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Valvointerviste 1988. 5: Charles Burns

Charles Burns 1988

Charles Burns 1988

Ho iniziato a disegnare fumetti giovanissimo. Prima ancora di imparare a leggere, guardavo fumetti come Tin Tin di Hergé, e Mickey Mouse, e anche Pogo di Walt Kelly. Il fatto è che a mio padre piacevano i fumetti e ne possedeva molti libri, e io avevo perciò anche da giovanissimo la possibilità di leggerli. In America, quando ero piccolo, i fumetti erano considerati una pessima cosa, erano visti come spazzatura, immondizia; e io sono stato in effetti molto fortunato ad avere una famiglia a cui non interessava il fatto che potesse trattarsi di immondizia.

In seguito sono andato a scuola d’arte, e lì ho studiato disegno e pittura e scultura, cose che non sono necessariamente collegate al malconsiderato fumetto. Eppure, a un certo momento della mia vita ho sentito che quello che mi interessava era proprio il suo modo di espressione: mi colpiva il fatto che i fumetti fossero un medium molto accessibile, estremamente poco costoso; non come le belle arti, non come la pittura o la scultura, rispetto alle quali è necessario essere molto ricchi o raffinati per comprendere e per comperare. Bastano pochi soldi per accedere ai fumetti.

Oltre ad Herge, del quale apprezzavo la chiarezza della linea e la chiarezza delle storie – storie molto forti e semplici, ma splendide – sono stato lettore di tutti i vari comic book americani, come i super eroi, Batman, Superman, Spiderman, e così via. Conoscevo anche alcuni buoni fumettisti dei giornali, come Al Capp, che faceva Li’l Abner, Walt Kelly con Pogo, e Chester Gould, che faceva Dick Tracy. Più avanti, quando ho incominciato a crescere, all’epoca dei tredici o quattordici anni, ho conosciuto i fumetti underground, e quella è stata una vera rivelazione: artisti come Robert Crumb, e altri ancora, erano davvero potenti, perché mentre la maggior parte dei fumetti erano per ragazzini e ragazzine, quelli erano per la prima volta fumetti per adulti, che parlavano di cose da adulti.

 

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Ho incominciato a interessarmi alla qualità grafica dei miei fumetti molto presto, quando ero ancora molto giovane. Mi interessava disegnare immagini di forte attrazione, mentre mi interessava molto meno raccontare. A un certo punto, tuttavia, circa otto o dieci anni fa, mi sono reso conto che avrei potuto comunicare meglio se avessi potuto disporre della combinazione di una storia – una storia molto forte – e di una grafica altrettanto forte. Penso di essere migliore come artista che come scrittore, ma penso anche che la combinazione di scrittura e immagine crei un tipo di espressione forte, la più forte di cui mi senta capace. Mi sono anche reso conto, a un certo punto della mia vita, che volevo raccontare storie molto chiare e pulite, chiare da un punto di vista grafico, e chiare nella sceneggiatura; e ho cercato da allora di evitare le oscurità inutili, ho cercato di creare le più semplici e chiare presentazioni possibili.

 

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Io voglio raccontare storie forti, e per qualche ragione gravito nei mondi delle storie di horror. Quando racconto una storia molto forte qualche volta la trovo troppo seria, e dopo un poco mi rendo conto che è necessario un po’ di umorismo per renderla più appetibile, più accettabile. Penso che  humor e horror vadano molto bene assieme; in America il nome è “black humor”, umorismo nero, ed è un buon appellativo. Ci sono molti fumetti di horror in America e sembrano tutti seguire una formula molto semplice, banale; come fa anche il cinema horror americano, nel quale esiste una formula semplicissima per spaventare il pubblico. Per parte mia, io ho cercato di non fare riferimento a queste formule; ho cercato di creare un nuovo stile di horror.

 

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E’ comunque piuttosto ovvio, guardando alla maggior parte delle mie storie, che io sono influenzato dalla fiction di genere in generale, e quando si dice fiction di genere si intende, oltre allo horror, anche fantascienza, poliziesco. A dir la verità sono molti quelli che  mi hanno domandato se io sia un accanito lettore di romanzi di fantascienza, e la risposta è no. In genere trovo la fantascienza molto noiosa; non mi interessa molto. Quello che mi piace è il romanzo poliziesco americano duro, tradizionale, quello che viene da Raymond Chandler. Tuttavia, non lavoro in senso stretto con questa tradizione; si fa uso delle strutture ma non si rimane nella tradizione. Preferisco usare cose più bizzarre, che parlino degli aspetti strani della cultura americana. In fin dei conti, io uso la struttura del romanzo poliziesco come un metodo per scoprire certi aspetti della cultura americana a cui sono interessato. Uso il mio detective, El Borbah, per esempio, come colui che scopre i fatti, scopre la storia che a me interessa scoprire, qualsiasi siano le strane circostanze che la circondano.

Sono anche piuttosto influenzato dal cinema, specialmente da quello cattivo, dal cinema americano di pessimo livello. Mi è stato già domandato come mai io sia tanto attratto dai film di fantascienza e di horror, quelli peggiori. Non mi è facile spiegare quello che vi trovo. Quando guardo film veramente brutti, da pochi soldi, degli anni quaranta, dei cinquanta o dei sessanta, proprio per il fatto che sono stati realizzati con così poca spesa, pochi mezzi, pessimi attori e pessime sceneggiature, emerge da tutti questi fattori una certa verità, una certa onestà, e questa onestà è difficile da spiegare; ma qualche volta penso che quei film siano più onesti e più trasparenti di quanto non lo siano film più costosi e raffinati, perché in fin dei conti parlano in un linguaggio molto comune, un linguaggio veramente non raffinato. Questi film esistono solo per sfruttare la situazione, esistono solo per ragioni di denaro, e quindi ogni strana verità vi può emergere.

 

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I supereroi, e i comic book in generale sono un fenomeno americano, e sono qualcosa a cui io non posso sfuggire. Sono qualcosa insieme con cui io sono cresciuto, e li capisco molto bene; ma continuo a pensare che siano una creazione per ragazzi, per ragazzi dai cinque ai quattordici anni. Ci sono persone che non crescono mai, non superano mai quell’età; a loro i supereroi piacciono sempre. C’è un problema in America, che deriva dal fatto che le persone che crescono leggendo supereroi finiscono poi a disegnare e a scrivere storie di supereroi. Non arrivano loro influenze dal mondo dell’arte, non arriva nessuna influenza al di là di quella dei fumetti di supereroi, e così essi finiscono per produrre brutte versioni di brutti fumetti; producono immondizia in cima all’immondizia. Non creano nulla di nuovo. Imparano, per esempio, a disegnare dai fumetti, e non imparano dalla vita o dalla propria esperienza. Per questo considero i supereroi come responsabili di una situazione pessima, perché non vi è nessuna possibilità di crescita, non vi è luogo ove si possa crescere.

 

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Da giovane reagivo contro la pop art perché assomigliava ai fumetti. La pop art assomiglia ai fumetti dei comic book per il suo legame con la narrazione e per il suo umorismo. Ora la apprezzo per queste stesse ragioni: penso che essa sia davvero in buona parte così perché ha distrutto alcune nozioni sulla serietà delle belle arti, e ha dimostrato che si può ricavare arte partendo dall’immondizia. C’è bellezza nel mondo commerciale, c’è qualcosa di interessante in ogni parte del nostro ambiente, se si possiede un occhio buono. Penso che la pop art abbia avuto ragione a distruggere la santità delle belle arti, a distruggere l’atteggiamento che mette le belle arti sul trono.

 

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Sono stato in Italia due anni e non parlavo bene italiano. La situazione era sempre quella in cui i componenti del gruppo Valvoline parlavano un ottimo inglese, mentre io parlavo pochissimo o niente italiano. Perciò, ovviamente, per la partecipazione ad un gruppo di artisti, la cosa si presentava piuttosto difficile. Ma penso che più importante sia stato il fatto che potevo finalmente condividere le mie idee su fumetti e grafica con gli altri del gruppo, e loro mi potevano mostrare da vicino quello che facevano e quello a cui erano interessati. La mia partecipazione interiore a Valvoline è stata decisamente positiva e coinvolgente; può sembrare stupido ma la sensazione globale era molto forte.

Mentre ero in Italia mi veniva domandato “Perché non crei un fumetto, una storia sulla tua esperienza in Italia?”, e sebbene fossi molto impressionato dall’Italia, e ne apprezzassi moltissimo la cultura, rimane il fatto che io mi sento comunque troppo strettamente legato alla cultura americana: sono sempre stato americano, che mi piaccia o no. Qualche volta non mi piace, per ragioni politiche molto ovvie, come Ronald Reagan. D’altra parte, i due anni che ho passato in Italia hanno reso la mia visione dell’America molto più forte. Mi hanno messo infatti in grado di guardare la cultura americana da un diverso punto di vista e di capire che è ancora più strana e oscura e brutta di quanto avessi capito prima. In un certo senso la cultura americana è molto forte, ma penso che resti comunque vero che è molto strana, e molto difficile.

Lo horror è il mezzo di espressione che mi piace usare per esprimere la mia visione di questa cultura, la mia visione del lato oscuro dell’America. Come ho già detto, penso anche che ci dovrebbe essere sempre dello humor nello horror, ci dovrebbe essere sempre humor nel lato oscuro; mi sembra cioè, in definitiva, che il modo migliore per esprimere il mio punto di vista sulla cultura americana sia attraverso horror e humor.

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

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Questo è l’estratto dell’intervista a Charles Burns contenuto nel volume Valvoforme valvocolori. Era il 1988. Le interviste Jerry Kramsky e Lorenzo Mattotti seguiranno nei prossimi giorni. Qui un’introduzione a Valvoline.

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