8 Luglio 2019 | Tags: Franca Mancinelli, poesia | Category: poesia |
Piccole corone di spine (Nota critica a A un’ora di sonno da qui)
Come in una sorta di misticismo laico, le poesie di Franca Mancinelli trasfigurano il quotidiano nel tentativo di cogliere una qualche pienezza dell’impatto del vissuto. Forse la stanza cui ha fatto riferimento Milo De Angelis presentando una sua raccolta, dall’interno della quale l’autrice percepirebbe il mondo attorno, non è che una straniata, fuori fuoco, messa in scena dell’io, anch’esso comunque qui trasfigurato al medesimo modo.
Metafore, similitudini, correlativi oggettivi, pur apparendo certo differenti sulla superficie del discorso, manifestano in realtà una natura profonda comune. Essi tendono infatti ugualmente, con maggiore o minore forza, a mettere in dubbio l’organizzazione del mondo per cose tra loro distinte, per proprietà tra loro distinte, per azioni tra loro distinte, cui corrispondono, nel linguaggio, le rispettive parole: nomi, verbi, aggettivi. Questa organizzazione del mondo ci è necessaria per sopravvivere, e si è dimostrata nel tempo efficace, pragmaticamente vincente, non meno di quanto lo sia l’illusione dell’io, l’illusione della coscienza. Nondimeno la poesia esiste anche per ricordarci che non si tratta della realtà, ma solo di un espediente efficace per tenerle testa; e che c’è molto di più, sia nel linguaggio che nel mondo, di quello che la comunicazione quotidiana sembra permetterci di pensare. Le relazioni tra le cose, e quelle tra le parole sono assai più sottili e complesse di quello che la razionalità della nostra stabile concezione del mondo ci autorizza ad accettare. Come dire che tanto il linguaggio quanto il mondo possiedono un inconscio che la parola standard non conosce.
Molto tempo prima che esistessero le religioni come le intendiamo oggi, il misticismo era il tentativo di oltrepassare la barriera razionale del linguaggio, alla ricerca di una totalità che le parole e la normale immagine del mondo non permettevano di raggiungere. Si trattava di un tentativo destinato a fallire: nessuna totalità può essere davvero colta da una finitudine come quella umana. Nondimeno si trattava di un tentativo fertile, perché metteva in discussione quello che sembrava assodato e assestato: il mondo, l’io, e magari, da un certo punto in poi, persino Dio.
Non c’è bisogno di andare lontano per incontrare questo straniamento. Da un io deragliato, da una stanza poco messa a fuoco, il mondo può apparire come un reticolo di relazioni inaspettate tra le cose, gli eventi, le proprietà, i quali, pur essendo quello che sono, sono di colpo anche tutt’altro, e ci aprono la vista su panorami insospettabili del senso, e quindi del mondo.
Gli animali che migrano in noi, le formiche del sangue fermo, o al posto delle ciglia, magari rosse e velenose, la biscia, la lucertola, gli uccelli che insegnano alla voce, gli insetti costanti, le bestie buone sono altrettanti animali e insieme altrettante immagini di un’interiorità che è sempre insieme esteriorità, di un raccoglimento che è sempre insieme dispersione. Non troverete verità confortanti nelle poesie di Franca Mancinelli, ma solo suggestioni inquiete, piccole corone di spine, frammenti di corpo insieme a frammenti di mondo.
In verità anche il sacro, questa pienezza terribile che il mistico cerca a costo della ragione e magari della vita (e la Chiesa, a suo tempo, parecchi ne ha bruciati come eretici, da Margherita Porete a Giordano Bruno), anche il sacro non appare qui che spezzato, frammentato, percepibile solo per brevi folgorazioni. Se qualcosa la ragione stessa ci ha insegnato è a non prendere fino in fondo sul serio né lei stessa né le sue negazioni. Questo forse distingue la modernità dalle epoche che l’hanno preceduta.
Intuizioni e frammenti, dunque. E le parole come cose che costruiscono un mondo, fatto di suoni e di linee di scrittura, non meno che dell’universo di senso che emerge da quei suoni e da quelle linee. Echi di suoni, echi di andamenti ritmici, echi di forme del mondo rimandate da quei suoni e da quei ritmi: non c’è realtà senza ricorrenze. Questo lo sa anche la parola quotidiana, come lo sa la prosa del mondo, pure se fingono di ignorarlo. La poesia, come la musica, mette a nudo l’illusione, e ci rilancia nel ritorno delle cose, dei suoni, delle relazioni.
Nel mondo che gira attorno alla stanza di Franca Mancinelli le cose trovano un posto imprevisto, eppure familiare, come le nostre vene, il cui profilo ci è così bene noto quando affiorano alla pelle, ma per il resto…
L’originale si trova qui.
11 Ottobre 2018 | Tags: Franca Mancinelli, poesia | Category: poesia | Franca Mancinelli, da A un’ora di sonno da qui, italic pequod, 2018
Mi ha molto colpito la lettura di A un’ora di sonno da qui, dove Franca Mancinelli riunisce due raccolte precedenti: Mala kruna (2007) e Pasta madre (2013) più qualche inedito. Il testo che cito qui sopra è il primo di Pasta madre.
Scrivo queste righe come esercizio di comprensione, per cercare di capire perché questo specifico componimento mi sia apparso così significativo. Procederò accumulando osservazioni sparse, inizialmente senza un progetto, sperando di arrivare, alla fine, a tirarne le fila.
Pur non essendo una poesia con rime, non posso fare a meno di notare che la coppia di vocali terminali dei versi genera la seguente sequenza: o-o, a-i, o-o, o-i, a-o, a-i, a-i, o-i, o-i, a-i. Dopo un inizio appena più incerto, gli ultimi cinque versi hanno chiaramente uno schema di assonanze di tipo AABBA, ma anche i primi cinque si tengono foneticamente in zona, come a creare una nebulosa che arriva poi a essere alla fine più nettamente definita. Eccetto il primo verso, poi, tutti gli altri contengono una lettera n o m tra le ultime vocali, o in loro prossimità (come nel quarto, nel terzultimo e nel penultimo, peraltro vicinissimi tra loro: noi-noi-nostri). Anche questa consonanza rafforza l’effetto di ricorrenza.
Ma la rima troppo netta viene evitata. Per questo, mi sembra, la parola ali inizia il quarto verso invece di terminare il terzo. La rima, pur imperfetta, sciami-ali, sarebbe risultata molto forte, con una chiara intonazione conclusiva. L’enjambement invece nega decisamente questa conclusività, e il punto fermo dopo ali viene immediatamente riaperto dal seguito del verso. Questa riapertura, inoltre, segnala l’inizio di una nuova fase: dopo due periodi molto brevi, il periodo che si apre qui proseguirà sino alla fine. Ma il fatto che i due soli punti fermi intermedi della poesia si trovino entrambi in posizione non conclusiva di verso li rende più deboli, suggerendo implicitamente quella stessa continuità che poi si manifesta compiutamente dal quarto verso in poi.
Sembra che queste due osservazioni, una fonetica e l’altra sintattica, ancora prima di prendere in considerazione elementi più apparentemente centrali, concorrano nel mostrare come nel corso dei versi si passi da una minore a una maggiore compiutezza. La stessa sensazione si prova iniziando a guardare più da vicino la sintassi e il discorso che ne viene articolato.
Il primo periodo, iniziando in minuscolo, dà l’idea che manchi qualcosa prima del suo inizio effettivo. L’espressione stessa cucchiaio nel sonno, prima di poter essere compresa come un’apposizione de il corpo, si presenta come un’apparizione irrelata, enfatizzando l’anormalità dell’associazione del cucchiaio con il sonno. Quando, a fine verso, scopriamo che il cucchiaio è il corpo, l’espressione cucchiaio nel sonno ha già sollecitato in noi degli interrogativi. Il seguito della proposizione li risolve e insieme rilancia: cucchiaio è infatti semanticamente compatibile con raccoglie, e sonno con notte. Di conseguenza si capisce che il corpo raccoglie la notte perché è cucchiaio nel sonno. Ma che cos’è il raccogliere la notte? (Aggiungo, en passant, l’allitterazione tra i tre termini cruciali cucchiaio, corpo e raccoglie)
Il secondo periodo è breve e compiuto, ma inizia e finisce a mezzo verso. Come il primo periodo, è tagliato in due da una virgola, anche se qui la virgola separa due diverse proposizioni (ma questo potrebbe valere anche per il primo periodo, leggendolo come il corpo, che è cucchiaio nel sonno, raccoglie la notte). Mentre il primo periodo delinea un’operazione di raccolta, qui erompe una figura di dispersione (Si alzano sciami), secondo un classico schema tesi-antitesi. Si noti che questo schema tesi-antitesi si trova ribadito foneticamente anche lungo i tre versi su cui il secondo periodo è distribuito: nel verso 2 e nel 4 le vocali dominanti sono a e i (Si alzano sciami, ali), mentre nel verso 3 dominano o ed e (sepolti nel petto, stendono); nel verso 2 e nel 4 dominano le consonanti liquide e nasali (Si alzano sciami, ali), mentre nel 3 le esplosive palatali e dentali (sepolti nel petto, stendono). L’allitterazione sulle sibilanti è invece pervasiva.
Un’opposizione tesi-antitesi richiede una sintesi. Il terzo periodo, prima ancora di mostrarsi tanto più complesso e duraturo dei precedenti, si apre con un’aggettivo esclamativo-interrogativo, come quanti, il cui tono è immediatamente diverso da quello dei periodi precedenti. Un buon attacco, insomma, per la sintesi. Ed ecco che, infatti, gli animali richiamano gli sciami, e il migrare il movimento già evocato dall’alzarsi; ma gli animali adesso migrano in noi, richiamando la raccolta evocata dal primo periodo, e non la dispersione del secondo. Tuttavia questa raccolta viene negata subito dopo perché la migrazione è di passaggio, e il corpo evocato all’inizio si specifica concretamente ora nelle parti del suo interno, come fossero davvero luoghi di passaggio di un migrare, passando, sostando.
Il corpo è diventato, favolosamente, un paesaggio, dove persino il cuore non è che un luogo fisico – pur non potendo smettere del tutto di essere il luogo del sentimento – come l’anca, le costole. La sintesi si è posta come tesi per una nuova antitesi: l’interno, rispetto a cui si opponevano raccolta e dispersione, ambedue presenti nel transito del migrare, ora si trova a essere al tempo stesso un esterno.
La ripresa del quanti non è preceduta da un punto, ma da una semplice virgola, il che sottolinea la continuità pur nella riapertura del discorso. Ma di colpo gli animali, sin qui figura materiale, naturale, oggettiva, si trovano a essere a loro volta soggetti: vorrebbero! E poiché vorrebbero non essere noi, evidentemente invece lo sono, configurandosi come metafora di qualche pulsione o desiderio, che ci appartiene ma non del tutto, che sta nel nostro corpo ma non coincide e non appartiene davvero al nostro io. Vorrebbero, insomma, non restare impigliati tra i nostri contorni di umani. Ed ecco che le figure del corpo nominate prima, specie le costole, sembrano delineare il contorno di una gabbia (toracica, ma non solo).
Il movimento verso la dispersione c’è, e continua a essere forte, ma di colpo diventa impossibile, negato, e la raccolta finisce per vincere (ecco, insomma, che cos’è quella notte che il corpo raccoglie). Interno ed esterno sono adesso la stessa cosa, ma sono anche un interno da cui non è possibile uscire. Si arriva insomma a una sorta di fallimento della dispersione: e tuttavia gli ultimi verbi significativi sono quei non essere noi e non restare impigliati, che evocano invece un successo – pur già negato dal condizionale di vorrebbero.
L’ambivalenza tra raccolta e dispersione continua a manifestarsi, insomma, anche nel momento in cui la conclusione sembra sancire la vittoria della prima delle due istanze. E le figure del mondo esterno in cui quegli animali si muovono continuano a mantenere la loro materialità anche quando diventa chiaro che solo l’interno è in gioco qua.
Insomma, tutto il gioco formale ci porta a questa chiusa apparentemente così preparata e definita (anche la rima debole, ma in questo contesto assai significativa, tra quanti e umani rafforza il senso di chiusa – proprio come avrebbe fatto, più sopra, quella invece negata tra sciami e ali), ma la chiusa stessa è piena di ambivalenze proprio mentre sembra fornirci una conclusione.
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