Del segno di Sto

Sto (Sergio Tofano), Il miracolo di don Luciano Zimmardo, 1917

Sto (Sergio Tofano), Il miracolo di don Luciano Zimmardo, 1917

Anche questo disegno di Sergio Tofano proviene dal Fondo Gregotti. È del 1917, l’anno in cui debutta il Signor Bonaventura. Non sono riuscito a capire di che cosa faccia parte. L’immagine completa, di cui questo è un dettaglio, contiene il titolo. Forse è la testata illustrata di un racconto, o per una locandina.

Comunque sia, mi interessa qui solo come esempio del tratto di Tofano, il cui interesse sta probabilmente proprio nella sua essenzialità. È il tratto di un pennino duro, quasi per nulla modulato, che definisce le figure con poche linee tendenzialmente rettilinee, o poco poco curve (per questo, l’unico luogo del disegno in cui le curve abbondano – cioè il volto del malato – riceve poi tanto rilievo). Persino la mano al centro dell’immagine è un susseguirsi di frammenti di retta.

Con questa omogeneità e leggerezza, bisogna poi essere molto bravi a costruire l’immagine, perché, in assenza di dettagli, quello che emerge è inevitabilmente l’insieme, con le piccole discrepanze: il bellissimo dettaglio delle due dita ravvicinate nella mano al centro, che rende gentile il gesto; la piega dell’altra mano, che la mostra abbandonata; la tensione dei bottoni della federa, dentro cui il cuscino sembra quasi esplodere…

La leggerezza e irrealtà del tratto rende altrettanto leggera e irreale la situazione, e ci rivela la vocazione teatrale di Tofano. Non è la realtà che interessa a Sto, ma la sua evocazione, l’allusione alle cose, il loro racconto. La sua è una linea chiara qualche anno prima di Hergé, ma più matura e intellettuale e disillusa di quella del grande belga. Nel creare Bonaventura, darà presto vita a un anti-anti-eroe, uno che vince per sottrazione di doti: non perché sia bello, o forte o intelligente, ma perché è sgraziato, inetto e un po’ stupido.

Insomma, solo nella stilizzazione del teatro e della sua ironia ci può essere salvezza. Solo nel distillare la realtà in queste linee essenziali, costruite con cura e destinate a mettere in evidenza le opportune sfumature c’è davvero l’arte, se mai arte ci può essere. Il futurismo, ultima spiaggia della genialità italiana, sembra essere l’unica direzione possibile da prendere, ma è ben lontano dal bastare, ben lontano dal salvarci. Tofano se ne ride anche di Marinetti. Non gli piace il fracasso. Le sue linee e i suoi disegni sembrano evocare una voce bassa anche quando ci fanno ridere a voce alta. Oppure, come qui, si accompagnano a un gesto delicato, con eguale gentilezza.


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“Del fumetto prima del fumetto” strikes back

Rispondo a Matteo Stefanelli che commenta il mio post del 26 febbraio (che a sua volta commentava il suo del 3 febbraio).

Direi che tra la situazione dell’origine del cinema e quella dell’origine del fumetto c’è una differenza cruciale, che cambia tutto il modo in cui si possono considerare le cose. Il cinema deve la sua esistenza a un’invenzione tecnica, quella dei fratelli Lumière. Prima non poteva proprio esistere, per banali ed evidenti ragioni tecniche. Non c’è dunque problema a posizionare l’origine del cinema. E tutto quello che è accaduto prima e che in qualche modo lo anticipa ne è chiaramente preistoria.

Ma il fumetto non si basa sostanzialmente su nessuna invenzione tecnica. Tutti gli elementi che lo costituiscono sono già comparsi prima che compaia Yellow Kid. È un poco come cercare di decidere quando nasce il jazz: il periodo lo sappiamo, ma qualsiasi anno di nascita preciso si possa proporre è facilmente e legittimamente contestabile. L’origine del jazz è un fatto sfumato.

A meno che non si possa decidere, con una certa dose di convenzionalità, un evento particolare e particolarmente importante che faccia da spartiacque. È ovvio che la vita di un cittadino romano non è cambiata gran che dopo quel fatidico 476 d.C., e non sono stati in molti ad accorgersi di quel venerdì 12 ottobre 1492: sono date simboliche, per le quali si è scelto un evento le cui conseguenze avrebbero poi, col tempo, mutato la storia.

Il 1895 o 1896 (a seconda che prendiamo la data di pubblicazione di Hogan’s Alley, oppure il momento in cui Outcault si mette a usare il balloon e la sequenza) è dunque una data simbolica. Poiché non possiamo adagiarci sulla sponda tranquilla di un’invenzione tecnica, la più turbinosa e discutibile subitanea diffusione di massa che avviene negli USA in quel momento può essere una buona data per posizionare lo spartiacque.

Non che in Francia e Inghilterra e Germania non fosse già successo niente: era successo un sacco di roba, lo sappiamo! Ma Caran d’Ache, poniamo, era davvero consapevole di stare utilizzando un linguaggio nuovo? Sapeva di essere bravo, quello sì. Ma in fondo non faceva che realizzare (moolto brillantemente) dei racconti illustrati che potevano fare a meno delle parole.

Io ho la sensazione che il successo industriale del fumetto negli USA, proprio perché così improvviso e dilagante, dia da subito la sensazione agli autori dell’epoca di avere per le mani qualcosa di nuovo. E magari si sbagliavano (perché gli Americani, di solito, non sono particolarmente colti, e amano pensare di aver inventato qualcosa di nuovo, in barba alla vecchia Europa), ma, anche sbagliandosi, si sbagliavano tutti insieme: e in questa (forse) illusione collettiva l’espressione comics è passata ad essere un sostantivo dall’aggettivo che era.

Se non ci fossero stati gli americani, gli eleganti autori europei avrebbero continuato – come già facevano – a realizzare raccontini per immagini senza balloon e senza invenzioni di messa in pagina: non avremmo cioè avuto McCay, per esempio. Di fatto, è proprio questo che è successo in Europa sino a tutti gli anni Venti; e solo le spinte innovative provenienti dall’America hanno cambiato la situazione.

Poi, Rubino e Tofano sono ugualmente dei maestri, e io li amo molto entrambi; ma non dimentichiamo che fine facevano le tavole di Little Nemo quando diventavano il Bubu del Corriere dei Piccoli! È un po’ come quando, studiando la preistoria, si scopre che c’erano regioni in cui si era già all’età del ferro, mentre altre, poco distanti, magari stavano ancora scoprendo il bronzo. Ecco, rispetto al fumetto è andata un po’ così: il bronzo l’abbiamo scoperto noi, e l’abbiamo insegnato agli americani, poi loro hanno capito come si faceva il ferro e noi no.

Per questo, finché qualcuno non mi propone uno spartiacque altrettanto forte, io continuo a metterlo lì, tra il 1895 e il (meglio) 1896. Non è cambiata molto la narrazione per immagini tra poco prima e poco dopo quel momento; ma senza quel momento non so se avremmo la narrazione a fumetti oggi.

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di Daniele Barbieri

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