Da “Scuola di fumetto” n.103, 2016: Una fantastica caricatura del vivere

Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.

Andrea Pazienza, tavola da “Le straordinarie avventure di Pentothal”, novembre 1977

 

Andrea Pazienza, tavola da “Le straordinarie avventure di Pentothal”, novembre 1977

Avrebbe da poco compiuto sessant’anni, Andrea Pazienza, nato il 23 maggio del ’56 e – diciamo così – sperperatosi il 16 giugno 1988. Mi perdonerete la provocazione, ma la capacità grafica e narrativa di APaz era un vero patrimonio dell’umanità, e non solamente sua. Purtroppo non si può rinchiudere in un museo un artista trentaduenne, il quale, tutto sommato, resta comunque un uomo, e ha i suoi diritti, ahinoi! Né probabilmente sarebbe davvero servito. Ma lasciatemi lamentare: in verità non gliel’ho mai perdonata.

Le due tavole da Le straordinarie avventure di Pentothal che guardiamo questo mese sono state pubblicate per la prima volta sul numero di novembre 1977 di Alter Alter, e sono state disegnate quindi – considerando i tempi editoriali – non più tardi di agosto del medesimo anno. Pazienza aveva ventun’anni, aveva già pubblicato su Alter due episodi del medesimo Pentothal, qualche sturiellet su una rivista autoprodotta e autodistribuita (con Scozzari, Tamburini e Mattioli), Cannibale, e distribuito delle vignette sulle barricate del marzo bolognese, che sarebbero in seguito state riunite sotto il titolo Il Kossiga furioso. Certo, c’era alle spalle una carriera artistica liceale brillante a Pescara, ma non conta gran che: di geni scolastici che poi non combinano nulla di rilevante nella vita son piene le fosse, proprio come del senno di poi.

E, viste col senno di poi, magari quelle sturiellet (Perché Pippo sembra uno sballato, per esempio) sono prodotti più maturi e compiuti – magari anche solo perché, non dovendosi esporre di fronte al grande Oreste del Buono, e alla intellighenzia tutta dei lettori di Alter, Pazienza si lasciava già più andare alla propria fantastica spontaneità inventiva. Tuttavia, anche nelle incertezze del disegno che, qua e là, Pentothal ancora lascia intravedere, è evidente che l’autore si sta impegnando a costruire qualcosa di nuovo e sorprendente, straordinario quanto sono straordinarie le avventure del suo personaggio (che è poi, come spesso gli capita, lui stesso).

In queste due tavole Pazienza paga una serie di debiti, in maniera più o meno esplicita: c’è l’underground americano, prima di tutto. I Freak Brothers di Gilbert Shelton accompagnano Pentothal, il quale ne assume il tipico andamento di camminata, ed essi lo seguono idealmente, a conferma di appartenere al medesimo mondo, dove the dope della maglietta del fratello di mezzo è chiaramente un valore cruciale – e il rapporto problematico con le forze dell’ordine ne è un altro. Dietro di loro il cannone fumante che invita a ripensare come visione tutta la scena immediatamente precedente (in un complessivo stato di allucinazione, che caratterizza tutte le pagine di Pentothal, dove quello di realtà è un concetto assai incerto) spunta dalla bocca di un deforme Paperino, mentre la faccia di Pippo (già eroe di APaz, in quegli stessi mesi, su un altro palcoscenico) è facilmente riconoscibile tra le gambe di Fat Freddy: insomma, ecco l’universo Disney. In altre due figurine del gruppo è chiaramente citato Altan, il cui Colombo! stava uscendo su Linus in quegli stessi mesi. Inoltre, se si conosce quello che Linus e Alter avevano pubblicato in quel periodo, non è difficile riconoscere nel rapporto tra i bianchi e il nero di questa stessa tavola l’ascendenza dell’Osso Morto di un altro maestro dell’underground, Vaughn Bodé (uscito su Linus da giugno ad agosto del ’76).

Moebius viene citato in maniera più esplicita in altre tavole, ma anche qui ne possiamo ritrovare elementi del tratteggio, e il deserto della seconda tavola ha molto di suo. No so se Pazienza potesse conoscere il lavoro di Gianni De Luca, la circolazione del cui Shakespeare era limitata in quegli anni al pubblico cattolico del Giornalino – ma forse la vicinanza di Mattioli, che già vi pubblicava Pinky, potrebbe avergli permesso di superare l’ostacolo (non piccolo, in quell’ambiente e in quegli anni). Del resto, anche senza scomodare De Luca, questa composizione globale delle tavole, senza suddivisione in vignette, veniva già sperimentata nei primi Settanta da Sergio Toppi, che pubblicava su Linus, e quindi gli era sicuramente noto.

Detto questo, pagati questi debiti (e chissà quanto altri, in verità, perché Pentothal rigurgita di citazioni, non sempre del tutto coglibili), quello che rimane di squisitamente pazienziano è sicuramente moltissimo. Per esempio, anche se questa composizione grafica, quasi da illustrazione, della tavola, gli arriva da Toppi, o anche da Druillet o da Gal, e in generale dagli Umanoidi francesi, tutti gli altri la usano per creare effetti epici e mitici. Qui l’effetto epico c’è: tuttavia, messo a confronto con il registro decisamente basso dei fatti narrati, serve a produrre un complessivo effetto parodistico, quella caricatura dell’epica di cui Pazienza è stato in tutto il suo percorso un assoluto maestro, sino a Pompeo, e oltre.

Si noti che nonostante ne faccia una caricatura, Pazienza non sta affatto negando che Pentothal sia un’epica: lo è anzi fino in fondo, e il titolo, con le sue Straordinarie avventure, sta a confermarlo. È però l’epica della vita quotidiana dello studente, l’epica dell’allucinazione, del sogno, dello sballo come apertura dell’area della coscienza; qualcosa che per essere riconosciuta come tale da una generazione che non sopporta la retorica dei propri padri deve rivestirsi di divertita autocritica. Una risata vi seppellirà, diceva uno slogan molto usato in quegli anni. Proprio perché Pazienza ha capito che la sua generazione non avrebbe sopportato nessuna celebrazione, ha potuto esserne il cantore, prendendo in giro prima di tutto se stesso e il suo mondo, ma al tempo stesso facendolo grandioso.

Si guardi la camminata verso la mensa della seconda tavola, e la fila di lunghezza incalcolabile che essa mette in scena. La soluzione prospettica trovata per mettere in scena tutto in una sola immagine è davvero straordinaria: quell’occhio di pesce dall’alto che riduce la figura centrale a una sorta di granchio, pur permettendo l’immediata riconoscibilità del percorso, e il successivo perdersi della fila in una lontananza incalcolabile, per poi ritornare verso di noi, a presentarci da vicino la sua massa di disgraziati, ulteriormente abbrutiti dall’attesa e dal caldo (il che fornisce forti indizi sul momento in cui Pazienza la possa aver disegnata, visto quanto la sua creatività è sempre stata legata alle occasioni dell’attualità, pubblica o privata che fosse). Ci importa poco che le ombre siano di fatto invertite (stanno una volta davanti e una dietro alla figura che le proietta) perché sono comunque elementi che concorrono alla riconoscibilità delle figurine e della situazione: la prima è dinamica e segue il personaggio alla sua prima comparsa. Nella seconda comparsa (quella vista esattamente da sopra) non c’è ombra. Rispetto alla terza comparsa, in cui Pentothal si è fermato alla vista della coda, l’ombra funge da anticipazione, trovandosi sul percorso inevitabile dell’occhio (e del racconto), ed è diritta rispetto al verso di lettura, mentre la figurina che la proietta è rovesciata.

Rovesciato è pure il balloon, con la scritta “Immensa questa fila inmensa”. E si noti che nel lettering lo spazio tra la n e la m di “in mensa” non c’è, per cui “inmensa” finisce per diventare un rafforzativo di “immensa”, un trucco favorito dalla difficoltà di lettura del testo a rovescio. Infine la staticità della figurina rovesciata che guarda l’immensa fila in mensa arriva dopo tutto quel camminare ritmato: prima Pentothal insieme con i Freak Brothers e Paperino, poi altre due volte lui da solo, accompagnato dalla citazione del titolo/testo di una nota canzone (Just Like e Woman) che ne evoca efficacemente la scansione ritmica. Un bel contrasto! Una fantastica caricatura della delusione.

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Lo straniamento e il DAMS, Pompeo e Andrea

Lo straniamento e il DAMS, Pompeo e Andrea

In occasione dei 60 anni dalla nascita di Andrea Pazienza, che ricorrono il prossimo 23 maggio, Fumettologica dedicherà al fumettista una settimana di articoli, interviste, ricordi e approfondimenti. L’iniziativa si può seguire sui social tramite l’hashtag #pazweek.

andrea pazienza pompeo

Il principio è molto noto e teoricamente semplice: si chiama effetto di straniamento (in tedescoVerfremdungseffekt, in russo ostranenie). Si tratta di mostrare qualcosa attraverso procedimenti diversi dal solito, creando in questo modo un effetto come di alienazione, attraverso il quale è possibile vedere di nuovo quello che l’abitudine impediva ormai di vedere. Lo teorizzavano i formalisti russi; lo metteva in pratica Bertolt Brecht nel suo teatro. Tanto è semplice nella teoria quanto è maledettamente difficile in pratica realizzare uno straniamento che sia davvero tale e che non appaia posticcio, artificioso, creato a bella posta senza intima connessione con quello che mostra. Come dire che straniare male è tanto facile quanto è difficile straniare con efficacia: e la retorica se ne sta sempre in agguato, pronta a percorrere una di quelle mille strade attraverso cui è sempre capace di infilarsi.

Andrea Pazienza lo conosceva bene questo principio. Il DAMS degli anni Settanta rigurgitava di studi sul formalismo russo e sulle tecniche teatrali. Quegli stessi studi, nella loro pratica quotidiana, potevano essere oggetto di parodia, da parte sua, mentre lui utilizzava, magistralmente, i loro insegnamenti. Troppo intelligente per non capire, APaz si metteva nei panni degli studenti che non capivano, strizzava l’occhio ai compagni di percorso più in difficoltà di lui, ben consapevole che è la mediocrità a far ridere, specie quando messa di fronte a situazioni particolari ed estreme.

Queste situazioni potevano incarnarsi in un giovanotto scaltro e del tutto amorale, a nome Zanardi, nell’esame di Storia del cinema su Apocalipse Now, ma anche nelle ultime ore di vita di un tossicomane deciso a morire ma perso nelle vacuità del quotidiano. Solo che in Pompeo, Pazienza usa la medesima ricetta ribaltandone i termini, e invece di avere il comico come scopo finale, lo usa come strumento straniante per enfatizzare il tragico, la tragedia di una vita ridotta a non servire più a niente, talmente tragica nella sua insipienza da apparire persino ridicola, e in questa risibilità si trasmette un dramma ancora maggiore.

andrea pazienza pompeo

Addirittura già nel titolo, Gli ultimi giorni di Pompeo

Segue qui, su Fumettologica.

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Degli autori di Frigidaire: 2. Andrea Pazienza

Andrea Pazienza, pagina da Frigidaire, n.1, 1980

Andrea Pazienza, pagina da Frigidaire, n.1, 1980

Continuando a sfogliare il primo numero di Frigidaire, novembre 1980, dopo la copertina di Tamburini, ci si imbatte in Andrea Pazienza. Di Pazienza si è parlato anche troppo negli ultimi decenni. È uno degli autori più celebrati della storia del fumetto, almeno in Italia. E anche la sua morte, di appena due anni posteriore a quella di Tamburini, ha indubbiamente contribuito a questa fama.

Ma non si potrebbe pensare Frigidaire senza Andrea Pazienza. Oppure forse, sì, lo si potrebbe pensare, ma, pur con tutte le notevoli qualità degli altri autori del gruppo, togliere Paz sarebbe togliere moltissimo; anzi, sarebbe togliere una tessera fondamentale del mosaico.

Però non da subito. Presto arriverà Giorno, e poi la saga di Zanardi; ma in questo primo numero c’è un Pazienza un po’ dimesso. Appena quattro pagine di una storia che non avrà seguito. E poi qualche disegno sparso qua e là, compresa questa pagina di promo che riporto qua sopra.

Stiamo seguendo l’ipotesi che il gruppo di Frigidaire avesse le caratteristiche e lo spirito di un’avanguardia storica organizzata, con un programma e un organo, e anche, attorno, a differenza dei futuristi, un ampio pubblico complice. Tamburini ne rappresenta probabilmente l’anima. È colui che ha la visione più chiara; non teorizza per iscritto, ma lo fa di fatto attraverso la grafica. Vincenzo Sparagna, che dirige il giornale, ne è la mano pratica, l’organizzatore, quello che è capace di tenere insieme le cose.

Pazienza, viceversa, è anche qui l’outsider, l’inafferrabile, quello che segue la propria strada, e va bene, perché è comunque più o meno quella del gruppo, ma lui è sempre un passo più in là, o più a fianco – comunque leggermente da un’altra parte. Se c’è qualcosa che caratterizza tutta la produzione di Pazienza, è che dà la sensazione che non ci sia mai, nemmeno una volta, una scelta ideologica di poetica a monte. La grandezza di Pazienza sta nell’illusione di spontaneità che pervade tutto quello che produce.

Pazienza rappresenta di sicuro il punto di contatto più forte tra l’avanguardia organizzata di Frigidaire e il vasto movimento spontaneo di cui essa è parte. Pazienza ci appare (al rileggerlo oggi come nel leggerlo allora) ugualmente spontaneo, come uno qualsiasi cresciuto nel movimento, con una straordinaria capacità di esprimere quello che sente e che vive.

All’atteggiamento programmatico di Tamburini (che emerge persino dagli eccessi delle storie di RanXerox), non dissimile da quello, in generale, delle avanguardie politiche e artistiche del novecento, Pazienza contrappone uno spontaneismo che rappresenta molto più incisivamente lo spirito del momento – che non è più quello delle avanguardie politiche rivoluzionarie, bensì quello de “il personale è politico”, in cui sì, certo, il sentire diffuso si è formato in un contesto avanguardista, ma oramai l’accento viene posto sul sentire, non più sulla meta da raggiungere.

Questa dialettica tra finalismo avanguardista (ciò che conta è la meta) ed espressivismo post-avanguardista (quello che conta è ciò che sento) è però essa stessa ben evidente nella produzione precedente di Paz, quella pubblicata tra il ’77 e l’80 su Alter Alter. Le vicende incongruenti de Le straordinarie avventure di Pentothal non potrebbero esistere senza riferimento alla decostruzione narrativa della nouvelle vague (humanoïdes compresi) e della Neoavanguardia italiana; ma ne sono al tempo stesso la scanzonata parodia. Pazienza sta dichiarando insieme di essere figlio di quelle avanguardie, e insieme, in quanto figlio e non parte, di essere oltre. Si è nati nel clima delle avanguardie e se ne conoscono e utilizzano al meglio tutti gli strumenti, ma sì è già da un’altra parte.

Mentre disegnava Pentothal, Pazienza stava però già dando stura alle sue prime sturiellet, su Cannibale prima e poi su Il male. Lì, il riferimento era già diverso: invece delle intellettualistiche avanguardie europee, il più vitale e ruspante underground americano. Con Frigidarie, Pazienza sta imboccando una strada nuova, quella tutta sua – che in questo numero non gli è ancora interamente chiara, ma ci vorrà molto poco (quel piccolo capolavoro che è Giorno. Un concentrato di angosce metropolitane, esce già sul numero 3).

Ecco, quindi, tra avanguardia e movimento, tra tensione direzionata consapevole ed espressione appassionata dell’io, tra Tamburini e Pazienza, Frigidaire si presenta già dalle prime pagine. Questa dialettica esprime genialmente quella che in quel momento è nell’aria. Frigidaire è rivista di tendenza perché si trova nella tendenza e le dà voce, le dà immagine.

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Recensioni d’annata, 1998. Penthotal preso con filologia

Penthotal preso con filologia
Il Sole 24 Ore, 8 marzo 1998

Un raccontare seguendo l’emergenza delle suggestioni, assemblando immagini e frammenti ispirati a narrazioni di genere, diversissimi, lontanissimi, carico di quotidianità come di fantastico, di ironia e di passione. Questo era stato Pentothal, opera prima di Andrea Pazienza, creata a frammenti (progressivamente più radi) tra il 1977 e il 1980.

Allora fu pubblicata a puntate sull’Alter Alter di Oreste del Buono, e in seguito raccolta in un volume ormai introvabile. Oggi è stata ripubblicata da Baldini & Castoldi, in occasione della mostra bolognese su Pazienza.

Il lettore ideale di Pentothal non è quello che ama le narrazioni costruite su un’idea stringente e rigorosa, che si dipanano come meccanismi senza una sbavatura dall’inizio alla fine. Com’è doveroso per una storia centrata su un personaggio che ha il nome di una droga, le straordinarie avventure di Pentothal sono un susseguirsi onirico o psichedelico di situazioni diverse, dalla quotidianità della fila in mensa dello studente fuori sede alle situazioni hard boiled, all’esplorazione di luoghi esotici e di mondi. Ma stranamente, e piacevolmente, in questo calderone di idee, di fughe oniriche e di citazioni, tutto si tiene, e la strabordante incoerenza narrativa viene trasformata – dal disegno e dalle modalità di transizione tra situazioni diverse – in un viaggio affettivo e culturale incredibilmente accattivante.

Insomma, se si dovesse dire in poche parole di che cosa parla l’opera prima di Pazienza, si dovrebbe rispondere con un ambiguo e insoddisfacente “di tutto”, ma appena dalla considerazione dell’insieme si passa a quella delle parti e del loro succedersi, questo “tutto” si sfalda in una miriade di invenzioni, di richiami, di ironie, di raffinatezze grafiche, di provocazioni piccole e grandi… L’ironia e l’emozione sembrano viaggiare appaiate, in un autore capace di renderci favolosa la vita quotidiana, e sarcastica l’avventura – senza perdere una briciola del suo fascino.

La grandezza di Pazienza è stata, sin dal suo inizio, probabilmente in questa capacità grandiosamente mitopoietica, associata a uno spirito ironico e a un’attenzione vivissima al quotidiano, alla microosservazione del personale e del sociale, all’invenzione linguistica.

A questa nuova edizione di Pentothal va riconosciuto il merito di far conoscere ai lettori di oggi un’opera fondamentale (e non solo per il mondo del fumetto), associando alla storia vera e propria un’ampia sezione filologica, in cui si trovano raccolte una quantità di tavole tra prove, pagine scartate, esperimenti di colorazione, disegni collaterali o associati, schizzi e abbozzi. Nel complesso, inoltre, si potrebbe definire filologica la stessa presentazione della storia: non si tratta infatti di una ristampa delle edizioni precedenti. Le tavole originali sono state riprese una per una e riprodotte con l’attenzione a non perderne nemmeno un dettaglio, nemmeno una sfumatura.

E sta forse qui il limite, o il problema di questa edizione. Come spesso accade nel fumetto, le tavole di Pazienza sono state create dal suo autore per una riproduzione a stampa “al tratto”, la quale, legata alla nettezza del bianco e del nero, fa di solito tranquillamente giustizia di tratti di matita, campiture non omogenee, leggere sbavature, e insomma di tutto quello che, tonalmente, sta a metà tra le due tinte estreme. In questa edizione, la cura della riproduzione mette impietosamente in luce le non uniformità delle campiture, i tratti di matita preparatoria lasciati lì, i profili dei tasselli di carta appiccicati per correggere ampi errori; tutto quello insomma che l’autore non si è curato di portare a perfezione perché contava sull’imperfezione del mezzo di riproduzione per ottenere l’effetto che lui desiderava.

Insomma, l’edizione Baldini & Castoldi di Pentothal sembra dedicata più a chi sia interessato a capire come lavorava Pazienza (e scoprire tavole meravigliosamente complesse senza l’ombra di una matita preparatoria è davvero qualcosa che fa venire i brividi) che non a chi voglia onestamente leggersi un testo di altissima qualità.

 

Andrea Pazienza
Le straordinarie avventure di Pentothal
Milano, Baldini & Castoldi 1997
pp. 192, £. 30.000

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Recensioni d’annata, 1997. Fumetti d’imPazienza

Fumetti d’imPazienza
Il Sole 24 Ore, 9 novembre 1997

Venti anni fa, 1977, mentre le università italiane ribollivano degli ultimi, scoppiettanti bagliori della stagione nata con il ’68, e la sinistra studentesca iniziava a morire tra tossicodipendenze e Brigate Rosse, il fumetto italiano stava iniziando un viaggio che lo avrebbe segnato e trascinato lontano. Per almeno 10 anni gli autori che si stavano formando allora avrebbero dominato il campo, lasciando tracce un po’ su tutta la scena culturale italiana, dalla letteratura alle arti visive, dalla satira al teatro, al costume.

Non c’era solo un manipolo di ragazzi geniali. C’era un ambiente culturale che si riconosceva nel fumetto come in una forma espressiva non compromessa con l’ufficialità editoriale o commerciale; un’ufficialità peraltro inutilmente combattuta e detestata, ma contrastata, almeno simbolicamente, con ogni mezzo possibile. L’ambiente culturale riconosceva nei ragazzi geniali del “nuovo fumetto italiano” coloro che più compiutamente esprimevano il sentire diffuso, e li eleggevano a loro portavoce.

All’inizio era stato Cannibale, rivista troppo aperiodica e managerialmente dilettantesca per durare, ma radicale e innovativa, e di qualità straordinaria, tanto più se si pensa che gli autori erano tutti giovanissimi, e tutti alla prima esperienza editoriale, o quasi. Da quegli stessi autori, insieme ad altri con qualche capacità amministrativa in più, era subito dopo arrivato Il male, la rivista di satira più cattiva (e intelligente) che si possa immaginare, di cui resta memoria, nel pubblico, soprattutto per le false copertine di quotidiani nazionali che strillavano notizie straordinarie, da “Lo stato si è estinto” di Repubblica a “Annullati i mondiali” de La Gazzetta dello Sport.

Sono gli stessi ragazzi, nel 1980, a fondare Frigidaire, rivista di tendenza e di culto della prima metà degli anni Ottanta, mescolando un giornalismo aggressivo e controcorrente all’inventività grafica e letteraria. E producendo, naturalmente, fumetti tra i migliori che si siano mai visti in Italia.

Vent’anni dopo, cosa resta di questo? Che cosa fanno i protagonisti di questa storia? Due di loro sono morti: il corpo di Stefano Tamburini, motore grafico e ideologico di Cannibale e Frigidaire, fu trovato parecchi giorni dopo il decesso, nel 1986; e due anni dopo, nel 1988, morì di overdose Andrea Pazienza, l’autore più prolifico e amato della sua generazione. Tanino Liberatore e Massimo Mattioli continuano ancora oggi a pubblicare ottimi fumetti tra Parigi e Roma. Filippo Scòzzari non disegna quasi più, ma in compenso scrive, penna caustica e irriverente, non di rado avventata, quasi volgare – ma sempre gustosa, gustosissima, e tanto di più quanto più dice quello che di solito le lingue forbite usano tacere.

E’ proprio sulla storia che abbiamo accennato sin qui che Scòzzari ha pubblicato da poco un racconto autobiografico, dove gli entusiasmi e i drammi di quegli anni appaiono vissuti intensamente da dentro, da protagonista, inventore e trascinatore di autori destinati talvolta a un successo maggiore del suo. Un libro, Prima pagare poi ricordare, appassionato e sgarbato come il suo autore, composto con uno stile acutamente originale – da superba, irrefrenabile “malalingua”.

Il ritratto che appare più nitido, nelle pagine di Scòzzari, è quello di Andrea Pazienza, amato e ferocemente invidiato (da lui come da tutti) per la sua capacità grafica straordinaria. Scòzzari ci racconta come lo conobbe, come lo frequentò, come si concluse il sodalizio, prima – come spesso accade – per semplice esaurimento, e poi, inaspettatamente, in tragedia. Pazienza, nei suoi pochi anni, ha davvero attraversato come una bomba gli anni Ottanta, senza fare scuola e senza riconoscimenti all’estero: troppo originale e troppo calato in una realtà giovanile profondamente italiana, nella quale ha creato opere in cui il suo pubblico si è riconosciuto e immedesimato.

A Pazienza, in questo ventennale senza celebrazioni (ma che fa evidentemente riscontrare un diffuso risveglio di interesse per le vicende che ebbero inizio allora) troviamo dedicati in questi giorni un CD-Rom e una mostra. Il CD-Rom, Andrea Pazienza. L’antologia illimitata, a cura di Ferruccio Giromini, fa abbastanza fede al suo titolo, presentando nel non agevole formato dello schermo del computer (640×480 pixel) le tavole di tutti i fumetti di Pazienza, più una discreta scelta di vignette, dipinti e altro. Vi si trova una bibliografia delle sue opere che si può presumere completa, un’antologia di commenti della critica e una breve biografia, con filmati e foto del giovane e meno giovane Andrea dalla prima comunione in poi. Con gradita discrezione, gli autori non aggiungono altro: né commenti, che infatti meglio troverebbero posto in un volume cartaceo, né gratuite divagazioni multimediali, con l’eccezione di alcuni inutili giochi – ma pare che non si possano fare CD-Rom senza di loro.

La mostra, Andrea Pazienza. Antologica, promossa dall’Assessorato alla Cultura del comune di Bologna, è aperta nel capoluogo emiliano a Palazzo Re Enzo dal 5 ottobre al 16 novembre, e presenta circa 250 originali, di cui la metà tavole di fumetti e il resto illustrazioni e dipinti, alcuni inediti. Il catalogo, curato dai fratelli di Pazienza e da Vincenzo Mollica, contiene una nutrita serie di interventi.

 

Filippo Scòzzari
Prima pagare poi ricordare. Da “Cannibale” a “Frigidaire”. Storia di un manipolo di ragazzi geniali
Roma, Castelvecchi 1977
pp. 232, £.18.000

Andrea Pazienza. L’antologia illimitata (CD-Rom)
Imagica – L’Unità iniziative editoriali n.5
£. 30.000

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Di Pert e Paz

Andrea Pazienza, "Pertini", tavola 16, 1983

Andrea Pazienza, "Pertini", tavola 16, 1983

No, non è della mostra di Roma che voglio parlare. Però proprio a causa di quella ho preso in mano la mia vecchia copia di Pertini, Primo Carnera Editore, supplemento di Frigidaire del 1983. Mi ricordavo che non solo a suo tempo mi aveva fatto morire dal ridere (cosa normale da parte di Pazienza) ma che mi aveva anche colpito l’amore e il rispetto manifestati dall’autore nei confronti di Sandro Pertini. Non certo perché Pertini non se li meritasse (caso politico più unico che raro), ma perché mi colpiva allora e continua a colpirmi oggi un’esempio di satira in cui il protagonista non viene massacrato, ma anzi ne esce con simpatia.

Per questo, mi sono riletto le pagine di Pazienza, e mi sono reso conto che il vero oggetto della satira non è Pertini ma lui stesso. Non vera satira, dunque, perché su se stessi si può giocare, ma non è possibile massacrarsi.

Paz si mette nei panni dell’imbecille, che, con tutta la sua buona volontà, non riesce che a combinare guai. Se di Pert si può vedere parodia, sarà al massimo perché è troppo buono, troppo intelligente, troppo tollerante delle scempiaggini del suo luogotenente.

Le storie sono, a loro volta, una più scema dell’altra. Pazienza sembra prendere in giro se stesso anche come autore. Ma è una continua strizzata d’occhio al lettore, a cui si chiede di stare al gioco. Se saremo disposti a starci, ci sganasceremo dalle risate.

La comicità vive di meccanismi complicati. Esistono stupidità geniali e altre semplicemente stupide. Sono diverse per un soffio. Pazienza l’aveva quel soffio. L’aveva davvero!

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Del lettering nel fumetto

Dino Battaglia, Maupassant, Due amici, p.4

Dino Battaglia, Maupassant, Due amici, p.4

Questa settimana parlo solo di caratteri, e il tema è di grande importanza anche per il fumetto. La leggibilità di un carattere è un requisito necessario, ma quando il carattere è usato per testi brevi una parte della sua leggibilità può essere anche sacrificata alla sua (chiamiamola così) espressività visiva (o espressività grafica): se per il corpo del testo di un romanzo o di un saggio la scelta del carattere va fatta tra quelli che garantiscono la massima leggibilità (poiché mentre si legge il carattere deve diventare trasparente, garantendo la totale attenzione al flusso delle parole), viceversa in un titolo o in una insegna o in una comunicazione pubblicitaria, la componente espressiva visiva del carattere può manifestarsi di più, sino a diventare predominante.

Poiché il fumetto comunica visivamente ancora prima che narrativamente (cioè per leggere il racconto è necessario aver guardato le immagini), la componente espressiva visiva dei caratteri ha comunque una grande importanza. Ce l’ha anche quando siamo vicini al livello qualitativamente più basso: persino il lettering più neutro e banale, per esempio, si fa per convenzione in maiuscolo – e il maiuscolo è notoriamente meno leggibile del minuscolo. Anche il lettering più neutro e banale, dunque, manifesta una qual continuità stilistica visiva con le linee del disegno circostante. Come minimo, insomma, queste lettere disegnate a mano (almeno in apparenza, spesso) manifestano la propria appartenenza al medesimo mondo grafico delle figure rappresentate vicino a loro.

Guarda caso, il passaggio dalla narrazione per immagini ottocentesca al fumetto vero e proprio negli USA di fine secolo è caratterizzato anche dalla nascita di un lettering disegnato – ben diverso da quello a stampa delle didascalie. Il carattere a stampa, evidentemente, dichiara pure in maniera grafica la propria appartenenza a un mondo diverso da quello delle figure disegnate: è un commento esterno, a cui corrisponde una finestra visiva. Nel fumetto, viceversa, noi siamo già, leggendo, nel mondo dietro a quella finestra, e il lettering manuale ci mostra di far parte pure lui di quel medesimo mondo.

Dino Battaglia script

Dino Battaglia script

Se passiamo dall’uso elementare del lettering a usi più raffinati, ci possiamo accorgere di quanto grande possa essere il contributo della forma delle lettere all’effetto visivo complessivo. Immaginate di sostituire questo lettering molto particolare di Dino Battaglia con uno più standard, anche se sempre disegnato. Se lo facessimo, ci accorgeremmo immediatamente di come ne risulterebbe stravolto l’equilibrio compositivo della pagina (qui riprodotta all’inizio del post).

Le lettere di Battaglia hanno lo stesso stile “graffiato” delle sue figure, ottenuto attraverso l’uso di un pennino sottile a punta dura. Un lettering più morbido metterebbe i testi scritti (balloon e didascalie) nettamente in evidenza sul resto della pagina, a causa della loro diversità. Anche se risulterebbe magari più leggibile finirebbe per essere messo troppo in evidenza.

Anzi, si ritroverebbe a essere in evidenza due volte: una, come già detto, per la sua diversità dal grosso dell’immagine; l’altra perché la sua maggiore leggibilità inviterebbe il lettore a privilegiare il testo rispetto alle figure, ma non è questo che l’autore vuole. A queste figure bellissime ma di decifrabilità non immediata deve corrispondere per forza un font che richiede qualche (piccolo) sforzo di lettura: comunque questa è una storia a fumetti, cioè una storia in cui è l’immagine a dover avere un peso determinante.

Andrea Pazienza, The Legend of Italianino Liberatore 2, p.8

Andrea Pazienza, The Legend of Italianino Liberatore 2, p.8

I medesimi principi di fondo sortiscono un effetto tutto diverso nel lavoro di Andrea Pazienza, che disegna con la punta morbida di un pennello o pennarello, giocando su bruschi cambiamenti di tonalità, e masse di bianco e di nero. Il lettering di Pazienza è una componente essenziale del suo disegno, praticamente inseparabile, composto di linee che sono esattamente le medesime linee, con i medesimi andamenti grafici, delle linee delle figure, e persino delle linee di contorno dei balloon.

La leggibilità è forse ancora più bassa che nel caso di Battaglia, ma l’espressività è straordinaria, ed è questa riduzione della dimensione verbale alla dimensione visiva del disegno a dare al lavoro di Pazienza una coerenza e un’efficiacia ineguagliabili. Sostituite questo lettering con uno più standard e non avrete ridotto, ma distrutto il lavoro di Pazienza.

Andrea Pazienza script

Andrea Pazienza script

D’altra parte, lui stesso è acutamente consapevole della necessità di alternare momenti in cui il lettering è sostanzialmente regolare a momenti in cui esso esplode graficamente. Tuttavia, anche dove il lettering di Pazienza è regolare esso esprime una notevole attenzione espressiva: la sua fattura manuale è sempre ostentata; sembra cioè che sempre esca direttamente dall’animo ironico del suo autore. Ed è per questo che la sua enfatizzazione, quando avviene, appare così naturale.

Leggendo Pazienza, paradossalmente, è come se seguissimo la voce di un narratore, che esprime le emozioni con i toni mentre racconta i fatti con le parole. Solo che la voce di Pazienza è il segno grafico, e questo segno si manifesta esattamente al medesimo modo nelle figure e nel lettering, tramite le quali, al contempo, ci mostra i fatti. Dunque, non c’è scampo: per leggere le storie di Pazienza le dobbiamo soltanto attentamente guardare.

Paolo Bacilieri, La magnifica desolazione 2007 p.59

Paolo Bacilieri, La magnifica desolazione 2007 p.59

Paolo Bacilieri ha senz’altro imparato molto da Pazienza, penso di più e meglio di chiunque altro. Il suo lettering esprime finemente il sarcasmo che pervade, narrativamente e graficamente, le sue storie, ed è graficamente coerente con quello che gli sta vicino. Osservate questo “bold” di forme quadrateggianti, e confrontatelo con le linee spesse del contorno delle figure e con la continua presenza di forme simili a rettangoli dagli angoli bombati – non solo nei balloon ma anche nei profili dei personaggi e dei loro dettagli.

Paolo Bacilieri script

Paolo Bacilieri script

Magari Bacilieri non ha il virtuosismo grafico di Pazienza (e chi ce l’ha?), ma è bravissimo nel costruire la (sardonicamente desolante) coerenza del proprio mondo. Il lettering ne è – se vogliamo dire così – il basso ostinato, lo swing, il groove.

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Del rapporto tra poesia e vita

Voy a dormir

Dientes de flores, cofia de rocío,
manos de hierbas, tú, nodriza fina,
tenme prestas las sábanas terrosas
y el edredón de musgos escardados.

Voy a dormir, nodriza mía, acuéstame.
Ponme una lámpara a la cabecera;
una constelación; la que te guste;
todas son buenas: bájala un poquito.

Déjame sola: oyes romper los brotes…
te acuna un pie celeste desde arriba
y un pájaro te traza unos compases

para que olvides… Gracias. Ah, un encargo:
si él llama nuevamente por teléfono
le dices que no insista, que he salido…



Vado a dormire

Denti di fiori, cuffia di rugiada,
mani di erba, tu, mia dolce balia,
tienmi pronte le lenzuola terrose
con il piumino di muschi strappati.

Vado a dormire, balia mia, preparami.
Metti una lampada sopra il mio letto;
una costellazione; quella che vuoi;
van bene tutte: abbassala un pochino.

Lasciami sola: senti i bocci che erompono…
ti culla dall’alto un piede celeste
e un uccello ti accenna qualche nota

perché dimentichi… Grazie. Ah, un incarico:
se lui chiama di nuovo per telefono
digli che non insista, sono uscita…

.

Non sono di certo, io, uno di coloro che pensano che si debba saper tutto della vita di un autore, per capire o per apprezzare la sua opera. Certo, una qualche idea di dove sia stato scritto/disegnato/composto un certo lavoro la devo avere, e tanto più questa idea è precisa meglio è. Ma si tratta di una competenza, diciamo così, sociologica o antropologica, non certo psicologica.

Insomma, mi serve capire il contesto di produzione e ricezione di un’opera, ma non mi interessano le motivazioni psicologiche che hanno spinto l’autore: se un lavoro è buono, è perché trasmette qualcosa a coloro cui è destinato; è perché esprime in qualche modo uno spirito del tempo (e ce ne sono sempre tanti, ma non infiniti). Che l’autore stesse davvero raccontando le proprie turbe, o che si stesse inventando tutto, poco m’importa: l’io letterario (poetico o narrativo – in romanzi, fumetti, film…) è una costruzione testuale, e fa parte del gioco. La letteratura ha valore perché ci muove ci insegna ci turba ci spiega; non perché testimonia gli stati del suo autore.

Certo, testimoniare gli stati del suo autore può essere un buon modo per arrivare a muoverci insegnarci turbarci spiegarci, ma è un modo che ottiene buoni risultati quanto un altro, e solo il Romanticismo gli ha attribuito particolari privilegi.

Per questo sono molto colpito dal fatto che non riesco a smettere di rileggere questo sonetto di Alfonsina Storni (1892-1938), né a separarlo dall’idea del suo suicidio, avvenuto di fatto, per annegamento nel Mar del Plata, due giorni dopo aver spedito questi versi al giornale su cui pubblicava.

La poesia è molto bella (e spero, in questo mio tentativo di traduzione, che lo sia anche in italiano), ma quello che colpisce (me come tutti, credo) è quel dettaglio alla fine: quando il percorso di trasformazione sembra compiuto, è come se lei si risvegliasse per un attimo, ricordandosi di un lui, importante abbastanza per ricordarsene, non abbastanza per dirgli la verità. Un dettaglio di solitudine: tutta l’armonia trovata con la natura serve solo ad accettare con meno dolore la solitudine che emerge in questi ultimi versi.

Senza contare l’understatement dell’ultimissima clausola: “sono uscita”. All’apparenza una comunicazione banale, quello che si fa dire al telefono, o che si dice comunque tutti i giorni. Salvo che qui questa significazione banale ne nasconde un’altra, quella drammatica, dove “sono uscita” sta per “sono uscita di scena”, cioè non ci sono più.

Qualità dell’opera o meno, il collegamento con il suicidio della Storni è senz’altro la ragione principale della notorietà di questa poesia. C’è anche una canzone molto nota in ambiente latinoamericano, Alfonsina y el mar, dedicata all’episodio e a questi stessi versi.

Le morti drammatiche ci colpiscono sempre. E questo succede perché appartengono tematicamente all’universo stesso della letteratura. Una morte drammatica rende una vita degna di essere raccontata (per fortuna non è l’unica cosa che lo fa), e avvicina la realtà al mondo della fiction, che è un mondo di princìpi morali e di mitologie. Il suicidio della Storni proietta lei, per noi (certo non per lei stessa), nel medesimo mondo a cui appartiene la sua poesia. Ed è per questo che, a dispetto delle nostre opinioni in materia, non riusciamo a distinguere del tutto i suoi versi e la sua vita; tuttavia, paradossalmente, non sono interessanti i suoi versi perché testimoniano la sua vita, ma è la sua vita che è interessante perché testimonia i suoi versi.

Per i miei amici che amano i fumetti, se sapete (e chi non lo sa?) come è morto Andrea Pazienza, riuscite mai a leggere Pompeo senza proiettarvi quello che sarebbe successo di lì a poco?

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Delle visioni di Jim Woodring

Jim Woodring, Weathercraft, pp. 24-25

Jim Woodring, Weathercraft, pp. 24-25

Jim Woodring è un figlio deviato dell’underground americano. Deviato come tutti i figli di valore. Ma la sua deviazione rimane comunque molto underground. All’inizio della scarna autobiografia contenuta nel suo sito, sostiene che da bambino aveva allucinazioni. In seguito ha fatto di questo problema la propria fortuna. Certo, se questo è vero, essere stato adolescente negli anni Sessanta deve averlo aiutato molto nella sua presa di coscienza, quando allucinazione e psichedelia erano un obiettivo, mentre lui le aveva come punto di partenza.

Jim Woodring, Weathercraft

Jim Woodring, Weathercraft

Jim è stata la sua rivista a partire dal 1980, ed era sua in tutti i sensi – almeno sino a quando, qualche anno dopo, la Fantagraphics non ha deciso di finanziarne la pubblicazione e distribuzione. Weathercraft è invece il titolo comune sotto cui, da qualche anno, Woodring raccoglie una serie di storie allucinate. Proprio con questo titolo, dunque, Coconino Press ha appena pubblicato un volume che ne contiene una lunga: l’incubo di un uomo-maiale in un mondo di creature ancora più strane di lui.

È una storia assurda e intrigante, una sorta di viaggio, nel senso psichedelico del termine. Si potrebbe sostenere che non ha né capo né coda, ma tra questi estremi mancanti si stende un mondo pieno di fascino sinistro. Proprio per questo fascino, e perché lascia il segno sul lettore, mi è venuto voglia di segnalarlo qui.

Giusto a titolo di confronto, e forse perché Woodring, in fin dei conti, come fumettista è anche migliore, metto qui in fondo due immagini allucinate di Robert Williams, realizzate quando Woodring aveva circa 18 anni. Indubbiamente, tra l’altro, Robert Williams è uno dei disegnatori che più hanno avuto influsso sul giovane Andrea Pazienza. Guardatele da vicino!

Robert Williams, Coochy Cooty Men, 1970

Robert Williams, Coochy Cooty Men, 1970

Robert Williams, Coochy Cooty Men, 1970

Robert Williams, Coochy Cooty Men, 1970

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Di Pazienza e della “sua” politica

Andrea Pazienza è nell’aria (grazie all’infelice riedizione del suo Astarte) ed è nell’aria anche la politica (grazie all’infelice esito delle elezioni, e a tutto quello che ci sta attorno). Per questo, mi salta sotto gli occhi questo articoletto che ho scritto nel 2005 non ricordo più per chi, e la coincidenza è troppo bella per non approfittarne. Quando leggo di quella politica, buona o cattiva che fosse, mi domando davvero come abbiamo fatto ad arrivare a questa, che buona certamente non è.

Una sera di aprile

Una sera di aprile del 1977 mi trovavo in un locale alternativo di Bologna, che aveva nome La talpa, per quella che veniva chiamata allora una riunione politica. Si trattava indubbiamente di una riunione, perché il luogo riuniva numerose persone, ed era sicuramente politica perché la politica era ciò che in quei giorni ci teneva assieme. Ma quando si pensa a una riunione politica oggi si pensa a un gruppo di persone dotato di una qualche omogeneità e di un qualche fine comune che discutono una strategia di azione. Quella sera, più che altro, l’omogeneità e i fini comuni erano una meta, anziché dei presupposti, e una meta nemmeno troppo ambita.

Più che altro, potrei dire oggi, quello che ci teneva insieme, nonostante divergenze ideologiche profondissime dividessero i presenti, era la consapevolezza di far parte di un medesimo ambiente, di un medesimo ambito culturale, di essere comunque un “noi” molto forte e compatto. Allora credevamo che il nocciolo di questo “noi” stesse nella politica, ma quello che si intendeva allora per politica aveva davvero poco a che fare con quello che si intende oggi. Basti pensare allo slogan in cui ci si riconosceva, che recitava “il personale è politico”, ma che si sarebbe potuto anche declinare all’inverso: “il politico è personale”.

La serata tardava a prendere il volo. Si chiacchierava e non c’erano interventi che monopolizzassero l’attenzione. L’interesse comune si coagulò a un certo punto attorno a un mazzo di foglietti che passavano di mano in mano, suscitando grasse risate. C’erano delle vignette umoristiche, disegnate a pennarello su quei foglietti, in cui riconoscevamo facilmente la situazione bolognese di quei giorni. Erano gli originali, non delle riproduzioni, e l’autore era lì tra noi, che si godeva i commenti divertiti e i complimenti del pubblico. Io, però, non riuscii a identificarlo, e nemmeno mi rimase memoria del suo nome.

Fu solo numerosi anni dopo, sfogliando una qualche pubblicazione di quel periodo, che riconobbi chiaramente le vignette che avevo visto quella sera, e capii che, di Andrea Pazienza, avevo assistito, inconsapevole, a uno dei primi successi pubblici bolognesi. In realtà un suo successo assai maggiore stava iniziando a esplodere sulla rivista Alter Alter proprio in quei medesimi giorni di aprile, che vedevano pubblicato il primo episodio de Le straordinarie avventure di Pentothal.

Io scoprii Pentothal ben un anno dopo, mentre scontavo in ospedale i postumi di un viaggio nel deserto. Sarà forse solo cronaca il far sapere che il mio desiderio di occuparmi di fumetti in maniera più approfondita è dovuto in buona parte a quella scoperta. Ma non è solo un fatto di cronaca la ragione di questo mio innamoramento. Il fatto è che Pazienza esprimeva davvero con Pentothal l’anima creativa e contraddittoria di quello che stavamo tutti vivendo; e la esprimeva con una ricchezza, una fantasia e una precisione emotiva che erano davvero impressionanti.

Io credo che la fortuna del fumetto italiano di quegli anni, tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, sia stata dovuta alla presenza di un ambiente culturale giovanile diffuso e molto ben definito, di cui il movimento bolognese rappresentava probabilmente una delle realtà più significative, ma che trovava riconoscimento ovunque. Per molti giovani autori, così come per tutti i nuovi lettori di quegli anni, il fumetto rappresentava una forma espressiva ideale, perché era potente, versatile, economica, e soprattutto perché non aveva alle spalle una storia di connivenza con l’industria culturale, con il potere economico costituito: era, insomma, ai nostri occhi, un medium sufficientemente vergine, almeno in Italia, da poter essere colonizzato, e dichiarato nostro.

Questa rinascita del fumetto non era dunque dovuta né a una proposta rischiosa di autori innovativi, né alla risposta di editori astuti alle richieste del pubblico. Ovviamente, entrambe queste componenti erano davvero presenti, ma quello che esisteva prima di tutto era un ambiente culturale, di cui autori e lettori si riconoscevano come parte, un discorso, una conversazione diffusa su temi che sentivamo pregnanti – e il fumetto ne era il mezzo di espressione privilegiato.

Credo che il primo ad accorgersi di quello che stava succedendo e a fare del proprio fumetto la voce fantasmagorica di quella conversazione sia stato Filippo Scozzari. Ma poi Pazienza ha rappresentato quella voce più e meglio di chiunque altro, facendo storia e leggenda della vita di quegli anni.

Rileggendo Giorno. Un concentrato di angosce metropolitane, chi ha vissuto quegli anni non apprezza solo l’esame di storia del cinema su Apocalypse Now. Perché Pazienza non era solo un grande umorista e un disegnatore strabiliante; era anche un prodigioso narratore, capace di individuare l’anima profonda delle relazioni personali e degli eventi, e di costruire racconti apparentemente senza né capo né coda, ma in realtà così ricchi e trascinanti da lasciare attoniti.

A chi lo ricorda soprattutto come umorista regalerei Gli ultimi giorni di Pompeo, la testimonianza più drammatica di quello che succede una volta che i miti si infrangono, e il personale e il politico si separano drasticamente, e per sempre. Proprio come Pompeo, Andrea si è buttato via, un po’ per indolenza, un po’ per sbaglio, un po’ perché le epoche storiche in cui invece di sentirsi soli ci si sente in tanti finiscono, e per troppo tempo non ritornano più.

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Di come non si fa

Ricevo da Fandango Libri, fresco di stampa, Astarte, di Andrea Pazienza. Anche se non vorrei dedicare i post di questo blog a fare recensioni, questo è un caso particolare. a cui vale la pena di dedicare qualche riga. Lo è perché Pazienza è stato un grande fumettista, è morto giovane, e questa accoppiata lo ha reso un mito mediatico. Per questo, qualunque cosa si pubblichi o ripubblichi di suo sembra destinato a vendere.

Pazienza è stato un fumettista di grande originalità, non un semplice disegnatore, uno che aveva non solo un segno spettacolare e una stupefacente capacità narrativa, ma anche doti di impaginazione e costruzione grafica della pagina. E il fumetto è fatto anche di questo.

E’ proprio per questo che trovo che il libro pubblicato da Fandango sia un’offesa a Pazienza e al fumetto. Il mitico Apaz non ha mai disegnato quelle robe che vediamo pubblicate lì: è come se si pubblicasse la Divina Commedia mettendo un verso per pagina, e si pretendesse di fare un servizio a Dante!

Dividere così le pagine significa uccidere il lavoro di Pazienza. Certo che emerge il disegno! Ma ci sono tanti altri modi rispettosi per farlo. Meno pagine, e molto più grandi, per esempio, in modo da contenere le tavole intere! Ma poi, certo, i librai non sanno dove metterlo, e non si vende.

Che questo libro sia fatto prima di tutto per vendere lo mostra benissimo la confezione, certamente accurata, con la prefazione ben ostentata di Roberto Saviano, che è uno i cui meriti sono innegabili, ma cosa ci azzecca con Pazienza? E a che serve la lunga appendice sulla storia di Annibale, se non a fare un po’ di pagine, visto che persino ridotto così, una vignetta per pagina, il lavoro del povero Pazienza non è lungo a sufficienza per giustificare la spesa dell’acquisto?

Che idea si farà di Pazienza chi non avesse mai visto l’originale, pubblicato a suo tempo sulla rivista Comic Art? Visto che già in Pompeo aveva fatto pagine di una sola vignetta, probabilmente starà facendo lo stesso anche qui. Ma come mai qui il segno è più grosso in un disegno e più sottile in un altro? E come mai certi disegni sono fatti di poche grosse righe, e altri sono pieni di dettagli e di linee? Potenza degli ingrandimenti e delle riduzioni, per cui cose che nell’originale erano molto piccole o molto grandi, qui si trovano ad avere la stessa dimensione!

Insomma, si tratta semplicemente di un falso, e solo nell’ultima riga della postfazione di Marina Comandini, nell’ultima pagina, si dice che “in questa edizione ci siamo permessi di scorporare la struttura originale delle tavole”. Ma se si fosse onesti, e davvero interessati a valorizzare il lavoro di Pazienza – e non potendo, per ragioni commerciali, utilizzare un formato troppo grande – perché non usare lo spazio dedicato a quell’inutile biografia di Annibale per far vedere, almeno in piccolo, la struttura originale delle pagine? Si sarebbe salvata la qualità del segno grafico, ma almeno si sarebbe avvertito il lettore del prezzo che si stava pagando.

I post di Luca Boschi avevano creato in me molte aspettative. Ma ho troppa stima di lui per pensare che li abbia scritti avendo già visto il libro. Presumibilmente avrà avuto la notizia e avrà pensato bene di divulgarla, come avrei fatto anch’io al suo posto, e chiunque altro ami il lavoro di Pazienza.

L’impressione, decisamente sgradevole, che mi resta, è che le spoglie di Pazienza siano un po’ come quelle del maiale: non se ne butta via nulla.

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di Daniele Barbieri

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