Frank Miller, Holy Terror, p.80
L’idea del superuomo, in sé, è un’idea consolatoria e infantile. È del tutto naturale che a un bambino possa piacere l’idea che ci sia qualcuno, più grande e più potente, che venga a risolvere con facilità dei problemi più grandi di lui; ed è anche ragionevole che un bambino possa appassionarsi alle avventure di questo potente genitore. Meno ragionevole è che vi si possa appassionare un adulto; ma ugualmente succede, e molti aspetti di varie religioni esistono pure per questo – e magari, storicamente, l’Illuminismo è andato vincendo la sua battaglia contro la religione proprio mettendone in luce l’infantilismo di certi suoi aspetti.
Dei limiti del concetto di supereroe nel fumetto americano si accorgono in tanti, e sin dall’inizio. Ma la storia che mi interessa, qui oggi, è quella di coloro che non vogliono abbandonare il genere, pur rendendosi conto dei limiti dell’idea che gli sta al centro (non intendo perciò parlare qui delle parodie, magari semi-interne, alla Will Eisner o alla Jack Cole). Per contrastare la grande crisi del fumetto di supereroi degli anni Cinquanta, i primi a prendere interessanti provvedimenti in merito sono dunque, proprio cinquant’anni fa, Jack Kirby e Stan Lee; la formula “supereroi con superproblemi” serve proprio a questo: spostare la focalizzazione narrativa da fuori a dentro l’eroe, rendendolo in tal modo più umano. Se fino a quel momento i supereroi DC erano stati una sorta di semidei, narrati da fuori, visti dal punto di vista del mondo e di quello che mostruosamente e meravigliosamente essi fanno, rispetto alla normalità degli esseri umani normali, i nuovi supereroi della Marvel, grazie al nuovo punto di vista, alla nuova focalizzazione, si rivelano al lettore come uomini normali alle prese con l’ulteriore problema (e l’ulteriore grande responsabilità) di avere dei grandi poteri. Se prima il gioco era: guarda cosa può fare per te un essere con superpoteri; adesso è diventato: pensa a come potresti essere tu, se ti capitasse di acquisire di colpo dei superpoteri!
Il nuovo gioco della Marvel regge alla grande per una decina d’anni. Non c’è dubbio che la sua ricchezza potenziale è molto maggiore che nella versione precedente. Ma le conseguenze della contestazione giovanile degli anni Sessanta e Settanta, e l’aumentata consapevolezza politica che ne deriva, mietono vittime anche qui. Negli anni Settanta la figura del supereroe è complessivamente in crisi, e non basta nemmeno più, a salvarlo, il cambio di focalizzazione. Diventa evidente, cioè, che il cambio di focalizzazione non è affatto, in fin dei conti, una problematizzazione, una messa in discussione dell’idea di superuomo e delle sue conseguenze. Il supereroe Marvel, benché più umano, non è meno straordinario e ammirabile di quello tradizionale DC.
Per superare questa seconda crisi ci vuole altro. Se ne accorge, per esempio, Neil Adams, il cui Batman (con Dennis O’Neil) gotico, nero, tormentato, è tra i pochi sopravvissuti alla moria di personaggi del decennio. E (la storia la conosciamo) lo capisce benissimo, meglio di chiunque altro, Frank Miller, che, dopo altre prove interessanti, alla metà degli anni Ottanta fa proprio di Batman il proprio cavallo di battaglia per il rilancio del fumetto di supereroi in chiave adulta. Miller si rende conto benissimo che l’idea del supereroe come personaggio è potente ma in sé poverissima: è potente perché permette esiti estremamente spettacolari, ma è anche poverissima proprio perché troppo infantile, troppo ingenua – e l’espediente di Kirby e Lee (pur indicando la giusta via) è ormai ampiamente insufficiente a risvegliare l’interesse di un pubblico adulto.
Miller non è da solo, negli anni Ottanta, a intuire il problema e a suggerire vie di soluzione. Ma è certamente colui che riesce a perseguire con maggiore chiarezza ed efficacia una via interna al mito del supereroe, problematizzandolo sia eticamente che psicologicamente, mettendolo in crisi, anche profondamente, ma sempre con l’idea di rivitalizzare il genere, non di affossarlo. Ben diverso, per esempio, è lo spirito con cui agisce Alan Moore, il cui Watchmen è una critica spietata all’idea stessa di supereroe, e alla stessa possibilità di glorificarne le imprese. Anche Watchmen finisce per contribuire alla rinascita del genere, ma probabilmente è proprio perché il Dark Knight Returns di Miller ha già impostato e reso credibile l’idea di una critica costruttiva e adulta, e quindi la possibilità stessa di un genere supereroi rinnovato, accettabile anche a livello adulto. Certo, si tratta di una mossa che ha senso in un mondo in cui esistono lettori adulti che hanno amato quel genere da bambini e adolescenti, e ora si trovano nella condizione di poter rinnovare l’interesse – in qualche modo ricollegando la consapevolezza adulta con la passione infantile, potendo rileggere nella complessità quello che, anni prima, amavano in un contesto di semplicità che, passata l’infanzia, apparirebbe solo ridicola.
Dato questo contesto, la mossa di Miller è straordinaria. Il suo Batman è eticamente e psicologicamente sfaccettato; tutte le sue scelte si trovano discusse all’interno della storia stessa, e messe in discussione persino da lui stesso. Persino l’idea stessa di supereroe si trova messa in discussione attraverso la figura meschina che viene fatta fare al supereroe per antonomasia, proprio Superman, nella sua integrità (e stupidità): in Dark Knight, Superman perde contro Batman perché non è capace di mettersi in discussione, e accetta acriticamente le linee di comportamento che gli arrivano dal potere.
Date queste premesse, poco mi importava allora delle critiche di coloro che mi avvertivano che Miller era di destra. Probabilmente era già vero, ed essi avevano ragione, ma il suo Daredevil e il suo Batman mettevano in scena dei valori in cui mi potevo benissimo riconoscere anch’io, che di destra proprio non sono. Sinché il fulcro del discorso sul superuomo sta nel senso del suo esistere e del suo agire, e nella propriocezione disforica del suo essere tale, poco mi importa che poi la conclusione di Miller è che è un bene che il superuomo ci sia: su questo non sarò d’accordo, ma su come mi viene presentata la situazione (e questo come è quello che conta) sì. E potrò perciò appassionarmi in una problematica in cui riesco a riconoscermi, e quindi persino godere di una spettacolarità che, nel suo eccesso ostentato, mi può apparire a sua volta come implicita critica pur mantenendo l’impronta spettacolare.
In altre parole, se anche magari, alla fin fine, The Dark Knight Returns suggerisce un discorso di destra, il grosso della sua costruzione, a monte di tale fin fine, è godibile e appassionante anche da parte di un lettore di sinistra, perché al centro del discorso c’è un tema, un problema, un nodo problematico, e non una soluzione, una proposta di direzione da prendere. Quella, se c’è, è talmente marginale e sfumata da non creare problema: è molto facile persino accettarla, persino non condividendola. Basta confinarla nel dominio del mondo della storia raccontata, che non è il nostro. E se poi proprio non la vogliamo accettare nemmeno lì, pazienza: sarà solo questo che ci dividerà da Frank Miller: un dettaglio, neanche tanto significativo.
Credo che a nessuno sia mai venuto in mente di etichettare come propaganda né Dark Knight né nessuno dei lavori del Miller di quegli anni. Col tempo, e progressivamente, le cose sono cambiate. I fumetti di Frank Miller sono cambiati.
Non ho apprezzato 300, nonostante le qualità grafiche e di regia di Miller, perché il messaggio mi sembrava già troppo scoperto e troppo diretto: non era più il dubbio, la problematicità, a dominare la scena, ma un’inossidabile certezza. Miller era, al momento, ancora in qualche modo, velato nell’esprimersi. La versione cinematografica di Zack Snyder, nonostante tutte le sue qualità di regia e scenografie, toglieva comunque gli eventuali dubbi residui (vedi, su questo, un bellissimo testo del 2007 di Wu Ming 1, qui); ma qualche anno, intanto, era passato, e quindi magari i dubbi residui erano scomparsi pure nel medesimo Miller. Ho continuato ad apprezzare, con qualche riserva, Sin City, perché il mondo in cui si trova ambientato è talmente assurdo e di maniera che non è difficile considerare Sin City come un esercizio di stile. A lungo andare, tuttavia, gli esercizi di stile possono apparire un po’ troppo fini a se stessi, e annoiare. Ho resistito a lungo, temendo il peggio, ad andare a vedere The Spirit. Avrei fatto bene a continuare a resistere: Will Eisner non faceva esercizi di stile, e vedere ridotto il suo mondo a quello, e solo a quello (proprio cercando a tutti i costi di non vedere le implicazioni ideologiche del film), è qualcosa che mi ha fatto male.
In Holy Terror, del Miller che a suo tempo mi ha fatto sognare, è rimasta solo l’abilità registica. Il resto è propaganda ed esercizio di stile. Neppure il disegno è quello di un tempo, piegato com’è, oggi, a sostenere le esigenze di una spettacolarizzazione reboante e finalizzata a convincere. Che sia propaganda me l’ha suggerito Miller stesso, nel suo blog. Miller sostiene una tesi paranoica, ovvero che, fondamentalmente, tutto quello che viene pubblicato è propaganda, i giornali non fanno altro che propaganda, i fumetti di supereroi degli anni Quaranta facevano propaganda: dunque perché non dovrebbe farla lui?
Ma lui stesso non faceva propaganda quando il dubbio era il protagonista delle sue storie, e i giornali stessi non fanno propaganda quando discutono delle idee e accettano quelle degli altri; e, sì, Capitan America era davvero un fumetto di propaganda, ma in quegli anni gli USA erano in guerra. La tesi di Miller è, evidentemente, che gli USA sono in guerra anche oggi, e questo giustifica tutto: poiché non può essere lui a prendere in mano il fucile, quello che può fare è questo.
Al di là dell’inaccettabilità di una tesi del genere, potrebbe ancora capitare che un autore paranoico, convinto di tesi assurde, possa produrre un’opera interessante. Ma Holy Terror è indifendibile da molti punti di vista: non ci troverete niente che non sia stato già visto e rivisto in lavori precedenti, salvo che mentre in Sin City la retorica dell’eroismo personale si trova sempre in qualche modo messa a contrasto con la dubbia moralità dei personaggi (ladri, balordi e prostitute – in un’oscura prospettiva di redenzione), qui il cattivo è cattivo e basta, e non è solo l’Islam e Al Qaida, ma sotto sotto c’è persino l’interesse economico – poiché evidentemente, quando uno è davvero cattivo come lo sono i terroristi, se non è stupido deve averci un interesse personale.
Solo nella propaganda di guerra si può vedere il nemico dipinto a tinte così esclusivamente e drasticamente negative e disprezzabili. Solo nella propaganda di guerra è necessario dipingere l’eroe (cioè noi) a tinte così immacolate e infantili. Confesso che credevo che queste cose fossero scomparse da un pezzo, o relegate a produzioni davvero da poco, quelle che definirle “fumetto popolare” è offensivo persino per il fumetto popolare e chi lo produce con onore.
Frank Miller crede di essere in guerra. Il che spiega anche le sue boutade contro Occupy, di cui abbiamo parlato la scorsa settimana. Se siete convinti di essere in guerra contro l’Islam, forse potete godervi questa roba. Non venitemi a raccontare che Miller fa differenza tra l’Islam e Al Qaida: in Holy Terror questa differenza non si vede. Quando si è in guerra, comunque, non si può davvero andare per il sottile. La guerra giustifica tutto, anche la stupidità.
Addio, Frank Miller. Sarebbe bello che la tua prossima mossa smentisse quello che ho detto. Sarei felice di aver torto, e di ritrovare l’autore che ho conosciuto anni fa. Sarei felice di poter apprezzare un autore di destra. Temo però davvero che non lo farai, confermando cupamente gli stereotipi che girano tra noi di sinistra su quelli di destra, lasciandoci pensare che i nostri luoghi comuni abbiano un fondamento. Dai Frank, dimostra che abbiamo torto! Te ne sarei davvero grato, e per più ragioni.
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