Di alcune poesie leggere, o di Leila Falà

Tutto bene grazie

Ciao come stai? Tutto bene grazie.

Proprio oggi volevo suicidarmi un po’
e poi mi è mancato il coraggio.
O la voglia di pensare a come fare.
Non mi suicido per pigrizia?
Oltretutto a un certo punto
mi han telefonato – “Ciao, sono Patrizia”.
Voleva vendermi servizi telefonici
e mi sono così offuscata che alla fine
non ci ho più pensato.
Poi è tornato mio marito,
e così il suicidio è finito.

Da qualche tempo per colpa sua
non riesco mai a combinare niente.

 

Puzzle

Quando poi sei diventato grande
tu pensi che ora che sei in fondo
il tuo puzzle dovrebbe avere la sua forma
che ormai dovrebbe comparire il disegno
di te con la tua vita amici e amori affianco
un affresco composito complesso
di serenità.
O di certezze almeno.

Invece ora tutto si confonde
ho gruppi di tessere qua e là
con forme, ma non si lega niente.
Tanta gente
ma accanto a me nessuno.
Tra un pezzo e un altro un buco
che non so quando si è formato.
Né se ci sia sempre stato.
Tra tutte queste tessere
buttate dappertutto
la mia figura infine non compare.

L’altro giorno ho trovato
un pezzo con un occhio.
Mi guardava.
Ma non era neanche il mio
era un ricordo e basta
e non di un fatto ma
di un film soltanto
o di uno spot pubblicitario
forse.

Non ho capito dove mi sono persa
forse avrei dovuto scrivere un diario
oppure tornare piccola
a domandare, se lo sa Arlecchino
che di quei pezzi almeno
si era fatto un vestito.
Anzi l’abito. Ecco
di certo so dove abito.
L’ho scritto ieri in fondo a un documento
dove chiedo che mi venga lì inoltrata
ogni evenienza.
Ci vado, questa sì è un’idea.
Magari suono. Educatamente aspetto.
Con calma.
Vediamo se rispondo.

(Leila Falà, inediti)

 

 

pRitorno dall’esperienza di RicercaBO, incontro tra autori e critici sulla scrittura di ricerca, con meno soddisfazione dello scorso anno: meno critici con cui discutere, troppi narratori e troppo pochi poeti (quest’ultimo, ovviamente, non è un difetto in assoluto – ma per i miei personali interessi lo è, certamente). Tra gli assenti, Marco Giovenale, impossibilitato per improvvise ragioni famigliari, con cui avrei discusso volentieri di persona su quello che abbiamo iniziato a discutere per iscritto su questo blog, e che forse avrebbe dato ragione più concreta di alcuni esempi di un tipo di poesia che lui sostiene, e che io non comprendo.

Torno a casa, comunque, anche con alcune esperienze positive. E di una do testimonianza qui, attraverso tre dei componimenti presentati.

Mi viene da pensare, leggendo questi versi leggeri (ma non troppo) di Leila Falà, che, per fortuna, non tutta la poesia aspira a porsi come modello universale, o come proposta per le maniere della poesia del futuro. Non c’è nessun vaticinio, qui, nessuna scoperta di verità profonda, nessun suggerimento di una profondità abissale del senso – o perlomeno, queste cose non appaiono, ma certamente, visto che si tratta di poesia, qualcuno (e io pure, volendo) sarebbe in grado di trovarvele.

Personalmente, ne apprezzo a prima vista il tono dimesso e colloquiale, in cui le rime e i giochi di suoni si inseriscono con un guizzo leggero da filastrocca, che arriva qua e là sino al palazzeschiano elenco di banalità (quelle che associano quotidianità e inquietudine un po’ angosciata – un po’ come nelle fotografie preoccupanti di Diane Arbus).

C’è quindi un profilo basso, poeticamente, con l’uso della battuta umoristica che ancora di più lo abbassa (anche se, certo, la poesia ironica ha pur una sua tradizione – ma fa così fatica a esser presa sul serio!) e l’effetto di rime assonanze e paronomasie, le quali in questo contesto rimandano immediatamente all’universo a sua volta basso della filastrocca, piuttosto che a quello alto della poesia.

Si tratta però di un inganno. Basta un poco di attenzione per accorgersi che questa è solo la superficie del gioco, mentre ciò che le sta sotto non ha più molto di basso. Anche questa superficie è partecipe comunque del gioco, e continua a invitarci a non prendere troppo sul serio nemmeno la profondità.

Mi trovo a domandarmi come mai nelle avanguardie questa medesima leggerezza sia così difficile da incontrare. Il mio sospetto è che la leggerezza ironica presupponga una sorta di dolce scetticismo di fondo che mal si accorda con la propositività avanguardistica. L’ironia delle avanguardie è distruttiva (nei confronti del nemico), oppure è essa stessa programmatica, quindi non leggera. Oppure forse, più banalmente e generalmente, la leggerezza svanisce sempre da un testo quando si pretende di interpretarlo troppo a fondo, magari anche solo per dargli valore, per consegnarlo alla Storia, per renderlo influente. Sarebbe colpa della critica, insomma.

Sarà davvero così? Nel caso, per favore, almeno per stavolta, lasciatemi divertire!

 

 Natale

 

È vero che hai smesso di studiare?
Come stai a Barcellona?
Come stai a Milano?
È vero? hai ripreso a studiare?

Com’è la tua nuova casa?
Tutto all’IKEA! Proprio brava.
Assecondi ancora tuo padre?
Da tanto hai rinunciato a capirlo.
Discuti ancora con tua madre?
Credi ancora che dovrebbe capire.
Tu preferisci il panettone con le gocce di cioccolato
e lasci i canditi sul bordo del piatto.
Giochi a spararvi con il cuginetto?
Siete l’esercito dei baci.

Va sempre bene il tuo lavoro di architetto?
Sei troppo magra.
Sei troppo grassa.
Avevi le mani più belle.
Le tue dita non erano nodose.
Perché non volevi che facessero l’albero?

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di Daniele Barbieri

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