Da “Scuola di fumetto” n.109, 2018: Alex Raymond e il passo del mito

Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto

Alex Raymond, Flash Gordon, Tavola del 18.06.1939

Questo mese andiamo sul classico, che più classico non si può. Se Milton Caniff ha rappresentato il modello per gran parte dei fumettisti americani del suo tempo (compreso lo stesso Raymond più maturo), il Raymond di Flash Gordon è stato a sua volta l’autore americano più imitato all’estero: in Argentina, in Gran Bretagna e in Italia. Come succede, tuttavia, imitare lo stile di un autore non sempre (anzi quasi mai) comporta il riuscire a riprodurne la fascinazione.

Mi sono reso conto mio malgrado, cercando un difficilissimo distacco critico, della sostanziale banalità delle trame di Flash Gordon, nelle quali succede sempre quello che deve succedere. Dico mio malgrado perché a dispetto di questo sono stato e rimango un lettore appassionato di Raymond, così affascinato dal suo lavoro da arrivare a non percepire qualcosa che ad altri autori non so invece perdonare. Ho provato a indagare sul perché di questa fascinazione e ho sviluppato un’ipotesi che mi sembra plausibile, e che ho già raccontato anche in altre occasioni: quello che affascina il lettore di Flash Gordon è precisamente il disegno di Raymond, ma non perché la successione delle immagini sia semplicemente una successione di belle figure, ma perché questa trama per altri versi così banale è in realtà funzionale a fare emergere la capacità che Raymond possiede al massimo grado, quella di farci entrare – visivamente – nel mito.

Il mito non ci affascina perché è originale. Il mito è fatto di elementi che conosciamo benissimo, uno per uno e magari anche nella loro combinazione; però non possiede un modo standard di essere raccontato, e tutti i diversi racconti che se ne possono fare sono equivalenti come racconti del mito. Non sono però equivalenti quanto alla loro efficacia: in racconti diversi dello stesso mito, i medesimi elementi possono apparirci più smorti oppure più vivi; lo stesso mito ci può apparire lontano (benché magari nitido) oppure vicinissimo, quasi come se ci fossimo dentro, inglobati, coinvolti. L’originalità di Raymond non sta nel racconto, ma nel modo in cui tavola dopo tavola, settimana dopo settimana, permetteva ai suoi lettori un’immersione profonda nel mito, secondo le forme di una favola antica mediata attraverso i valori americani moderni di autoaffermazione dell’individuo, di libertà e di coraggio, di democrazia e di progresso, ma anche attraverso le forme visive del mito contemporaneo più vivido, quello del cinema di Hollywood!

Guardiamo la tavola del 18 giugno 1939. Siamo in una fase avanzata dello sviluppo grafico di Flash Gordon (uno sviluppo facilmente percepibile, se solo avete un minimo di occhio grafico, sfogliandone le annate). La pagina ha diminuito progressivamente il numero delle singole vignette da 12 a 6, nella prospettiva di una più agile monumentalizzazione delle figure e delle situazioni. Seguendo l’esempio di Harold Foster (Tarzan, prima, e Prince Valiant poi) Raymond ha eliminato i balloon: la narrazione di accompagnamento in didascalie è maggiormente funzionale, infatti, al distacco che il mito richiede. Certo, rischia di rendere meno viva l’azione; e, trattata con meno abilità della sua, rischia pure di riprodurre il modello tradizionale di narrazione per immagini in cui il testo verbale racconta e l’immagine illustra. Ma qui le immagini di Raymond sono talmente forti, talmente vive, che sono comunque loro a fare la parte del leone, e il racconto verbale si riduce a una sorta di tenue filo narrativo, necessario sì, ma del tutto funzionale a valorizzare quello che conta, cioè le figure. È certamente Foster il primo ad averlo capito: nel suo Prince Valiant brevi narrazioni didascaliche non fanno che introdurre scene intricatissime e favolose, che richiedono un tempo di lettura estremamente più lungo del testo verbale che le accompagna, e sono molto più informative di quello. La parola si limita a introdurre quei dettagli spazio-temporali e quei nessi narrativi che l’immagine farebbe troppa fatica a mostrare, e il resto spetta a lei.

In aggiunta Foster aveva capito (e qui Raymond lo segue con abilità forse ancora superiore) che il mito è quella cosa che è sempre stata raccontata con parole, e che quindi un racconto verbale contribuisce certamente a ricostruirne l’effetto. La parola ci introduce nel mito, e poi l’immagine ce lo fa esplodere davanti, vi ci butta dentro (a conferma guardate, in anni più recenti, il lavoro straordinario realizzato da Sergio Toppi seguendo questi stessi principii).

Poco male, in questa tavola, se non siete in grado di leggere le poche parole inglesi che accompagnano le immagini. Qualcosa perderete, certo, ma il contrasto che emerge dalla prima vignetta, tra – diciamo così – la bella e la bestia non potrebbe essere più evidente: lei tutta liscia e chiara, con le unghie e i capelli curati; lui peloso e rugoso e scuro. Lei spaventata e lui ghignante; la mano di lei sottile stretta nel goffo ma possente pugno di lui. Ma tutto questo non avrebbe la stessa forza se non fosse sottolineato dalla scelta dell’inquadratura, presa molto da vicino e con i personaggi rivolti verso di noi, lei addirittura che cerca di uscire dal quadro per arrivarci addosso. Il gigante che insidia la bella indifesa è un classico da favola, ma qui prende corpo davanti a noi con una vividezza inconsueta, quasi più che cinematografica. L’inquadratura è indubbiamente da cinema, così come le espressioni dei personaggi: insomma, il mito antico ripresentato nella cornice del mito moderno; e noi buttati visivamente al suo interno!

Vignetta dopo vignetta, questo regno di caverne e di vichinghi giganteschi trova sempre le forme più intriganti per apparirci davanti, sino ad arrivare alla sesta, uno di quei capolavori del dinamismo che Raymond non ha mai lesinato, ben sapendo di esserne un maestro. Anche qui la composizione è tutta sviluppata nella dimensione della profondità: in basso a sinistra, in primo piano, ci sono due giganti abbattuti, evidentemente dalla furia di Flash, una furia che sta trovando freno proprio ora nell’azione di ben tre antagonisti, che lo bloccano a mezz’aria. Sul fondo il capo Brukka osserva divertito la scena, mentre Dale si dispera (suo compito principale nelle storie di Flash Gordon). La progressione va da in basso a sinistra verso l’alto a destra, esattamente la direzione in cui procederebbe l’azione interrotta di Flash: eccoci quindi quasi nei suoi panni, buttati pure noi all’interno della scena, come viene ribadito pure da quelle due tende di pelle ai lati che sembrano essere lì solo per darci la sensazione di poterle superare.

Raymond non è solo un abilissimo disegnatore, in grado di utilizzare un segno grafico di grandissima efficacia per rendere con estremo realismo il mondo del mito (almeno per il sistema delle convenzioni grafiche della sua epoca). È pure un sottile costruttore di situazioni e inquadrature, in cui la dimensione della profondità (come ben si vede in tutte e sei le vignette) rappresenta un continuo invito all’immersione nella realtà raccontata.

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Ripetizione rituale e sviluppo narrativo


Transmedia storytelling: Trasposizioni

 

Ripetizione rituale e sviluppo narrativo

Daniele Barbieri

Abstract
La serialità moderna condivide numerosi aspetti con quella che potremmo chiamare serialità primaria, differenziandosi sostanzialmente da essa per la presenza di una periodicità alla sua base. A separarle storicamente sta la nascita e lo sviluppo del romanzo, come forma narrativa unitaria, la cui esistenza stessa permette il porsi del problema teorico della natura della serialità. Ma tra la serialità primaria e quella moderna si trova anche la nascita e lo sviluppo della stampa periodica, la quale finisce per essere il modello della nostra serialità. Nella comprensione del rapporto tra serialità e narrazione, giocano un ruolo particolare le saghe, le più difficili da ricondurre al modello narrativo standard. È possibile osservare che in alcune saghe la dinamica narrativa non è in verità al centro dell’interesse del lettore, e si limita a costruire il quadro di una sorta di accesso al mito. Che cosa succede, infine, quando la serialità moderna si riavvicina a quella primaria, neutralizzando la periodicità (per esempio, attraverso la pubblicazione dei telefilm nel Web)?

Parole chiave
serialità; semiotica; narratività; fumetto; mito

L’articolo intero si trova qui, su Between.

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Quando la qualità delle immagini è la qualità del racconto

Quando la qualità delle immagini è la qualità del racconto

Ho comperato il Flash Gordon di Dan Barry e Harvey Kurtzman (pubblicato da Cosmo, tutte le strisce giornaliere 1951-1953) perché stimo Barry come disegnatore, ma soprattutto Kurtzman come sceneggiatore. E sono rimasto deluso, annoiato e deluso, così annoiato che sono arrivato sino in fondo più per dovere che per piacere. Devo dire che da Kurtzman mi aspettavo ben altro, visto quello che poi ha fatto, e che stava anche già facendo in quegli anni. Le storie sono banali, scontate, del tutto prevedibili, del tutto classificabili negli stilemi delle storie avventuroso-brillanti di quegli anni, con inevitabili riferimenti impliciti ed espliciti all’età d’oro di Flash Gordon, quella di Alex Raymond.

Ed è stato così che mi sono trovato a paragonare queste storie con quelle, accorgendomi che, tutto sommato, anche le storie del periodo raymondiano non brillano di particolare originalità, e la prevedibilità è ugualmente straordinaria. Eppure…

Eppure le tavole domenicali di Flash Gordon disegnate da Raymond per 10 anni dal gennaio del ’34 all’aprile del ’44 sono tutt’altro che noiose. Sono tornato a rileggermele qua e là e, come sempre, facevo fatica a staccarmene, non a restare lì. E tuttavia, se astraevo da quello che avevo davanti agli occhi cercando di concentrarmi solo sulla storia che si stava raccontando, non è che la situazione fosse migliore che nel caso di Kurtzman.

flashgordonb1

Insomma, ecco un bel quesito da filosofia del fumetto, nello specifico da estetica del fumetto: data per assunta l’equivalente qualità (scarsa) delle storie raccontate in Flash Gordon nei due periodi in esame, da cosa dipende il differente effetto complessivo del testo? La risposta facile è, evidentemente, che Raymond è miglior disegnatore di Barry, e questo è innegabile; ma siccome Barry non è comunque l’ultimo venuto, e sarebbe davvero difficile sostenere che non è un ottimo disegnatore, da cosa dipende, specificamente, la differenza? Che cosa c’è nelle immagini di Raymond che manca in quelle di Barry? O anche, detto in un altro modo, che cosa rende Alex Raymond un genio, e Dan Barry semplicemente un buon disegnatore?…

Segue su Fumettologica, qui.

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Dal fumetto al cinema, e ritorno

Dal fumetto al cinema, e ritorno

Nel febbraio 1905, quando il cinema era ancora una specie di teatro su pellicola, uscito fresco fresco dalla testa di Méliès, e ancora qualche anno prima di diventare lui stesso uno dei protagonisti di quella rivoluzione narrativa, Winsor McCay  si permise di anticipare una delle sue grandi potenzialità. C’è infatti una tavola del Dream of the Rarebit Fiend (Sogno del patito di fonduta al formaggio) interamente in soggettiva. Eccola qui:

rarebit

Il cinema era ancora lontano da questa intuizione. In quegli anni era ancora lontano persino dall’alternanza di inquadrature come principio narrativo fondamentale. Il fumetto era ancora (e per molti anni sarebbe sostanzialmente rimasto) fumetto comico, a cui l’inquadratura a figura intera (o giù di lì) è in generale sufficiente. In pittura erano certamente presenti mezzibusti e facce, ma il tema del punto di vista dell’immagine non era tra quelli caldi e particolarmente discussi. Era semmai in fotografia che la tematica dell’inquadratura aveva già un senso forte….

Prosegue qui, su Fumettologica.

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Recensioni d’annata, 1994. Vita di Corto tra pescecani e pirati

Vita di Corto tra pescecani e pirati
Il Sole 24 Ore, 14 agosto 1994

Il mare dei fumetti non è certamente quel luogo estivo, dove la vita scorre calma e piatta tra giochi da spiaggia e seduzioni serali. Non che questo aspetto del mare sia assente dalla produzione a fumetti, ma di sicuro la sua scarsa fascinosità non lo ha favorito molto nell’immaginario degli autori.

Quando pensiamo al mare dei fumetti, le visioni che arrivano alla mente sono quelle del Mare del Mistero del pianeta Mongo, dove Flash Gordon vive per un poco una nuova vita respirando come i pesci, e scopre un’intera civiltà sottomarina e fantastica. Certo, gli echi di Atlantide sono tutt’altro che lontani dall’invenzione classicheggiante di Alex Raymond, ma proprio Atlantide è l’ovvio prototipo di qualsiasi mondo in ambiguo e periglioso contatto con il mare.

Le Atlantidi dei fumetti, peraltro, non si contano. Evocate o ritrovate, perdute o dimenticate, reinventate o ricostruite, costituiscono un tema ricorrente con ossessiva regolarità in tante serie di mistero e fantascienza. Il mare vi è comunque il limite antico, l’altro mondo, ma conquistato e domato da una civiltà, che per quanto simile ci è in ogni caso – e magari proprio per questo – più o meno aliena.

Anche Corto Maltese, il più famoso dei personaggi dei fumetti nati da una mano italiana, ha a che fare con il mito di Atlantide da un certo momento in poi della sua vita. E sembra, questo, un incontro inevitabile, visto che il mare e il mistero sono fin dall’inizio due componenti cruciali della personalità di Corto. Lo incontriamo infatti, per la prima volta, nella “Ballata del mare salato”, legato mani e piedi a una zattera alla deriva nei mari del sud, destinato a morire di sole e di sete. Salvato da una navicella di pirati, capeggiata dal torvo Rasputin, si troverà implicato in una vicenda intricata di guerra e di corsari, di tedeschi e di inglesi, di maori e di indonesiani, sullo sfondo grande, enorme, onnipresente e silenzioso dell’oceano.

Pescecani e gabbiani, barchette polinesiane e corazzate europee, isole dominate da strani personaggi e rotte guidate dalle stelle, è il mare a cantare la sua ballata di sentimenti e di azioni umane, così importanti e così irrilevanti di fronte a lui. Poi, negli anni che seguono, pur spostatosi su altri scenari, il mare ritorna, accompagna, scandisce la vita di Corto, ora come presenza navigata, ora come ricordo di Malta o di Venezia, luoghi di mare per eccellenza e patria del personaggio e del suo autore.

Ma i mari del sud e dell’estremo oriente non sono, certo, una prerogativa del Maltese, né nei fumetti né altrove. Da Melville e Conrad, a tanti altri, sembrano essere diventati per un certo periodo, nell’immaginario occidentale, la quintessenza stessa del mare. Gli anni trenta abbondano di fumetti i cui personaggi veleggiano da quelle parti, da Terry e i pirati a Ming Fu. Da questo punto di vista, Corto Maltese sembra quasi un epigono di un gusto già in via di spegnimento negli anni della sua uscita, ma rilanciato con vigore dalla sua stessa comparsa.

Quando si passa dai mari del sud a quelli del nord si perde anche l’ultima caratteristica comune con il mare pigro delle vacanze: il caldo. In questo, nei fumetti come altrove, i mari del nord appaiono sempre come luoghi più duri, torvi e pericolosi di quelli del sud: sono i luoghi della caccia alle balene, come in una famosa storia di Wash Tubbs, del 1933, dove il protagonista e il suo amico sono ingaggiati a forza in una baleniera e trascinati in un viaggio disastroso, che si conclude sulle spiagge, assai poco balneari, dell’Alaska settentrionale.

Mari più lontani sono stati immaginati in anni più recenti da Moebius, che nel suo Incal ci mostra un pianeta interamente coperto d’acqua, dove si vive – non diversamente che in Flash Gordon – sul fondo del mare, ma i trasporti sono realizzati da immense e luminose meduse addomesticate, vere creature del mare. E nemmeno si potrebbe dimenticare il Fiume dei Morti dei Naufraghi del tempo di Forest e Gillon, un anello d’acqua dotato di atmosfera, in orbita attorno a una luna di Saturno, abitato da un’inquietante genia di becchini, che vivono su case galleggianti in mezzo a una distesa d’acqua convessa su cui vagano alla deriva le tombe galleggianti dei potenti e dei sovrani dei mondi circostanti…

Sempre più lontano, c’è un mare ancora più strano e fascinoso, che non appartiene al mondo dei fumetti, ma potrebbe bene, per la sua delirante coerenza e spettacolarità. E’ l’oceano senziente del pianeta Solaris, dal libro di Lem o dal film di Tarkowski, capace di dare forma e realtà ai desideri e ai sogni degli umani che lo avvicinano.

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Degli inchiostri di Alex Raymond giovane

Alex Raymond, Jungle Jim, 1934

Alex Raymond, Jungle Jim, 1934

Mica male come esordio per il ventiquattrenne Alex Raymond! Era nato il 2 ottobre 1909 e questa tavola, apparsa all’inizio del 1934, era probabilmente stata disegnata con qualche anticipo. La scansione proviene, al solito, dal deposito ziopaperonesco del Fondo Enrico Gregotti.

Forse il leone è ancora un po’ legnoso (gli mancava un buon modello, evidentemente), e sembra un po’ una statuetta sospesa per aria – ma il nostro Jim è già disegnato con una maestria dinamica stupefacente. Molto fa la scelta della posizione, ovviamente, insieme all’angolo di inquadratura (occhio dell’osservatore basso, all’altezza della cintura): questo scatto (lui sì, a differenza del leone) felino, con la gamba destra a terra, la sinistra sospesa e seminascosta dal braccio abbassato per afferrare la frusta, mentre il braccio sinistro cerca di mantenere l’equilibrio…

Ma la fluidità, la tridimensionalità, lo spessore di questo corpo dinamico sono poi dovuti alla sapienza degli inchiostri di questo giovanissimo Raymond. In seguito diventerà ancora più bravo, ma già qui c’è un bel po’ di pane per i nostri denti. Ingrandite l’immagine in un’altra finestra, dunque, e guardate da vicino le linee.

Le linee sono lunghe e molto modulate. Magari qualcuno più esperto di me mi saprà dire se sono segni di pennello o di un pennino molto morbido. Il pennello c’è senza dubbio, intorno: le pieghe del pantalone verso l’inguine sembrano testimoniarlo (ma potrebbero essere anche tracce di pennino ripassate due o più volte), e certamente è realizzata col pennello l’mbra di Jim in basso, così come le foglie in alto a destra.

Comunque siano state realizzate, sono queste linee lunghe e modulate a creare la fluidità del movimento del personaggio, un po’ come se la fluidità del gesto del disegnatore si ripercuotesse sull’effetto di fluidità di quello che rappresenta. Ma non è una boutade: la fluidità del gesto da sola non basta, ma associata alla forma giusta ne diventa un amplificatore potente. Qui non si sta costruendo l’effetto di un gesto improvviso e nervoso, ma quello di un’azione rapidissima, fluida e consapevole – proprio come il gesto grafico del disegnatore.

Persino l’uso del pennello (o del pennino) un po’ a secco, nelle tessiture delle ombre (del braccio sinistro e delle gambe), contribuisce all’effetto di rapidità. E lo fanno anche i colpi rapidi che descrivono i capelli, insieme con i tratti più sottili del deltoide destro o del polso sinistro.

L’immagine non è particolarmente dettagliata, né lo dovrebbe essere, visto che deve rendere l’impressione della rapidità. Però è comunque molto più definita del paesaggio che le sta attorno, ridotto davvero a poche linee e macchie. Anche questa povertà grafica dell’insieme (e perfino il tratto un po’ insulso del leone) contribuiscono a concentrare l’attenzione sul gesto del personaggio centrale.

Ora, indubbiamente, Raymond sta raccontando per immagini. Però ciò che costruisce l’effetto dinamico non è solo quello che lui ci mostra, ma anche la dinamicità stessa del suo tratto, insieme con l’evocazione di rapidità e sicurezza che esso esprime. Il che non vuol dire che Raymond fosse davvero rapido e sicuro nel disegnare; probabilmente lo era anche, ma l’essenziale è che il suo segno lo mostri tale.

Per questo è tanto più difficile dare l’idea del movimento in un’immagine fotografica, dove non puoi evocarlo attraverso la dinamicità del gesto pittorico. Disegnare è molto di più che riprodurre la realtà: nelle giuste condizioni, il dinamismo del segno stesso può valere ancora di più del dinamismo delle figure rappresentate.

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Di due tipi di inchiostro

José Muñoz e Carlos Sampayo, Nel Bar, Quelli che, 1981, pag.14

José Muñoz e Carlos Sampayo, Nel Bar, Quelli che, 1981, pag.14

Alex Raymond, Rip Kirby, 3 maggio 1956

Alex Raymond, Rip Kirby, 3 maggio 1956

Qualcosa si capisce, mi sembra, della personalità di José Muñoz e dei fumetti da lui disegnati anche solo dal suo modo di stendere l’inchiostro. Per capire meglio, possiamo prendere come termine di paragone un’immagine di Alex Raymond, a cui già abbiamo dato un’occhiata qualche settimana fa.

Diciamo che il nero di Raymond è naturalistico. Questo di per sé non vuol dire molto, perché la realisticità di ogni immagine è sempre decisa dal contesto culturale in cui la si valuta. E tuttavia nel nostro contesto culturale, che è sostanzialmente lo stesso di Raymond (almeno da questo punto di vista), possiamo dire che questi tocchi di pennello cercano di rendere l’effetto che si avrebbe in una situazione reale, o magari fotografata, con una luce violenta contro l’oscurità.

Ma se il nero di Raymond è naturalistico, allora quello di Muñoz è anti-naturalistico. Questo non vuol dire che sia irreale. Anche qui ‘è una luce violenta contro l’oscurità, e anche qui l’immagine è immediatamente riconoscibile e narrativamente efficace. Ma ci sono troppi segni, e troppo nervosi, quasi geometrici. E mancano le tessiture ad ammorbidire il passaggio trra la luce piena e la piena oscurità. Dove Raymond è morbido e insinuante, Muñoz è duro, e sembra quasi che gridi.

Mi verrebbe da dire che tra Raymond e Muñoz c’è di mezzo Pratt, e il suo uso nervoso e spezzato delle linee. È Pratt che inventa nel fumetto di avventura l’anti-naturalismo, e lo fa in maniera così fluida che spesso il suo pubblico nemmeno se ne accorge, e segue i suoi “deliri” come se fossero del tutto naturali. Rileggetevi con attenzione quel capolavoro che è “Corte sconta detta arcana”, combattendo contro la fascinazione del racconto (cosa non facile), e vi accorgerete – ma solo con fatica – quanto astrusa sia la trama, e quanto irreale il disegno.

Qui, i neri di Muñoz sono ancora più astratti di quelli di Pratt. Non sempre li si può far corrispondere a zone d’ombra, così come non sempre i bianchi sono zone di luce. Quello che importa è il contrasto, e la radicalità dell’effetto; e anche importa che l’immagine appaia complessa, composita, e richieda tempi lunghi per essere letta. È così che il racconto di Sampayo può dipanare, scena dopo scena, ma anche contrasto luminoso dopo contrasto luminoso, tutta la potenza della sua liturgia negativa.

Le linee non possono essere fluide in un mondo che celebra il male. Anche loro devono esprimere l’angoscia di chi racconta, di chi ci deve condurre a sentire e a capire.

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Dei sogni raymondiani di Al Williamson

Al Williamson, Flash Gordon

Al Williamson, Flash Gordon

Al Williamson è uno degli autori che, molti anni fa, mi hanno fatto sognare. Ma era solo in parte merito suo. In verità, attraverso di lui, io vedevo Alex Raymond, ora quello di Flash Gordon, ora quello di Rip Kirby.

Lo vedevo anche attraverso Frazetta, ma lì c’era pure Frazetta, in maniera prepotente. Invece, se toglievo Raymond a Williamson sembrava non restare nulla.

Ora che Williamson se ne è andato, poco dopo Frazetta, è un’altro pezzo di quel che restava di Raymond che non resta più. Ed è comunque un peccato: anche se forse non erano sogni suoi, Williamson li sognava assai bene.

Al Williamson

Al Williamson

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Del pennello di Raymond e della resa a stampa

Alex Raymond, Rip Kirby 02-11-1946, dettaglio. Edizione Comic Art 1992

Alex Raymond, Rip Kirby 02-11-1946, dettaglio. Edizione Comic Art 1992

Ecco di nuovo il nostro Maciullatore, questa volta dalla striscia di Rip Kirby del 2 novembre 1946. Siamo nell’ultima striscia di una storia. Il nostro villain, dato poco prima per morto, riemerge dall’acqua e viene salvato da una nave con destinazione Sudafrica, buono per la prossima riapparizione, ma per il momento fuori gioco.

Ho scansionato questo dettaglio dall’edizione da edicola realizzata da Comic Art, pubblicata nel 1992. La potrei trovare anche una bella immagine, magari un po’ scura, se non avessi sotto mano il confronto con l’originale, che potete vedere qui sotto, alla fine del post – scansionato dalla tavola di Alex Raymond conservata presso il Fondo Gregotti. (Ho giocato un po’ di luminosità e contrasto con Photoshop, giusto per rendere bianco il fondo, e per scurire appena quei neri che nell’originale non sono pieni ma nella stampa lo diventerebbero: insomma, in modo da simulare l’effetto di una resa a stampa di buona qualità)

Non vi pare che la differenza sia impressionante? Confrontate gli occhi, o il naso, e il modo in cui – per esempio, le piccole ombreggiature tratteggiate dell’originale diventano una linea spessa di nero nella copia. L’edizione Comic Art è anche leggermente deformata: a parità di altezza, è un poco più stretta. Ma questo sarebbe davvero un peccato veniale, al confronto dello scempio a cui risultano sottoposte le pennellate affilate e intensamente modulate di Raymond, che finiscono per trasformarsi in un blob di melassa d’inchiostro, dove tutte le estremità sono arrotondate, e dove tutte le linee sottili diventano spesse, non di rado fondendosi con quelle vicine.

Come accade? Non è difficile capirlo: si usa una fotocopia della fotocopia di una fotocopia. Spesso con i fumetti storici non ci sono molte alternative; e per un’edizione a basso costo le alternative, anche quando ci sono, non sono economicamente percorribili.

La cosa che stupisce è che Rip Kirby resta molto godibile persino in queste condizioni di stampa; segno che la qualità del disegno non è fatta solo di finezze, ma anche di costruzione plastica complessiva – e quella, nonostante tutto, rimane. Però sarebbe come se, nel leggere un romanzo tradotto da un’altra lingua, l’editore italiano avesse tolto tutti gli aggettivi e tutte le descrizioni di contorno, lasciando solo quello che è essenziale per capire ambientazione e trama. Magari si legge lo stesso. Magari lo si apprezza lo stesso. Però si ignora davvero tutto quello che è andato perduto, e quanto più gratificante sarebbe stato leggerlo nella versione completa!

Alex Raymond, Rip Kirby 02-11-1946, dettaglio dall'originale

Alex Raymond, Rip Kirby 02-11-1946, dettaglio dall'originale

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Di Alex Raymond e del suo pennello

Alex Raymond, Rip Kirby, 3 maggio 1956

Alex Raymond, Rip Kirby, 3 maggio 1956

Quello che vedete qui a fianco è un dettaglio della striscia del 3 maggio 1956 di Rip Kirby, disegnata da Alex Raymond. Il personaggio raffigurato è the Mangler, o il Maciullatore, un sinistro villain ricorrente nella serie. L’immagine è stata scansionata direttamente dall’originale dell’autore, conservato presso il Fondo Gregotti.

Non è stato Raymond a introdurre l’uso del pennello tra i disegnatori americani di fumetti. L’onore va a Noel Sickles, compagno di viaggio e di lavoro di Milton Caniff. Sickles abbandona l’universo del fumetto nel 1936, subito prima che lo stile grafico adottato da lui e Caniff faccia epoca, per diventare lo stile con cui vanno disegnati i fumetti d’avventura in America. Ma nessuno, nemmeno Caniff stesso, o Will Eisner, è arrivato alla padronanza che Raymond ci mostra con questo strumento negli anni di Rip Kirby, e in particolare in questa immagine.

Certo, non è necessariamente tutto opera del pennello, quello che stiamo vedendo. Molti tratti sottili, specie nella zona del viso, potrebbero essere stati tracciati con un pennino – che meglio si presta a ottenere certe spigolosità dinamiche, che caratterizzano tutto il disegno di Rip Kirby (esattamente al contrario di quello che succedeva qualche anno prima con Flash Gordon). Ma poi, anche parecchi tratti sottili da pennino sono stati rafforzati col pennello, per dare più incisività alle ombre – come nella linea del profilo, che dal sopracciglio destro scende al naso e alla bocca.

E comunque, l’effetto drammatico di questa costruzione monumentale, enfatizzata dall’inquadratura con il punto di vista ribassato, è tutto giocato sulle grandi pennellate nere dell’abito e della manica, che creano l’effetto di luce radente, il quale a sua volta permette di vedere il personaggio come colto da una luce violenta e improvvisa mentre emerge dall’ombra.

Il lettore affezionato di Rip Kirby è in grado di riconoscere immediatamente questa figura sinistra, che è stata al centro già di altre avventure del nostro protagonista, e che – ovviamente – era dato per morto. A dire il vero, questa immagine procura un brivido anche se non sappiamo chi è il personaggio rappresentato; tanto più lo farà dunque, quando lo sappiamo.

Ci sono due punti di forza, in questa figura. Uno è ovviamente il viso, che si vede. L’altro è la mano, nascosta nella tasca, ma messa fortemente in evidenza dal gesto, a sua volta sottolineato dalle pennellate delle pieghe della manica. La tasca nasconde probabilmente qualcosa, magari un’arma, o forse solo una mano capace di colpire. Se seguiamo il percorso della manica, vediamo che c’è una linea con tendenza ovale accennata dalla spalla in alto alla tasca in basso. E, conversamente, se da lì risaliamo tenendoci un po’ più a sinistra, un secondo arco conduce alla zona del bavero e quindi al viso. L’attenzione viene in questo modo portata alternativamente dall’uno all’altro dei due luoghi nodali, attraverso due percorsi, uno, discendente, dalla luminosità al buio; l’altro, ascendente, attraverso il buio sino alla luce del bavero e del viso.

Al centro di quel viso, il Maciullatore sta guardando noi, più in basso di lui. Proprio come nella scena madre di un film hollywoodiano, come in un Terzo uomo decisamente più cattivo dell’originale.

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di Daniele Barbieri

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