Mi domanda uno studente se non ci sia qualche relazione tra l’action painting di Jackson Pollock (cui ho già dedicato in questi giorni due post, qui e qui) e la calligrafia cinese. Gli rispondo che non ho notizie precise in merito, ma la cosa mi sembra ugualmente piuttosto probabile, soprattutto pensando a Zhang Xu, un calligrafo dell’VIII secolo, perché queste cose girano da tempo in Occidente – e senza arrivare a questo estremo di precisione, basta considerare l’importanza del giapponismo e la presenza costante dell’immaginario visivo giapponese, calligrafia artistica compresa (il Giappone non è la Cina, certo, ma le loro tradizioni calligrafiche sono molto vicine).
Poi faccio una ricerca rapida sul Web e trovo qua e là dei riferimenti non documentati, secondo i quali Pollock si sarebbe ispirato a Huai Su (il discepolo di Zhang Xu) e avrebbe dichiarato pubblicamente i propri debiti nei confronti della calligrafia cinese. Da nessuna parte mi viene fornito un riferimento preciso, per cui le propongo per come le ho trovate, mettendoci davanti un bel “è possibile che…”, “è plausibile che…”.
Non mi interessa in verità approfondire di più, dal punto di vista storico. Che Pollock sia arrivato alla propria procedura su ispirazione dalla calligrafia cinese (o giapponese) oppure che ci sia arrivato per altre vie, comunque la somiglianza formale tra le due procedure e i loro risultati esiste. Quello che mi colpisce è che mentre in Occidente questo modo di procedere appare come una novità del XX secolo, in Cina è invece una procedura antica e tradizionale, oggetto di innumerevoli aneddoti (come la storiella del pittore, dell’imperatore e del granchio riportata da Calvino nella sezione “Rapidità” delle sue Lezioni Americane). E in ogni caso, anche se davvero Pollock si è ispirato alla procedura cinese, bisognava che lui stesso e l’ambiente che lo riceveva fossero pronti ad accogliere un approccio davvero diverso da quello normale per noi.
La novità di Pollock in Occidente non sta tanto nella priorità data alla fluidità e continuità del gesto, quanto nel fatto che l’opera, il dipinto, propone di essere visto più come un indizio della danza creativa che l’autore ha effettuato nel comporlo, che non come una composizione plastica. Naturalmente non è che la composizione nei suoi dipinti sia irrilevante, così come non era irrilevante, per la pittura occidentale prima di Pollock, la natura indiziale dei tratti di colore per ricostruire la manualità del pittore. Quello che cambia, con Pollock, è il maggiore o minore rilievo da attribuirsi all’una o all’altra: quando guardiamo un dipinto, poniamo, di Kandinsky, è certamente molto più importante comprenderne la composizione, che non analizzare le pennellate per vedere come l’autore si sia mosso nel realizzarla. In Pollock succede invece il contrario, e nel corsivo selvaggio dei calligrafi cinesi pure.
Questa differenza evidente ne sottende una più profonda, che riguarda il senso stesso della comunicazione espressiva: la potremmo descrivere come una differenza tra progettazione e improvvisazione. Questa opposizione, in Occidente, ci è tradizionalmente familiare in un contesto piuttosto piccolo, che contiene sostanzialmente la musica e il teatro, ed è dunque soltanto lì che possiamo facilmente analizzarla nel dettaglio. Tutte le altre arti, infatti, si basano su un supporto statico (o realizzano opere statiche, come la scultura o l’architettura); mentre la musica si manifesta soltanto nel divenire dell’esecuzione e dell’ascolto, e il teatro nel divenire della performance. Ma il teatro ha praticamente da sempre una sua versione scritta, e da oltre mille anni pure la musica può essere registrata su un supporto statico.
È per questo che la dialettica tra progetto e improvvisazione caratterizza in maniera sostanziale queste due arti, per le quali il supporto statico è soltanto un espediente mnemonico (e progettuale), ma che vivono sostanzialmente della propria natura dinamica nell’atto stesso del proprio realizzarsi di fronte al pubblico.
Prendiamo la musica, nella sua versione colta. L’a solo improvvisato (o cadenza) è una costante dei concerti per strumento e orchestra dal Settecento in poi, almeno sino a quando il fossilizzarsi della tradizione non lo trasforma a sua volta in un pezzo scritto, spesso da parte dell’autore medesimo del concerto; così che la libertà dell’esecutore si riduce alla scelta di una cadenza piuttosto che di un’altra. La musica colta occidentale è dunque nel corso della storia sempre più scritta, più progettata a monte. È solo nel momento in cui il jazz assume i caratteri della musica colta che il momento dell’improvvisazione torna in gioco, e ritorna legittimo nell’ascolto la comprensione della musica come tramite di uno stato del momento.
Per quanto la scrittura permetta alla musica di raggiungere livelli di complessità impensabili in sua assenza, configurando la partitura come progetto preciso di un’esecuzione, c’è qualcosa di cruciale che viene perduto in questo. L’idea della musica come progetto si basa su, e insieme sostiene, una concezione formalistica, plastica, del flusso musicale, mettendo in secondo piano gli elementi di compresenza, compartecipazione, consonanza tra i partecipanti – quegli stessi elementi che vengono invece enfatizzati dalle performance improvvisative.
Ma poiché la musica comunque non si risolve nella sua dimensione scritta, e comunque richiede di essere eseguita, essa non è mai del tutto riducibile alla propria costruzione formale, e le componenti gestuali, dirette, del momento, che caratterizzano l’esecuzione, non smettono mai di avere importanza.
In questa prospettiva di carattere optocentrico, è chiaro come invece la comunicazione visiva possa davvero interamente risolversi nella costruzione formale – poiché non c’è necessità di alcuna trasformazione successiva, che possa metterla in discussione. Ciò che Pollock e i calligrafi cinesi hanno in comune è dunque proprio una certa riduzione dell’optocentrismo, a vantaggio di una valutazione del segno grafico che ha aspetti di tipo musicale, poiché mette (tendenzialmente) in sintonia il gesto del fruitore (che segue l’andamento) col gesto dell’autore (che lo ha creato).
Dovremmo assumere, in questa prospettiva, che la cultura cinese sia tradizionalmente meno optocentrica della nostra, visto che mentre da noi si tende a una concezione visiva anche del sonoro, in essa vi sono tracce di una concezione di carattere musicale anche del visivo. Da noi, la valorizzazione dell’improvvisazione al di fuori del campo musicale (e teatrale) si fonda sulle conseguenze di una concezione romantica dell’arte come espressione dell’io, o della sua variante surrealista dove al posto dell’io viene messo l’inconscio. Ma è difficile postulare qualcosa di simile per la Cina dell’ottavo secolo – tanto più che questa concezione non è affatto necessaria per valorizzare l’improvvisazione.
Magari è solo perché i Cinesi non hanno avuto Platone, e la scrittura è rimasta manifestazione della parola senza che la parola dovesse identificarsi col pensiero razionale, o logos. In principio c’era altro, evidentemente, là.
secondo me il nocciolo dell’arte di Pollock è proprio nel rilievo dato alla “processualità” da cui scaturisce l’impossibilità di scindere forma e contenuto. è questa secondo me -più che l’idea del dripping o dell’improvvisazione- la vera grandezza, non solo di Pollock ma di tutta l’arte americana che deriva da lui. e che ti aiuta a capire anche perché gli americani hanno avuto The Spirit e noi Tex.
Se contrappongo improvvisazione a progettualità, l’improvvisazione coincide di fatto, nella pratica delle cose, con la “processualità”. Se c’è un progetto a monte, la “processualità” fa parte di ciò che è progettato; ma se l’opera è improvvisata, la “processualità” è inevitabilmente nel pensiero e nell’opera stessa.
Quanto a forma e contenuto, sono nozioni molto incerte, almeno nel loro uso comune. Le forme hanno di per sé un contenuto; i contenuti hanno di per sé una forma. Contenuto e forma sono sempre inscindibili, salvo che gli obiettivi comunicativi siano così ben definiti da farle coincidere rispettivamente con ciò di cui si parla e il modo in cui lo si fa; ma questo non è mai, e non è mai stato, il caso dell’arte. E anche nella comunicazione quotidiana, è comunque discutibile.
Per questo non riesco proprio a capire come si possa derivare da questo il fatto che in USA c’è stato The Spirit e da noi Tex.
ti chiedo scusa, non volevo essere scortese…forse sono entrato un pochino a gamba tesa.
In ogni caso Pollock fa una cosa che praticamente nessuno prima di lui aveva fatto: si costruisce un sistema di regole utilizzando ancora tele e pennelli, ma in una maniera assolutamente idiosincratica. Queste regole (che includono, ma non si risolvono esclusivamente nella danza o nell’improvvisazione) definiscono il suo quadro, al punto che oggi il suo lavoro è inscindibile dalle foto di Namuth che ne spiegano il processo di formazione. Ora, questo approccio in parte è un lascito delle avanguardie (pensa a Mondrian: colori primari e linee ortogonali). Ma Mondrian è ancora un pittore “da cavalletto” che non mette in discussione la pittura in sé, è il procedimento con cui lui o altri pittori modernisti dipingono è ancora tradizionale. lo stesso vale per Picasso: nudi, nature morte, ritratti. Soggetti tradizionali, ma dipinti in maniera nuova. E invece dopo Pollock la pittura da cavalletto è morta, kaputt.
Da questo momento il significato di molta arte diventa inscindibile dalle leggi che ne regolano il processo di formazione: pensa a tutta l’arte processuale (Bruce Naumann, Robert Morris, Richard Serra). non so se rieco a spiegarmi…è qualcosa che va oltre il semplice ricorso all’improvvisazione. se prendi la famosa performance di Richard Serra (Casting, alla galleria Leo castelli nel 1968), lui da Pollock prende: la danza, il dripping, l’orizzontalità e l’attrazione gravitazionale, e il caso. Ma, nonostante una certa dose di improvvisazione, l’opera è determinata da un sistema di regole decise a tavolino. Oppure i feltri di Morris: anche qui il gesto, la gravità, il caso, ma c’è poca improvvisazione. i pavimenti calpestabili di Carl Andre riproducono il campo orizzontale della pittura di Pollock ma, nelle leggi che ne regolano la costruzione, non c’è alcun ricorso all’improvvisazione.
In altre parole che Pollock improvvisi, nel momento in cui si mette a danzare sul suo quadro, è certamente vero ma, per poterlo fare, prima ha dovuto decidere un nuovo sistema di regole che gli permettesero di farlo. di conseguenza, anche se può sembrare paradossale, c’è anche una componente “progettuale”, che è altrettanto forte del ricorso all’improvvisazione. Molta critica a lui contemporanea – quella a cui secondo me tu ti rifai- metteva in evidenza maggiormente l’aspetto performativo; successivamente, alla luce della sua influenza sugli artisti delle generazioni successive, è emersa anche un’altra posizione critica (per esempio quella di R. Krauss) che considera centrale non tanto la danza e ancor meno l’improvvisazione, quanto piuttosto il ricorso all’orizzontalità, il suo legame con il caso e l’attrazione gravitazionale e, più in generale, il ricorrere a un sistema di regole che determinino quasi automaticamente il processo di creazione dell’opera. il significato di un’opera di Pollock e di molta arte successiva è inscindibile dal modo in cui viene prodotta, e lo dimostra il fatto che tutte le volte bisogna tirare fuori le foto di Namuth.
Se prendi invece la pittura fiamminga invece le cose stanno diversamente: il procedimento che la regola è codificato rigidamente in una serie di stadi successivi che si ripetono pedissequamente (imprmitura, studio tonale, grisaille, velature ecc), ma queste regole molto rigide valevano per tutti coloro che dipingevano a quel tempo e non diventavano parte del significato dell’opera.
Caro Emanuele, poiché mi sento di condividere gran parte delle cose che dici, probabilmente è necessaria una precisazione alla mia posizione.
Non intendo l’opposizione progetto/improvvisazione in senso polare e discreto, ma come una sorta di continuo. In altre parole, un’opera può essere interamente progettata, ovvero controllata nel suo farsi dal progetto; il che non vuol dire necessariamente che il prodotto finale corrisponde esattamente al progetto iniziale, ma che questo progetto esiste e che in ogni momento dello sviluppo può essere modificato globalmente, in modo che comunque il controllo è globale in ogni momento dell’esecuzione. Mi va bene, a questo scopo, l’esempio che mi fai della pittura fiamminga; ma preferisco un altro esempio, musicale: quello della partitura. Non ha nessuna importanza, infatti, il processo che Beethoven ha seguito per scrivere una sua sonata, visto che in ogni momento della sua composizione, scritta, aveva la possibilità di rivederla globalmente, senza lasciar traccia del percorso compositivo fatto dalla sua mente.
Quando entra in gioco l’improvvisazione non è invece che il progetto esca di scena. Il progetto c’è anche qui, e può essere rigorosissimo. Ma il modo in cui viene realizzata l’opera non può prevedere la sua riformulazione globale come nel caso della sonata di Beethoven. Improvvisare vuol dire essere vincolati dalle non modificabili scelte passate, che finiscono, combinandosi con la contingenza del presente (che varia in maniera imprevedibile) per definire delle imprevedibili scelte future.
Se il progetto iniziale è troppo vincolante, non ci sono scelte future, perché lo sviluppo dell’opera è interamente previsto dal progetto. In questo caso non c’è improvvisazione, ma non c’è nemmeno processualità, se non in apparenza – esattamente come nel caso dell’esecuzione della sonata di Beethoven (lasciando da parte la questione della libertà dell’interprete, che, tanto maggiore è, e tanto più rimette in campo elementi d’improvvisazione e quindi processuali).
Non confondiamo la processualità con lo sviluppo temporale. Nel cinema c’è sviluppo temporale ma non c’è processualità, nel senso che le stiamo dando qui: il regista ha infatti il controllo progettuale sino all’ultimo di tutta la sequenza, esattamente come Beethoven o il pittore fiammingo; ma magari anche come Morris o Andre di cui parli sopra (ma non li conosco abbastanza per pemettermi di giudicare davvero).
La processualità è così importante in Pollock (e in altri dopo di lui – o nel jazz) perché l’opera esprime chiaramente l’esistenza di un processo che, pur basandosi, inevitabilmente, su un progetto, ha, rispetto a quello, degli alti gradi di libertà. In questo senso il lavoro di Pollock assomiglia davvero tanto a quello dei calligrafi cinesi, che senz’altro erano vincolati da moltissime regole (quella è ancora scrittura, in fin dei conti), ma vengono apprezzati soprattutto per l’evocazione del gesto – e quindi del processo.
Insomma, l’improvvisazione ha bisogno di regole, e di un progetto a monte. Ma non c’è vero processo se tutto è già previsto a monte.
Anche in questo, il rapporto con il surrealismo ha fatto la sua parte.
ok benissimo sono d’accordo, ma secondo me c’è ancora un po’ di confusione – forse per colpa mia- su cosa si intende qui per “processualità”. prendiamo ad esempio la ricetta di Tzara:
Prendete un giornale.
Prendete un paio di forbici.
Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che voi desiderate dare alla vostra poesia.
Ritagliate l’articolo.
Tagliate ancora con cura ogni parola che forma tale articolo e mettete tutte le parole in un sacchetto.
Agitate dolcemente.
Tirate fuori le parole una dopo l’altra, disponendole nell’ordine con cui le estrarrete.
Copiatele coscienziosamente.
La poesia vi rassomiglierà.
Ed eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e fornito di una sensibilità incantevole, benché, s’intende, incompresa dalla gente volgare.
Tzara elabora un sistema di regole pesantemente vincolante e che da solo determina l’aspetto dell’opera; l’autore é ridotto a un automa e si limita a eseguire un compito passivamente, l’unica cosa che può scegliere è l’articolo di giornale da cui partire, ma nella scelta non deve intervenire alcuna considerazione estetica . D’altra parte però il fatto di calare questo sistema vincolante nella dimensione spazio-temporale fa sì che l’esperienza di queste regole sia sempre diversa e che non sarà mai possibile in questo modo produrre due poesie uguali (da qui la tanto decantata “originalità”).
Credo che qui si possa parlare di processualità, ma in ogni caso mi sembra che ci sia poco margine di manovra per l’individualità dell’autore, sono le regole che, nel modo in cui si adattano alla dimensione contingente, generano l’opera.
Ora dal momento che l’automatismo surrealista -che tu giustamente ricolleghi anche a Pollock- nasce anche da qui, personalmente comincio a non essere più tanto convinto nel leggere l’automatismo eclusivamente come una manifestazione della libertà creatrice dell’individuo ( o dell’inconscio). C’è anche un lato nascosto, persino tragico, che flirta con la meccanizzazione e che sembra denunciare una sorta di “annullamento dell’io” (se mi passi il termine): è certamente il caso di Tzara , ma pensa anche al motto di Warhol “voglio essere una macchina”.
Il concetto di improvvisazione invece mi rimanda a una concezione eroica del ruolo dell’artista nel mondo che mi sembra oggi troppo romantica e forse non più attuale (o magari è un problema mio, non so), e che non tiene conto secondo me di come a volte l’artista finisca per guardare l’opera prodursi quasi automaticamente. Come nel caso delle poesie dadaiste.
Il sospetto di romanticismo è lo stesso che ho sollevato anch’io la settimana scorsa, nel post su Pollock e il surrealismo. Ma ne propongo lì anche quella che a me pare una soluzione; quindi a quello ti rimando.
Quanto a Tzara, quello che lui propone è un processo, per produrre l’opera, né più né meno rigoroso di quello dei pittori fiamminghi di cui si parlava sopra, salvo che introduce la casualità, e proprio per questo non c’è nulla di processuale nel risultato; non c’è cioè la traccia di un percorso che sia significativo di per sé. E lo stesso si potrebbe dire per ogni percorso fatto a macchina, che è determinato a priori dal caso o dalla necessità (che magari è una necessità derivata dal progetto iniziale).
L’annullamento dell’io non è legato alla processualità, direi, né in positivo né in negativo. Mi sembrano due fattori indipendenti.
Ma rispetto alla provocatoria assurdità di Tzara (analoga alle operazioni di Duchamp), l’automatismo surrealista recupera surrettiziamente una specie di io (per quanto inconscio). Quando funziona, però, è proprio perché l’io dell’artista non c’è più, e la comunicazione artistica funziona in quanto il fruitore si può immedesimare nell’opera quanto il suo autore.
Non c’è nessun bisogno di collegare il concetto di improvvisazione con quello di espressione (eroica o meno) dell’io. Anzi, al contrario: l’improvvisazione funziona quando l’io non c’è più, o è solo una presenza occasionale come altre, e l’opera diventa il tramite di una sorta di accordo collettivo, di sintonizzazione.
In altre parole, di leggere i dipinti di Pollock come espressione delle personali eroiche paturnie del loro autore non me ne potrebbe importare di meno. Per il signor Jackson Pollock e le sue turbe mentali io non nutro nessun interesse, se non quello, generico, che nutro per quelle di chiunque. Quello che mi interessa piuttosto è che i suoi dipinti sono in grado di trasportare me in un processo, di carattere dionisiaco se vogliamo, in cui mi riconosco sintonizzato con tanti altri che fanno lo stesso (compreso il signor Pollock stesso), e che, nel caso specifico, ha qualche caratteristica delle performarce “dal vivo” (anche se qui solo sotto forma di traccia). Insomma quei casi in cui la sintonizzazione può avvenire anche nei confronti di un processo vitale, e non solo di un concetto complesso (come accade con un dipinto tradizionale).
Complicato. Ma ci tornerò su ancora. Il mio libro sulla poesia appena uscito è tutto su questo.
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