Recensioni d’annata, 2000. Luce sul Sol Levante

Luce sul Sol Levante
Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2000

E’ davvero difficile dare nelle poche righe di un articolo di quotidiano un’idea di che cosa siano il fumetto e il cinema d’animazione giapponese. La difficoltà – per fare un paragone con qualcosa di certamente più noto al lettore – sarebbe analoga a quella di cercare di descrivere in quelle stesse poche righe il cinema americano, trovando una cifra comune a Welles, Allen, Wilder, Altman e ai mille nomi meno noti di un secolo di produzioni. Perché se c’è qualcosa che i due mondi del fumetto e del cinema d’animazione giapponesi hanno in comune con quello del cinema americano è l’enorme quantità di materiale prodotto e in continua produzione, e l’enorme differenza di qualità al loro interno.

Si producono e si leggono più fumetti nel solo Giappone che nel resto del mondo. Si producono e fruiscono più cartoni animati in Giappone che in qualsiasi altro paese. Al punto che, per quanto rilevanti, le esportazioni di questi prodotti rendono ai loro editori assai meno dei consumi all’interno dello stesso Giappone.

E’ dunque naturale che di questa produzione sterminata, creata per un pubblico assetato di narrazioni per immagini, quello che arriva in Occidente non possa che essere una minima parte, della cui scelta non sempre la qualità è il discriminante principale.

E la qualità non è tipicamente neppure la ragione del successo di un prodotto, seppure certamente un qualche tipo di qualità non possa che essere riconosciuta in un prodotto che goda di grande successo. Quale che essa sia, nel nostro caso, è innegabile che, per una via o per un’altra, tubo catodico o carta stampata, l’immaginario giapponese si sia introdotto pesantemente in quello giovanile italiano, dagli anni Settanta in poi.

Come questo sia avvenuto ce lo racconta un ponderoso volume di Marco Pellitteri, dal titolo emblematico: Mazinga nostalgia. Quasi 500 pagine di analisi delle mitologie massmediatiche italiane prima e dopo l’avvento degli anime, i cartoni animati giapponesi, con una minuziosa ricostruzione del modo in cui questi sono entrati nelle televisioni italiane, ne sono stati anche malmenati e censurati, e hanno conquistato il loro pubblico.

L’aspetto più interessante del libro di Pellitteri, che è comunque in generale assai notevole per la precisione e la documentazione (nonché la facilità di lettura), è la rivendicazione dell’autonomia e dell’originalità stilistica delle produzioni giapponesi. L’autore è appassionato nel sostenere – e con argomenti del tutto validi – che il giornalismo e la stampa italiana hanno fatto di tutto per diffondere l’idea che il cinema d’animazione giapponese sia solo una squallida e malriuscita imitazione di quello americano, dimenticando o volutamente tralasciando di considerare i suoi caratteri innovativi. L’animazione giapponese non sarebbe dunque un’animazione più legnosa e povera, ma il prodotto di un diverso sistema di rappresentazione del movimento e del mondo. E il paragone, semmai andasse fatto, non dovrebbe essere tra l’animazione televisiva giapponese e quella cinematografica americana, bensì tra pari – per scoprire che il cinema d’animazione giapponese ha prodotti che ben difficilmente si potrebbero giudicare inferiori a quelli di Walt Disney, mentre nelle produzioni televisive seriali molto spesso le produzioni americane non sono affatto né tecnicamente migliori né particolarmente più educative.

Quello che Pellitteri non fa è di valutare le differenze di qualità all’interno della stessa produzione giapponese. Nella sua prospettiva questa assenza è del tutto giustificata, perché il suo proposito è quello di documentare una porzione dell’immaginario giovanile, e non di tranciare giudizi su cosa sia destinato a restare e cosa no. Ma quando gli stessi prodotti di cui lui parla vengono visti da qualcuno che appartiene a una generazione più vecchia, che non ha vissuto l’invasione giapponese come formativa, queste valutazioni sono inevitabili.

Non mi dispiace affatto, allora, cercare di separare il grano dal loglio, persino quando, dopo la lettura di questo libro, il loglio non mi appare più pernicioso come prima. E rivendico le mie preferenze di educato occidentale, che mi portano a valutare certe storie, personaggi e autori come affascinanti, e altri come educatamente tollerabili.

Tra gli affascinanti – ed è giocoforza limitarsi a quello che l’editoria italiana ha tradotto recentemente – vanno sicuramente le produzioni di Osamu Tezuka, il riconosciuto padre del fumetto e del cinema d’animazione nipponici. Di Tezuka si parla talvolta come del Disney giapponese, ma, qualità a parte, il paragone è fuorviante, se non altro perché i grandi temi politici e ideali che Disney ha sempre escluso dalle sue produzioni sono invece continuamente al centro di quelle di Tezuka, sia nei suoi lavori per bambini che in quelli per adulti.

Rivolto agli adulti per complessità e tematiche (ma certamente assai leggibile anche dai più giovani) è il Budda, in corso di pubblicazione da parte delle edizioni Hazard di Milano. Una storia monumentale: quattordici volumi di oltre duecento pagine ciascuno, che iniziano raccontando di eventi che precedettero la nascita di Siddarta, e proseguono con la sua giovinezza di principe e la sua vita. Come già avevo avuto modo di commentare a proposito de La storia dei tre Adolf, pubblicato da Hazard nel 1998 (vedi Il sole 24 ore, 31.1.1999), il lettore non abituato a questo modo di raccontare potrà talora trovare irritante la presenza di raffigurazioni e situazioni umoristiche in contesti decisamente drammatici. Ma se si arriva ad accettare questo effetto della differenza culturale, ci si accorge passo passo, leggendo le pagine di Tezuka, di essere condotti per mano da un narratore di grandissimo livello, capace di commuoverci talvolta persino mentre pensiamo che quella battuta (per noi) di cattivo gusto se la poteva forse risparmiare…

Gen di Hiroshima, di Keiji Nakazawa, è invece il regalo che fa l’editrice Planet Manga (Panini-Marvel) ai lettori italiani. Una storia pluripremiata, la cui lettura dovrebbe, a mio parere, essere resa obbligatoria nelle scuole dalle medie in poi. Gen è un ragazzino che vive a Hiroshima nel 1945, e vive prima la realtà triste di un paese non libero, dove essere figlio di una persona che non riesce a tacere quello che pensa può essere un grosso problema. E poi, in questa realtà difficile, ma tutto sommato quotidiana, irrompe il 6 agosto, e tutto diventa un inferno.

Hiroshima vista da dentro, insomma, dal mondo degli affetti personali e delle necessità di sopravvivenza di un bambino. Una storia a fumetti che racconta, con la sensibilità e la precisione che vorremmo trovare più spesso nella letteratura ufficiale, uno dei temi ricorrenti dell’immaginario giapponese: quello della catastrofe. Dedicato a chi continua a diffidare dei racconti per immagini del Sol Levante.

 

Marco Pellitteri
Mazinga nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake-generation.
Castelvecchi 2000. Pp.480, £. 24.000

 

Osamu Tezuka
Budda
Hazard Edizioni, 1999-2000. Ogni vol. pp. 222, £. 15.000

 

Keiji Nakazawa
Gen di Hiroshima, vol.1
Planet Manga 1999. Pp. 296, £. 25.000

 

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Recensioni d’annata, 1999. I tre Adolf di Tezuka

I tre Adolf di Tezuka
Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 1999

In Italia, il fumetto giapponese gode di cattiva fama, perlomeno nell’opinione comune. L’immaginazione evoca facilmente frotte di ragazzini fanatici per cartoni animati e pubblicazioni dalla qualità discutibile. Ma in Giappone si producono più fumetti forse che nel resto del mondo, e anche se è probabilmente vero che la qualità della gran parte del fumetto giapponese corrisponde all’opinione diffusa, esistono anche le manifestazioni di una letteratura per immagini di grande valore.

Osamu Tezuka, scomparso a sessant’anni nel 1989, è considerato il padre del moderno fumetto giapponese. La storia dei tre Adolf, realizzata nel 1983, è un racconto sull’intolleranza, sulla guerra e su come lo stato può schiacciare l’individuo. E’ la storia intrecciata di alcune persone: un giornalista giapponese, a cui i nazisti hanno ucciso il fratello in Germania, un bambino ebreo che vive in Giappone, di nome Adolf, un altro bambino di padre tedesco e madre giapponese, anche lui di nome Adolf, e infine Adolf Hitler. Un Hitler visto singolarmente da vicino, che finirà per impazzire per il timore che vengano rivelati i documenti intorno a cui gira tutta la storia, e che potrebbero provare una sua ascendenza ebraica.

Per un lettore occidentale poco avvezzo al modo di raccontare giapponese, certi modi di rendere le scene potranno sembrare strani, o poco seri, come la frequente consuetudine di situare situazioni comiche nel bel mezzo di una scena drammatica. Ma a lungo andare anche queste che a noi possono apparire come disparità finiscono per essere assorbite dall’intensità della storia. Il giornalista rischierà più volte di essere ammazzato, per proteggere i documenti; il padre dell’Adolf ebreo, partito per la Lituania per salvare dei correligionari, sarà imprigionato dai nazisti; mentre al secondo Adolf toccherà il destino più infame, diventando egli stesso – dopo aver rinnegato i buoni propositi della sua infanzia – un ufficiale delle SS e uno sterminatore.

Non è una lettura breve. Nella migliore tradizione del fumetto giapponese La storia dei tre Adolf si avvicina alle 1500 pagine complessive, divise in cinque volumi. Per chi lamenta che la lettura di una storia a fumetti duri sempre troppo poco, è il testo ideale.

 

Osamu Tezuka
La storia dei tre Adolf
Hazard Edizioni, Milano
Voll. 1-5, ogni volume 270 pagg. £. 20.000

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di Daniele Barbieri

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