i colori, ad usare le mani, a sfogare la mia manualità, a fare il pittore, ecco che in quel momento incomincio a fare veramente il fumetto fumetto, il vero fumetto; la mia sensibilità ormai gratificata nel mondo dell’arte non aveva infatti più bisogno di fare Minus e di sognare.

E così a questo punto mi è venuta una grande voglia di sottostare a quelle che erano le vere leggi del fumetto, naturalmente da alieno quale ero io, senza in realtà adattarmi perfettamente alle sue regole, ma proprio divertendomi a sbagliare, a finire in altre zone, ad arrivarci anche lentamente, senza copiare nessuno, così come avevo fatto prima con Minus. Il sistema che ho adottato: non guardare nessuno per essere sicuro di arrivare a un prodotto completamente originale, e quindi non guardare neanche come si indica il movimento, come si sintetizzano le cose, niente. Era stato proprio partendo da zero che avevo tentato di ricostruire il mondo con Minus, dove tutto doveva corrispondersi: gli alberi, le case dovevano essere alla Minus. E poi sono ripartito da zero di nuovo nel momento in cui ho incontrato questo gruppo di persone, prima Carpinteri, e poi gli altri amici di Valvoline; ed è stato lì che ho avuto uno dei più grossi impatti emotivi che mi sia mai capitato di avere.

 

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Io sono sempre stato un solitario, come artista e anche come fumettista fino a Minus. Ma nel momento in cui tornavo alla pittura da una parte e arrivavo al fumetto vero dall’altra, scoprivo di trovare più energia cosiddetta artistica in questi fumetti che in qualsiasi pittore che in quel momento ci fosse in circolazione. Ho avuto proprio un colpo di fulmine per il lavoro di Carpinteri, di Igort e degli altri. Ed ecco che ci siamo aggregati, senza capire bene il perché all’inizio, perché io in fondo non avevo niente del loro segno. Avevo però una mentalità che poteva combinare con la loro, e trovavo in loro per la prima volta un modo di affrontare il fumetto da artisti, con quella libertà e quella sorpresa, quel mistero che normalmente era solo nell’arte, e non era mai stato nel fumetto in genere. E loro trovavano in me delle attrattive che non trovavano negli altri autori di fumetti. Ed era anche un momento in cui la sperimentazione era forte, e l’entusiasmo era enorme. E tutto questo curiosamente accadeva proprio nel momento in cui riesplodeva la pittura, in cui riesplodeva nell’arte la grande carica emotiva.

All’inizio della mia storia con Valvoline c’è quindi questa voglia di lavorare insieme, e ci sono le mie esperienze con Carpinteri, dove io portavo la mia mentalità, la  mia follia, il mio squilibrio da una parte, e lui il suo segno dall’altra. E lavorando insieme arrivavamo a fumetti che non erano mai rigorosamente fumetti, che erano profondamente sperimentali e che continuavano a irritare il pubblico, ma che avevano dentro delle tracce di futuro, di un lavoro interessante.

 

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Per arrivare a lavorare con gli altri, per realizzare questa voglia di far fumetto vero, mi sono così convinto a ripartire da zero, a cambiare completamente quello che avevo fatto fino a quel momento, a fare l’opposto di quello che avevo fatto in altri momenti; ma a fare l’opposto anche – almeno a prima vista – dello stile che avevano i miei amici. Ho visto infatti che si stava formando un gruppo molto compatto, compatto anche nello stile, e proprio in quella compattezza, e in quella precisione di stile e impatto notevole vedevo anche la possibilità della fine del gruppo, vedevo il pericolo, la troppa riconoscibilità. E quindi il mio compito, la mia voglia è stata quella di essere il diverso nel gruppo, l’elemento più imprendibile, che avesse la caratteristica della durata nel tempo, che fosse meno consumabile.

Così mi sono quasi violentato. Con quale segno è più difficile fare ricerca, fare avanguardia? Con il realismo. Io sono andato all’opposto di quello che stavano facendo loro. Ho voluto brutalizzare proprio il gruppo, in questo senso, e ho scelto di essere realista fino in fondo, al massimo livello. Sono partito quindi dalla fotografia, per essere al massimo del realismo, per liberarmene poi col passare del tempo. All’inizio il contatto con la fotografia è stato strettissimo, e poi più sono andato avanti e più ho cercato di allontanarmene, arrivando infine ad atmosfere che non sono più legate alla fotografia, ma arrivando ciononostante a uno stile così preciso che anche quando la fotografia non c’è, sembra reale e fotografico quasi allo stesso modo.

Poi, dentro il realismo e oltre il realismo, con la mia prima storia sono andato ancora più a fondo, partendo da quanto di più sgradevole si potesse immaginare in quel momento. Qual era la cosa che interessava in quel momento di meno in assoluto? I contadini, il mondo contadino. Il realismo e il mondo contadino insieme creavano in fondo quanto di meno prevedibile in quel momento si potesse immaginare, e che meno aveva a che fare col lavoro dei miei amici.

 

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Mi è difficile parlare del mondo rappresentato nei miei fumetti. Perché io ho sempre lavorato in una condizione di leggera incoscienza, da una parte lucido e preciso, razionale, e dall’altra uno stato di follia e di non lucidità e di non razionalità voluta, che mi serve a creare le storie. È questo che mi fa nascere le idee. Nelle prime storie che pubblicavo su Frigidaire la storia era irreale, addirittura c’era il contratto con l’aldilà: in una di queste storie il protagonista costruisce un fucile e degli occhiali che per la prima volta vedono l’anima, e dopo aver abbattuto un personaggio, indossa gli occhiali, vede l’anima, innesca un secondo colpo e uccide anche quella. Poi arriva a capire di essere mandato da Dio, di non avere nessuna colpa perché il mondo altro, l’aldilà è talmente zeppo di anime che non ne può più contenere; e quindi la prossima guerra necessiterebbe di armi nuove che eliminino anche quelle. Da una parte un realismo totale quindi, e dall’altra una profondissima irrealtà, ma cercando sempre un equilibrio, cercando di agganciare sempre l’attenzione del pubblico con il vero, perché se ti spingi troppo oltre in questo gioco puoi far svanire ogni interesse per la storia.

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

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Questo è l’estratto dell’intervista a Marcello Jori contenuto nel volume Valvoforme valvocolori. Era il 1988. Le interviste agli altri autori di Valvoline seguiranno nei prossimi giorni. Qui un’introduzione a Valvoline.

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Di cosa fu Valvoline

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

Si è appena chiuso il Comicon di Napoli, con la sezione dedicata ai trent’anni dal supplemento Valvoline su Alter Alter. Cosa è stato Valvoline? Per me certamente qualcosa di importante, visto che mi ha spinto a pubblicare il primo libro della mia vita (copertina qui a fianco).

Ma per me la storia era incominciata già prima del 1983. Non ero rimasto particolarmente impressionato dalle prime prove di Mattotti (“Alé trantran”, “Incidenti”), pur apprezzandole. E anche “Minus” di Jori aveva indubbiamente qualcosa di apprezzabile, senza però appassionarmi… Meglio il Carpinteri che già appariva su Frigidaire. Nel 1982 passai i primi sei mesi dell’anno all’estero. Per non correre il rischio di perdermi qualcosa, mi ero abbonato sia a Linus che ad Alter Alter. Quando tornai, a fine giugno, mi lessi tutti di seguito sei numeri e feci due scoperte cruciali.

Si trattava di “Goodbye Baobab”, di Igort e Daniele Brolli, e di “Il signor Spartaco” di Lorenzo Mattotti. Anche se il mio destino successivo di lettore e critico sarebbe stato legato più a Mattotti che a Igort e Brolli, in quel momento era soprattutto “Goodbye Baobab” ad appassionarmi, quella storia di carne, di ossessione e di morte, narrata lentamente, e soprattutto così diversa dalle cose magnifiche, ma gridate e provocatorie a cui ci aveva abituato Frigidaire, con Pazienza e amici. A me, della storia di Brolli e Igort piacevano soprattutto le pause, i silenzi – silenzi che erano già presenti pure in “Spartaco”, ma non con altrettanta intensità (per Mattotti, bisognerà aspettare “Fuochi”, nel 1984, per trovare dei silenzi ancora migliori).

Il supplemento Valvoline fu il risultato di una sorta di scommessa fatta dalla direttrice di Linus e Alter, Fulvia Serra, con il gruppo degli autori: una sezione della rivista (praticamente la metà delle pagine) interamente gestita da loro. Igort, Brolli, Giorgio Carpinteri, Marcello Jori, Mattotti e Jerry Kramsky. La scommessa fu stravinta dal punto di vista artistico, ma persa da quello commerciale: Alter può vantare il 1983 come il suo anno d’oro, qualitativamente, però commercialmente era già iniziata per il fumetto in Italia l’onda del riflusso, e la difficoltà e l’eccessiva novità di questi nuovi autori accelerarono per Alter la tendenza all’abbandono.

In che cosa consisteva la novità di Valvoline in quegli anni? Bisogna precisare, prima di tutto, che la novità di questi autori non era un caso isolato nel deserto. Nel calderone effervescente del nuovo fumetto italiano, tutto proteso al rinnovamento e alla maturità del fumetto come forma artistica, si distingueva una corrente più politicizzata e movimentista, di cui Frigidaire era la rivista di bandiera, e Pazienza, Scòzzari, Tamburini e Mattioli tra i principali rappresentanti; a fianco di questa, non del tutto distinguibile, e non di rado implicata nelle stesse operazioni, c’era un’altra corrente più espressiva e artistica. Di questa seconda corrente, Valvoline rappresentava, se vogliamo, il momento di punta, la componente di avanguardia organizzata.

Ecco, con il senno di poi (perché all’epoca la mia adesione ideologica era totale), mi verrebbe da dire oggi che gli autori di Valvoline hanno fatto le cose giuste per le ragioni sbagliate. Se davvero lo dicessi starei però esagerando, perché la poliedricità e l’attenzione a diversi linguaggi mediatici che caratterizzavano quegli autori non aveva nulla di sbagliato. Quello che, col senno di poi, mi disturba oggi, è un po’ l’imitazione dei comportamenti dei gruppi e dell’avanguardie pittoriche che caratterizzò Valvoline proprio nel suo essere un gruppo; un’avvicinamento al mondo dell’arte visiva che valse indubbiamente a Valvoline (e dintorni) uno spazio nella grande mostra di Renato Barilli Anni Ottanta, ma che aveva ugualmente un che di artificioso, un che di adeguamento agli stili dominanti…

Comunque, la mossa politicamente riuscì, e alla fin fine si rivelò davvero più una mossa politica che di sostanza. A rileggerle oggi, quelle storie del supplemento Valvoline sono tutte bellissime storie a fumetti, persino quella del più “artista” del gruppo, Marcello Jori, da far rimpiangere che lui, come pure Carpinteri, dopo qualche anno abbiano abbandonato del tutto il campo del fumetto. L’accusa di estetismo, che aleggiava su Valvoline in quegli anni, alla resa dei conti si rivela infondata, basata più sull’apparenza che sui risultati. A rileggere oggi quelle storie, ci si accorge benissimo che quella grafica che appariva allora così sconvolgentemente innovativa, era però perfettamente adeguata alle storie che raccontava. E c’era forse sì un accenno di spocchia artistoide in alcuni degli autori, ma poi le loro opere non erano affatto degli scimmiottamenti a fumetti delle arti visive; al contrario, erano il lavoro di autori di fumetti appassionati a quello che stavano facendo, che però conoscevano anche l’arte, e ne sfruttavano le forme e le potenzialità espressive.

Solo se si capisce questo, si capisce anche perché, nell’anno da lui trascorso in Italia, Charles Burns non abbia avuto problemi ad essere cooptato dal gruppo, diventandone un componente effettivo. Il suo atteggiamento nei confronti delle arti visive, in fin dei conti, non è molto diverso da quello, per esempio, di Igort; è solo che, essendo americano, le sue arti visive di riferimento sono un po’ differenti…

Come andò che realizzai quel libro? Fu Igort a propormelo, dopo due anni che esisteva già un progetto di un libro sul gruppo, che però ristagnava, e l’autore non dava segni di vita. Andai dall’editore, e feci la mia proposta. Seguirono non so quanti incontri con gli autori, per le interviste e la selezione delle immagini. Il libro uscì nel 1990, quando ormai il gruppo esisteva solo nominalmente.

La mia introduzione al volume può essere scaricata da qui.

Qui invece c’è una pagina di Facebook dedicata ad allora (dietro alla quale sospetto si nasconda Igort).

Un’ultima cosa. Nel 1983 Marcello Jori aveva 32 anni, Jerry Kramsky 30, Lorenzo Mattotti  29, Igort e Giorgio Carpinteri 25, Daniele Brolli 24, Valvoline (di fatto) 3.

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di Daniele Barbieri

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