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Poesia sociale e poesia civile

La mia testa continua a ronzare sulla questione della poesia civile, e continua a fare qualche passo più in là. Sto cercando di capire perché la nozione di poesia civile (mi) appaia tanto più problematica della nozione (per esempio) di romanzo civile.

Proviamo a seguire questa linea di pensiero: in principio c’era l’epica, Omero, insomma. Era poesia civile, quella? Non mi sembra un’espressione adeguata per parlare dei poemi omerici. Questi però, indubbiamente, esprimevano una serie di valori in cui i suoi fruitori si riconoscevano, e sappiamo bene quanto fosse importante la funzione anche didattica dell’epica omerica. Proviamo allora a definire quella della poesia omerica come una funzione sociale della poesia, nel senso che proprio perché i valori espressi da quella poesia erano valori condivisi e fondanti per la società greca, la definizione di sociale può essere accettabile. Sottolineo che non sono particolarmente legato a questa parola, sociale; potrebbe andar bene anche un altro termine, purché diverso da civile. Potremmo dire che era umana, nel senso di portatrice di valori umani, ma questo potrebbe implicare che si tratta di valori universali; mentre erano semplicemente greci. Potremmo dire che era culturale, nel senso che contribuiva a costruire la cultura greca, ovvero il modo che i Greci avevano di pensare il mondo; ma questo potrebbe apparire riduttivamente cognitivo. Per ora, sociale mi sembra il termine più adatto; ma sono pronto ad abbandonarlo di fronte a proposte migliori.

Quello che è interessante è che, in questi termini, la lirica di Saffo non era meno sociale dell’epica di Omero. Se godeva di successo, era proprio perché a sua volta esprimeva dei valori socialmente condivisi. Si noti che l’espressione socialmente condivisi non vuol dire universalmente condivisi, nemmeno nell’universo ristretto della cultura greca. In altre parole, affinché la poesia di Saffo come quella di Omero sia sociale non occorre che i valori che esprime siano condivisi da tutti: è sufficiente che ci sia un gruppo che li condivide, e tanto meglio se si tratta di un gruppo influente, perché vasto o perché forte, o perché sufficientemente compatto e duraturo.

Dovremo insomma ammettere che la poesia di qualità, ovvero la poesia che viene apprezzata da un gruppo in qualche modo influente, è comunque poesia sociale, anche se parla d’amore, perché l’amore stesso è un fatto sociale, ed è estremamente sociale il modo in cui se ne parla e lo si affronta.

Il fatto che tutta la poesia, nella misura in cui viene apprezzata, sia comunque poesia sociale, non è esente da problemi. Appena (cioè sempre) la società non è compatta, appena gruppi sociali diversi hanno valori diversi, si diversificherà anche la possibilità di apprezzare la poesia sulla base dei valori che esprime. Certo, ci saranno presumibilmente dei valori molto profondi e indiscussi che vengono riconosciuti più o meno da tutti, e che permetteranno un consenso molto più vasto di altri.

Questo non vuol dire che questi valori siano universali. L’epoca della Controriforma dà per esempio vita, specie in terra spagnola, a una straordinaria vena di poesia mistica. I suoi valori erano certamente all’epoca ampiamente condivisi. Tuttavia, per me, oggi, apprezzare la poesia, poniamo, di Juan de la Cruz, mi costringe a un esercizio di selezione dei valori, arrivando a vedere quelli più specificamente cattolici come prodotto della sua epoca, con una componente ineliminabile di persuasività pro-fede (propaganda cattolica controriformistica, insomma), e salvando invece gli altri, che comunque ci sono, e contribuiscono a mantenere grande e viva la sua poesia ancora oggi. Se la poesia è sociale, è anche terreno di scontro sociale, inevitabilmente.

Nel frammento 84 della Gaia Scienza (non finirò mai di citarlo), Nietzsche sottolinea la straordinaria capacità persuasiva della poesia, dovuta al ritmo, e alla conseguente capacità di costruire un accordo condiviso, una Stimmung. Non è un caso che la riflessione di Nietzsche arrivi proprio sul finire di un secolo, l’Ottocento, che ha visto il trionfo della retorica (nel peggior senso del termine), ovvero della poesia utilizzata come motore persuasivo per cause politiche, dove la nobiltà della causa doveva essere associata alla nobiltà (ovvero classicità) del linguaggio.

A questo modo (pessimamente) civile di intendere la poesia, il Novecento contrappone un’incapacità di certezze, un’indecisione sistematica, un’epica (se vogliamo chiamarla così) dell’impossibilità dell’epica. Questa nuova poesia non è meno sociale della precedente: è che tra i valori che esprime adesso ce n’è uno fondamentale, che prima restava molto più in ombra, ovvero la problematicità del rapporto tra l’individuale e il collettivo. Per quanto paradossale possa apparire, l’accordo collettivo che si viene a creare su questa nuova poesia si fonda proprio sul riconoscimento della difficoltà dell’accordo, sull’impossibilità di risolvere la coscienza individuale nei valori civili, qualunque essi siano.

Quello che diventa cruciale, nella poesia del Novecento, è qualcosa che prima stava molto più nell’ombra (pur essendo presente) ovvero la sua capacità di mettere in movimento ciò che è assestato, di mettere in dubbio le certezze, di attivare dei modi differenti di guardare alle cose (di attivarli, non di proporli!), perché solo in questo modo essa esprime il valore (ormai fondamentale per noi) della problematicità del rapporto tra l’individuo e la collettività. La poesia non è ora né più né meno sociale di prima, ma lo è certamente in modo diverso, perché si trova a cavalcare una contraddizione che è assurta a valore fondamentale.

La proposta di Balestrini con cui concludevamo il post precedente va esattamente in questa direzione. Balestrini vede nello scardinamento del linguaggio lo strumento per attivare dei modi differenti di guardare alle cose, con spirito profondamente nietzschiano (ma ora è il Nietzsche del Crepuscolo).

Che cosa succede quando la poesia non si limita ad attivare, ma cerca piuttosto di proporre dei modi differenti di guardare le cose. La mia sensazione è che, così facendo, la poesia stia invadendo il campo di altre forme espressive, più legittimamente persuasive, e che indebolisca implicitamente, in questo modo, la sua capacità di esprimere il valore del rapporto complesso tra individuo e collettività. Lo fa perché, proponendo dei modi specifici di guardare, sta già proponendo direttamente dei valori, e in questo modo sta anche proponendo l’appartenenza a una comunità ben definita, per quanto magari alternativa a quella dominante.

In altre parole, la poesia che fa una scelta politica sta dichiarando un’appartenenza, e in questo senso può essere sentita come falsa (o addirittura propagandistica) da chi si riconosce nei valori della problematicità, dell’incertezza di appartenenza. Ecco quindi il problema della poesia civile: che per essere civile rischia di smettere di essere sociale. Che per sostenere un valore in cui io potrei pure riconoscermi, rischia di mettere in discussione un valore molto più profondo, in cui certamente io mi riconosco, perché è la base dell’idea stessa di libertà, che sta sotto a qualsiasi mozione civile.

Proprio perché la poesia è intimamente sociale, essa vive a monte di qualsiasi scelta politica. I valori di libertà, responsabilità individuale, capacità personale di arrivare a comprendere sono quelli che la nostra poesia implicitamente esprime, e lo fa attraverso il modo in cui essa è costruita ancora prima che attraverso ciò di cui parla. La poesia ci deve turbare, deve permetterci di vedere le cose come altrimenti non le vedremmo. Se cerca di darci soluzioni, non ci esprime più, nemmeno quando quelle soluzioni sono condivisibili da noi. Avrebbe scelto, in questo modo, la strada facile del consenso: ma il consenso per noi è la morte, la negazione della libertà.

Qualche volta riusciamo a chiamare civile una poesia che rispetta la problematicità del rapporto tra l’individuo e la collettività. Si tratta probabilmente di una poesia che attiva dei dubbi di carattere civile, piuttosto che asserire delle certezze, piuttosto che fare delle proposte. Le proposte ideologiche e politiche sono certamente una cosa importante, ma non spettano alla poesia. Per entrare in poesia esse devono distruggere valori ben più importanti, e trascinarla verso la triste retorica della poesia dell’Ottocento.

Certo, tutto questo non varrebbe più se i valori della libertà fossero tramontati. Credo che, per fortuna, non sia ancora così. Se lo fosse, quella che a me appare pessima retorica civile potrebbe legittimamente apparire ad altri come espressione di valori condivisi e profondi.

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15 comments to Poesia sociale e poesia civile

  • Renata Morresi, Francesca Del Moro, Leila Falà, Marinella Polidori, Francesco Galofaro, Andrea Inglese, Marco Giovenale, Enzo Campi, Claudia Zironi, Silvia Secco, Luca Ariano, Luca Rizzatello, Enea Roversi, Sergio Pasquandrea, Loredana Magazzeni Giuseppe Martella Alby Ciny Alessandro Jacopo Brusa Francesco Sassetto Lorenzo Mari Mariangela Guatteri Lou Vezzali

  • Credo che il rischio di questa ambiguità tra civile e sociale stia anche nel dispositivo mnemotecnico che dovrebbe produrre (e giustificare) la scrittura in versi, che però spesso, come fai notare, può diventare retorica civile in senso deteriore. In altri termini, ma a partire dallo stesso uso malinteso, può accadere di ascoltare letture di testi poetici che perseguono la logica del tormentone, di stampo cabarettistico (anche questo inteso nel significato deteriore del termine).

  • Caro Barbieri, meriteresti eventualmente una risposta articolata. Te la daro’ indirettamente un giorno se riusciro’ ad aver tempo sufficiente per approfondire il rapporto che a me interessa che è la differenza tra poesia civile e poesia politica. Del tuo pezzo posso dire che, volendo avere portata storica, finisce per andare molto a spanne, ma nello stesso tempo trovo che sia poco sviluppato anche sul terreno meramente teorico. Il tuo uso del termine sociale, come elemento che caratterizzerebbe la pratica poetica, seppur non chiarissimo, è talmente onnicomprensivo, che da questo punto di vista anche battere le mani è un fatto sociale. Quindi davvero ci aiuta poco, se serve come elemento contrastivo per definire la poesia civile. Un caro saluto, a. ps Dai un’occhiata all’ultimo Verri, su teorie e poesia. Li c’è una varia e aggiornata strumentazione…

    • Non vedo come battere le mani possa esprimere dei valori condivisi e fondanti per la nostra società. Come ho scritto, non sono particolarmente affezionato al termine “sociale” e sono pronto ad abbandonarlo per una proposta migliore. Che sia multi-comprensivo è certamente vero, ma onni-comprensivo mi sembra – questa sì – una generalizzazione indebita. D’altra parte, anche la multi-comprensività si riduce molto, quando si scende nello specifico di un’epoca e di un luogo, come infatti faccio poco più avanti. L’ultimo Verri lo conosco bene, e mi ha indirizzato verso il bel libro di Culler, che sto leggendo ora. Proprio parlando di Culler, Giacometti dice che “La poesia (o lirica che dir si voglia) evocherebbe un evento ritualizzato – retaggio di una tradizione orale – a cui l’Occidente ha attribuito il compito di far circolare un sistema di valori, di contenuti, sentiti come memorabili, degni di essere ricordati.” Mi sembra una posizione molto vicina a quella che ho espresso io.

    • Esatto. Culler mi sembra un buono strumento per mettere a fuoco la faccenda che t’interessa (e m’interessa). Ma non solo. Questo sulla teoria, se poi ci spostiamo sul piano storico, penso che anche li dobbiamo trovare della letteratura secondaria che sia già scesa a un livello analitico forte e questo lo possiamo trovare tra grecisti, medievisti, ecc. Insomma, la nozione di poesia civile vale la pena di essere esplorata e ridiscussa, anche sul doppio piano storico e teorico, ma credo che domandi un lavoro più lungo, rigoroso e approfondito.

  • Ciao Daniele, ti sto leggendo e rileggendo, non sono intervenuta perché francamente non so più bene cosa dire. Condivido, restando un po’ confusa, qualche pensiero. Ho fiducia nella portata politica di qualunque forma d’arte (ok, la poesia può far pensare poche persone, siamo d’accordo, ma qualcuno sì), anzi credo nel dovere dell’artista (o almeno lo sento io come dovere) di essere in qualche modo interprete dei propri tempi. Per quello che gli è dato conoscere, e di cui può parlare. La mia poesia politica (scarto la parola civile, che non mi significa nulla, e anche sociale mi piace poco) prediletta è come i film di Ken Loach. Si fonda sul realismo, lo sguardo al dettaglio, la verità. Credo più in una poesia realista, che si proponga di addentrarsi nella cosa, che interroghi il reale mettendone a fuoco le complessità. Che lavori sul linguaggio a questo scopo. Penso che la mistificazione sia oggi il principale strumento del potere, per cui trovo urgente fare la nostra parte nello spogliare determinate realtà della manipolazione e deformazione che ce le fa accettare, digerire, assimilare. Ripredendendo la tua citazione, si può usare la poesia “per rendere memorabili i valori, i contenuti” dissotterrati da sotto gli strati delle quotidiane mistificazioni. Questa è ovviamente solo una delle possibilità ma è quella che più mi interessa. Per uscire dal discorso del lavoro che mi sta più a cuore, penso che un libro come Femminimondo di Alessandra Carnaroli sia un bell’esempio di poesia politica in questo senso. Va dritto alla cosa, non fa tirate retoriche, non persuade, la mette sotto gli occhi (e qui la sperimentazione linguistica è assolutamente originale e motivata, non è esercizio virtuosistico e freddo oppure imitazione di altri modelli) e lascia al lettore che tocca la “cosa” il compito di riflettere e reagire.

    • Benissimo: prendiamo Femminimondo, che è un bel libro e forse il migliore della Carnaroli, autrice che in generale io apprezzo molto. Se l’autrice avesse voluto principalmente fare campagna politica contro la violenza sulle donne, meglio avrebbe fatto a scegliere uno strumento più efficace. Così, sarebbe tempo sprecato. Ma poiché non è affatto, in verità, tempo sprecato, dovremmo sforzarci di capire perché non lo è, pur senza essere un’azione politica efficace. Io credo che in quel testo ci sia molto di più del tema della violenza sulle donne. C’è il tema del linguaggio e dei vincoli sociali, di cui non solo le donne sono vittima, affrontato attraverso questo parlato un po’ brutale, la cui brutalità emerge tanto più aspramente proprio perché inquadrato nelle strutture poetiche della tradizione: il verso (benché libero, ma ormai è tradizione pure quello), occasionalmente la rima, occasionalmente il gioco delle citazioni, l’organizzazione grafica. Se non ci fossero queste attenzioni, il discorso poetico della Carnaroli non sarebbe interessante, anche se parla di un tema che possiamo condividere, che riteniamo profondamente giusto. Semmai, mi sembra, il fatto che il tema sia condivisibile e sentito, è un elemento che contribuisce al fascino poetico di queste poesie, che funzionano – io credo – perché mettono a nudo qualcosa di assai più profondo della violenza sulle donne, e di cui la violenza sulle donne non è che una conseguenza tra le tante.
      Ora questo è l’aspetto che io ho definito (provvisoriamente e tentativamente “sociale” – e sono pronto a cambiare parola, appena ne vedo una migliore), e che si potrebbe trovare in qualsiasi buona poesia, anche senza apparente impegno politico (civile). Ci sono poesie della Rosselli in cui apparentemente non c’è nulla di politico. Se ci limitassimo a guardare ai temi che affronta, ritroveremmo quelli classici della lirica e dell’io, quasi romantici. Ma il modo in cui in quelle poesie questi temi vengono affrontati li destruttura completamente, e le poesie della Rosselli finiscono per essere profondamente “sociali”. Una delle ragioni per cui fatico ad apprezzare la maggior parte di quello che ha scritto la Merini, invece, è che spesso il trattamento è così classico e tradizionale che attraverso di loro non scopro nulla di nuovo. Poesia non “sociale” in questo senso, cattiva poesia, poesia spesso finta, di facciata.
      La poesia della Carnaroli a me pare vera, e non meno toccante quando parla di temi meno apparentemente politici. Quella di Ken Loach, io credo, è la strada facile (che lui, comunque, sa percorrere molto bene, con risultati molto apprezzabili). Io devo sapere, se sono un poeta, che ho una responsabilità sociale (o vogliamo proprio dire “civile” o addirittura “politica”?) anche quando scrivo poesie d’amore, o poesie sugli alberi. Brecht, in questo, aveva torto, almeno se leggiamo alla lettera le sue parole.

    • Non mi sembra che quello che diciamo su Alessandra sia in conflitto, francamente. Non ho mai detto che un’azione politica in poesia debba essere legata ai contenuti in modo piatto e che non si accompagni inevitabilmente a una cura e a una forte intenzione riguardanti il linguaggio e la forma. Quindi non penso che su questo ci sia da discutere. Non penso invece che quella di Ken Loach, ovvero la via del realismo, dell’asciuttezza, anche lapidaria, sia la strada più facile. C’è questa idea, anche in poesia, ed è un preconcetto, che una cosa immediata sia qualcosa di piatto. Capisco che non si abbia la pazienza di vedere gli strati se questi non vengono esibiti in qualche modo, che ne so con qualche parola greca messa in corsivo. Il punto cruciale è però che tu sembri non ritenere che la poesia possa mettere in moto qualsiasi forma di riflessione politico-sociale, di leggere i propri tempi, farsi non dico motore ma interprete, unirsi ad altre voci per problematizzare, suscitare interrogativi. E’ così, in definitiva? Le resterebbe dunque un’indagine sul linguaggio? I temi altro non sarebbero che un pretesto per usare la lingua in qualche modo? E quando avremo rivoluzionato la lingua cosa?

  • No: è esattamente il contrario. Io penso che la poesia, se è buona, metta necessariamente in moto una riflessione politico-sociale (anche quando parla apparentemente di problemi personali, come nel caso, clamoroso e straordinario, della Rosselli). Il linguaggio, in questo senso, non è una sovrastruttura, bensì la base del nostro stesso modo di pensare: problematizzarlo, metterne in discussione la struttura è perciò l’atto più politico di tutti, perché è quello che ci permettere di sbirciare fuori da questa struttura che ci determina, e determina il modo stesso in cui pensiamo (anche politicamente).
    Quanto a Loach, dire che sceglie la strada facile non vuol dire che lui non sia bravo. Lui lo è, bravo, molto, anzi parecchio. La strada è facile, rispetto a quello di cui stiamo parlando (e non rispetto a quello che metti in gioco tu, su cui sono d’accordo) perché il tema politico è reso evidente sin dall’inizio, e mette facilmetne in gioco la nostra cattiva coscienza di militanti sempre più o meno falliti (rispetto a quello che ci sentiremmo in dovere di essere). Altri testi, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno parole greche in corsivo, sono ugualmente politici senza esserlo così palesemente. Questo non vuol dire che siano migliori, per questo. Vuol dire solo che hanno scelto una strada meno evidente, il cui aspetto politico non si vede alla prima occhiata. Ho scelto la parole “sociale” proprio per marcare questa dimensione implicita, evitando la confusione con “civile” o “politico” che di solito fanno riferimento a dimensioni esplicite, apertamente tematizzate. Ma, così come potrei abbandonare il termine a vantaggio di uno migliore, potrei dire anche “civile”, ma questo riprodurrebbe le confusioni che sto cercando di evitare.

  • ho letto i commenti e m’inserisco in un discorso ampio sulla punta di due piedini scalzi, che poi son quelli che mi han portato dentro a femminimondo: la necessità di una denuncia e la ricerca di un linguaggio aderente. denunciare il trafiletto di cronaca che nasconde dietro il paravento della tragedia una prassi (che inizia con un fiocco-rosa o blu- e può terminare con una corona di crisantemi) dell’ordine patriarcale e aderire il più possibile ad una lingua pelle, insieme quotidiana -e quindi mortale, che sa di dover finire- e nucleare, ridotta all’origine/magari originale, pronta a deflagrare. poi vabbè volendo scadere possiamo riportare il tutto al desiderio inconscio di rimestare nei propri tabù ma me pare più un discorso da divanetto naif. un abbraccio, a.

  • Già, Alessandra, ma perché farlo in poesia? Questo è – mi sembra – il punto interessante. E’ il contrasto tra quello che la poesia tradizionalmente è e quello che la fai diventare con il tuo modo di scrivere che rende interessante la questione, e crea una tensione che è, a sua volta, “sociale” o “civile”, al di là dell’argomento che affronti.

  • perché la poesia non racconta ma cristallizza, fossilizza, diventa una prova. è fatta di tagli, ripetuti. ogni a capo affonda, è una testa che cade. e poi è un dialogo diretto con chi ascolta. per me è quasi sempre così. da femminimondo ad anna matta fino a primine: è un continuo “adesso ti dico, ascolta”

  • “Cristallizza, fossilizza”, queste le faccio mie.

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