Valvointerviste 1988. 2: Daniele Brolli

Daniele Brolli 1988

Daniele Brolli 1988

Sono stato per anni un lettore accanito di fumetti. Rispetto a letture d’altro tipo non ho una formazione classica, se non in senso scolastico. Ci sono stati i libri di Salgari, i romanzi di fantascienza, i romanzi gialli, la letteratura di genere e i fumetti. Poi, da un certo periodo in avanti sono comparsi vari interessi per la letteratura d’autore, che mi hanno spinto a scrivere in un certo modo, e mentre prima quello che facevo era solo una riscrittura, la bottega, il senso dell’imitazione, la copia e l’apprendistato, da quel momento in poi è diventato davvero un’invenzione.

Comunque, ritornando ai fumetti, sono stato di preferenza un accanito lettore di Topolino, fino all’abbandono. Già all’inizio, inconsciamente – non per conoscenza vera e propria – tendevo a leggere solo la produzione americana, piuttosto che quella italiana. E poi leggevo tutti i supereroi, non uno escluso, con sogni di superomismo.

Detestavo Linus; e le strip, le ho sempre detestate. Questo accadeva fin verso i sedici anni. Leggevo con molta diffidenza queste cose; però poteva capitarmi di leggere Eureka, o Il Mago, in particolare Roy Crane e Jacovitti. E infatti è tramite Il Mago che ho incominciato a leggere il fumetto d’autore, intendendolo davvero come fumetto d’autore.

Ho incominciato a disegnare a sedici anni, mentre avevo incominciato a scrivere a nove. Ed è stato in quel periodo che ho capito che i fumetti si potevano fare. La radice di tutto stava nella mia passione per il cinema: per esempio la scrittura era per me come una cosa già fatta, che io provavo a fare senza capire bene com’era fatta, e tutto era troppo oscuro per me; invece nel cinema rintracciavo subito il momento, per esempio, di uno stacco nel montaggio. Una volta che avevo scoperto che il cinema non mostrava le cose così com’erano allora in quel momento, vedevo tutto, mentre con la scrittura, anche se capivo, mi era molto più difficile farlo. Il fumetto rappresentava quindi in quel momento una certa possibilità di avvicinarmi a quello che vedevo fatto nel cinema – a quella caratteristica di montaggio, di creazione di mondo. Scoprivo che disegnando potevo riuscire a ricostruire quell’effetto.

E poi, sia per quanto riguarda il disegno che per la scrittura, era una questione di piacere personale. A nove anni scrivevo romanzetti illustrandoli – il che ancora non aveva niente a che fare col disegno vero e proprio del fumetto. E fornivo da leggere le mie cose a tutti i miei compagni di classe… C’era quindi anche questo stimolo della curiosità degli altri che leggevano le mie cose. Una volta che fai una cosa del genere poi – è un meccanismo infantile – ti imitano tutti; e cominciavano a girare un sacco di cose.

Questo è stato il modo in cui mi sono avvicinato al fumetto. Sono sempre stato comunque un fruitore smodato di tutte le cose che mi piacciono, per cui ne ho lette tantissime. Ho già citato qualcosa, ma c’è anche Raymond, c’è Mandrake; ci sono poco i supereroi della DC: mi piacevano meno. Quelli della Marvel li leggevo tutti. Superman non lo sopportavo: lo leggevo perché il mio consumo di fumetti era proprio smodato, ma non lo sopportavo, insieme all’Uomo Atomo, a Flash.

 

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In molti miei fumetti ci sono quasi due narrazioni diverse che corrono parallele, una verbale e una visiva, che si contrappongono, e sono pochi quelli in cui la parola è dentro l’immagine, nel senso in cui è normalmente dentro l’immagine nei fumetti, cioè come balloon. Di solito tra le due c’è un rapporto di complementarità e giustapposizione. È così perché spesso trovo insufficiente lo spazio. E allora è questo il metodo per creare una terza via di narrazione. Da una parte ho le immagini che procedono; ma voglio anche poter dire tutto quello che in queste immagini non c’è. Voglio cioè provocare la sensazione come in una fotografia, o come in un’inquadratura: l’inquadratura cinematografica simula il fatto che attorno non ci sia nulla, mentre la fotografia è arrivata a un punto – probabilmente è un fatto storico, di evoluzione dell’arte – in cui tutti sanno che quell’immagine sta per tutto quello che c’è attorno, che non c’è nell’immagine. Ecco, io volevo riunire tutte e due le cose nel fumetto, la parte della narrazione, per cui quella storia ha un rapporto diretto con te perché è tutto quello che c’è da vedere in quel mondo lì – e questo la rende plausibile, perché tutto quello che devi vedere è lì – e l’altra parte dove allo stesso tempo voglio dare la sensazione che c’è tanto altro che tu non stai vedendo, che è altrettanto plausibile, ed è forse importante quasi allo stesso modo per la storia, ma è anche emblematico; e allora questo non lo ottieni costruendo una narrazione troppo realistica, come è quella del balloon, ma attraverso una narrazione più straniante, portando fuori le parole. E allo stesso modo con le parole puoi suggerire tutto quello che non c’è, puoi suggerire qualcosa che banalmente diventa atmosfera, ma è anche un intreccio di situazioni, significati.

Puoi costruire un intero mondo semplicemente creando la sensazione dello spazio vuoto, che non c’è. Per esempio, se tu costruisci troppo realisticamente la sequenza del fumetto, perdi gli spazi bianchi tra le inquadrature, tra disegno e disegno. Invece la maggior parte della storia sta lì dentro, nello spazio bianco; perché se si concepisce la realtà come un arco di punti, per esempio centomila, un romanzo ne può prendere… cinquantamila, poniamo, un film può prenderne diecimila, ma in un fumetto hai una sintesi incredibile, e tutta la storia sta allora in quelle parti bianche che dividono le vignette. Sono quelle che devi potenziare, perchè la capacità di costruire la storia sta proprio lì. E devi costruire un mondo, devi costruire la sensazione che sia qualcosa di articolato, non qualcosa come quello che accade nella produzione di serie. La produzione di serie funziona cancellando quel tipo di cose, appiattendo; invece tu le devi amplificare, ed è con questo che procuri una sensazione più profonda, più duratura.

 

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Mi piacerebbe avere una libreria di cose fatte da me tutte nei diversi generi. Per esempio quando ho fatto Alan Hassad volevo fare il melò rosa, e poi l’horror un po’ grottesco con Mortimer Caidin, poi la storia hollywoodiana che sarà Mucho Mas con Fara, e la storia col pupazzo che era Chez Mixioll disegnata da me direttamente. Mi piacerebbe avere un libro di ogni genere, avere fatto un passo dentro ognuna di queste strade, insomma, piuttosto che averne percorsa una fino in fondo. Se ne devo percorrere una fino in fondo è quella che riguarda me e basta. Mi piacerebbe essere una mayor insomma, mi piacerebbe avere una intera casa di produzione hollywoodiana. Mi piace Spielberg per questo, non tanto perché mi piacciano i suoi film, ma perchè mi piace quest’idea di disperdersi… Più sincronica che diacronica. In realtà si esiste in senso diacronico, ci si sviluppa; il tempo si addensa, e questo mi piace. Ma è qualcosa che è già in me, non ho bisogno di sforzarmi. Invece mi piace questa idea di sincronicità del mondo, questo allargarsi, piuttosto che alzarsi.

 

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Una delle scoperte brutte della mia infanzia è stato il fatto che il mio rapporto con gli oggetti si trasformava. A un certo punto è stato evidente quale era la loro dimensione. Io non passavo più sotto i tavoli, non avevo più lo stesso rapporto. Si ha un rapporto diverso con lo spazio, con lo spazio della casa.

C’era un’altra cosa, che era, per esempio, addormentarsi sui braccioli delle poltrone, oppure i cuscini sotto il sedere per arrivare al piano del tavolino…

Per quanto mi riguarda, c’è stata una trasformazione improvvisa dal sentire le cose fatte così, fatte per essere grandi, per avere un rapporto benigno, materno, con me, alla dimensione invece del tutto estranea, quella che si lascia dominare – ma che non mi piaceva e non so ancora se mi piace – degli oggetti che son fatti per essere impugnati, per essere usati. Questo è il presente; adesso quelli sono diventati oggetti: io mi sento uguale dentro, come se il tempo non passasse, mentre invece il mio corpo si modifica. E allora mi piace nei fumetti costruire gli oggetti come se fossero delle presenze. Se è umano tutto questo allora sono umane anche loro, e questo mi piace. E poi esiste anche una cultura della fantascienza, in cui l’oggetto si anima davvero, vive: è tutta la fantascienza del periodo d’oro, per esempio, con l’esperienza della possibilità di rendere gli oggetti qualcosa di più che oggetti. Come coi robot, per esempio: per me non c’è differenza tra la poltrona e il robot, o le case che parlano.

I miei interni sono interni che ricordano, perché gli oggetti hanno memoria. Questa è una cosa che mi costringo a dire ma preferirei non dirla; tra poco me ne sarò dimenticato.
A me piacciono le cose già usate, ma che sono ancora nuove. Io leggo i libri tenendoli quasi chiusi, per non rovinarli. E la notizia che vanno in polvere mi ha distrutto. Penso che farò tanti pacchi di plastica, perché questa è una cosa insopportabile. Ma non sopporterei che i libri fossero freddi, che fossero delle cose fuori da  me; devono cioè avere questo aspetto usato, ma nuovo. E allora mi corrispondono, altrimenti no. Sarebbero cose che non avrebbero nessun rapporto con quello che faccio io. I libri sono dei parenti, insomma.

Non immagino una produzione di serie dei miei oggetti. Mi fa orrore. Li faccio solo perché so che non verranno mai realizzati, perché se no ci si espone troppo.

 

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Sì, potrei riconoscere nell’idea di memoria il punto centrale della mia poetica, ma una memoria che è anche futura. Per me la vera memoria è quella che determina il presente. È quel tempo che ricorda il passato e anticipa di un attimo il futuro, in cui c’è tutto. Io ho un’adesione completa a una teoria “scemo-filosofica” di Vonnegut, a cui io credo lui creda seriamente quanto credo io; che è quella dell’universo, del tempo, non come qualcosa che va, che passa, ma come di una lunga pellicola, in cui tutti i fotogrammi sono segnati per sempre. Un pellicola che non ha inizio e non ha termine, ma in cui ogni fotogramma è identificabile, in maniera precisa; e non è qualcosa che viene distrutto, che va in polvere, ma è qualcosa che ha ancora il suo momento; è ancora lì, e noi siamo ancora qui, in questa pellicola. Ci sono poi tanti altri momenti che vengono dopo e tanti altri momenti che vengono prima. E c’è qualcuno, qualcosa, qualche meccanismo che la fa girare, per cui gira. Quello che è passato rimane indietro, ma sai com’è, se uno lavora alla moviola poi… Può anche fare l’avanzamento veloce… Sì, sì, è la memoria il centro, in questo senso, l’essere il punto di riferimento di tanti altri punti di riferimento che esistono, sia al passato che al futuro. Esiste solo il presente in questa teoria, un presente totale.

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

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Questo è l’estratto dell’intervista a Daniele Brolli contenuto nel volume Valvoforme valvocolori. Era il 1988. Le interviste agli altri autori di Valvoline seguiranno nei prossimi giorni. Qui un’introduzione a Valvoline.

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Di cosa fu Valvoline

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

Si è appena chiuso il Comicon di Napoli, con la sezione dedicata ai trent’anni dal supplemento Valvoline su Alter Alter. Cosa è stato Valvoline? Per me certamente qualcosa di importante, visto che mi ha spinto a pubblicare il primo libro della mia vita (copertina qui a fianco).

Ma per me la storia era incominciata già prima del 1983. Non ero rimasto particolarmente impressionato dalle prime prove di Mattotti (“Alé trantran”, “Incidenti”), pur apprezzandole. E anche “Minus” di Jori aveva indubbiamente qualcosa di apprezzabile, senza però appassionarmi… Meglio il Carpinteri che già appariva su Frigidaire. Nel 1982 passai i primi sei mesi dell’anno all’estero. Per non correre il rischio di perdermi qualcosa, mi ero abbonato sia a Linus che ad Alter Alter. Quando tornai, a fine giugno, mi lessi tutti di seguito sei numeri e feci due scoperte cruciali.

Si trattava di “Goodbye Baobab”, di Igort e Daniele Brolli, e di “Il signor Spartaco” di Lorenzo Mattotti. Anche se il mio destino successivo di lettore e critico sarebbe stato legato più a Mattotti che a Igort e Brolli, in quel momento era soprattutto “Goodbye Baobab” ad appassionarmi, quella storia di carne, di ossessione e di morte, narrata lentamente, e soprattutto così diversa dalle cose magnifiche, ma gridate e provocatorie a cui ci aveva abituato Frigidaire, con Pazienza e amici. A me, della storia di Brolli e Igort piacevano soprattutto le pause, i silenzi – silenzi che erano già presenti pure in “Spartaco”, ma non con altrettanta intensità (per Mattotti, bisognerà aspettare “Fuochi”, nel 1984, per trovare dei silenzi ancora migliori).

Il supplemento Valvoline fu il risultato di una sorta di scommessa fatta dalla direttrice di Linus e Alter, Fulvia Serra, con il gruppo degli autori: una sezione della rivista (praticamente la metà delle pagine) interamente gestita da loro. Igort, Brolli, Giorgio Carpinteri, Marcello Jori, Mattotti e Jerry Kramsky. La scommessa fu stravinta dal punto di vista artistico, ma persa da quello commerciale: Alter può vantare il 1983 come il suo anno d’oro, qualitativamente, però commercialmente era già iniziata per il fumetto in Italia l’onda del riflusso, e la difficoltà e l’eccessiva novità di questi nuovi autori accelerarono per Alter la tendenza all’abbandono.

In che cosa consisteva la novità di Valvoline in quegli anni? Bisogna precisare, prima di tutto, che la novità di questi autori non era un caso isolato nel deserto. Nel calderone effervescente del nuovo fumetto italiano, tutto proteso al rinnovamento e alla maturità del fumetto come forma artistica, si distingueva una corrente più politicizzata e movimentista, di cui Frigidaire era la rivista di bandiera, e Pazienza, Scòzzari, Tamburini e Mattioli tra i principali rappresentanti; a fianco di questa, non del tutto distinguibile, e non di rado implicata nelle stesse operazioni, c’era un’altra corrente più espressiva e artistica. Di questa seconda corrente, Valvoline rappresentava, se vogliamo, il momento di punta, la componente di avanguardia organizzata.

Ecco, con il senno di poi (perché all’epoca la mia adesione ideologica era totale), mi verrebbe da dire oggi che gli autori di Valvoline hanno fatto le cose giuste per le ragioni sbagliate. Se davvero lo dicessi starei però esagerando, perché la poliedricità e l’attenzione a diversi linguaggi mediatici che caratterizzavano quegli autori non aveva nulla di sbagliato. Quello che, col senno di poi, mi disturba oggi, è un po’ l’imitazione dei comportamenti dei gruppi e dell’avanguardie pittoriche che caratterizzò Valvoline proprio nel suo essere un gruppo; un’avvicinamento al mondo dell’arte visiva che valse indubbiamente a Valvoline (e dintorni) uno spazio nella grande mostra di Renato Barilli Anni Ottanta, ma che aveva ugualmente un che di artificioso, un che di adeguamento agli stili dominanti…

Comunque, la mossa politicamente riuscì, e alla fin fine si rivelò davvero più una mossa politica che di sostanza. A rileggerle oggi, quelle storie del supplemento Valvoline sono tutte bellissime storie a fumetti, persino quella del più “artista” del gruppo, Marcello Jori, da far rimpiangere che lui, come pure Carpinteri, dopo qualche anno abbiano abbandonato del tutto il campo del fumetto. L’accusa di estetismo, che aleggiava su Valvoline in quegli anni, alla resa dei conti si rivela infondata, basata più sull’apparenza che sui risultati. A rileggere oggi quelle storie, ci si accorge benissimo che quella grafica che appariva allora così sconvolgentemente innovativa, era però perfettamente adeguata alle storie che raccontava. E c’era forse sì un accenno di spocchia artistoide in alcuni degli autori, ma poi le loro opere non erano affatto degli scimmiottamenti a fumetti delle arti visive; al contrario, erano il lavoro di autori di fumetti appassionati a quello che stavano facendo, che però conoscevano anche l’arte, e ne sfruttavano le forme e le potenzialità espressive.

Solo se si capisce questo, si capisce anche perché, nell’anno da lui trascorso in Italia, Charles Burns non abbia avuto problemi ad essere cooptato dal gruppo, diventandone un componente effettivo. Il suo atteggiamento nei confronti delle arti visive, in fin dei conti, non è molto diverso da quello, per esempio, di Igort; è solo che, essendo americano, le sue arti visive di riferimento sono un po’ differenti…

Come andò che realizzai quel libro? Fu Igort a propormelo, dopo due anni che esisteva già un progetto di un libro sul gruppo, che però ristagnava, e l’autore non dava segni di vita. Andai dall’editore, e feci la mia proposta. Seguirono non so quanti incontri con gli autori, per le interviste e la selezione delle immagini. Il libro uscì nel 1990, quando ormai il gruppo esisteva solo nominalmente.

La mia introduzione al volume può essere scaricata da qui.

Qui invece c’è una pagina di Facebook dedicata ad allora (dietro alla quale sospetto si nasconda Igort).

Un’ultima cosa. Nel 1983 Marcello Jori aveva 32 anni, Jerry Kramsky 30, Lorenzo Mattotti  29, Igort e Giorgio Carpinteri 25, Daniele Brolli 24, Valvoline (di fatto) 3.

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Recensioni d’annata, 1994. L’erotismo preso in giro a fumetti

L’erotismo preso in giro a fumetti
Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 1994

È tanto facile produrre della pornografia, anche a fumetti, quanto è difficile realizzare dei testi che abbiano come oggetto e argomento il sesso e siano pure piacevoli e interessanti da leggere. Realizzare dei buoni fumetti non è mai una cosa facile, come non è facile scrivere dei buoni romanzi o girare dei bei film – ma quando l’argomento è esplicitamente e dichiaratamente erotico sembra che le difficoltà diventino mille volte maggiori.

Il fatto è che al livello più basso è così facile interessare con il sesso, che l’argomento è inevitabilmente inflazionato. Tutte le strade sembrano già sperimentate, tutte le invenzioni già inventate: la maggior parte delle storie che si autodefiniscono “erotiche”, cercando così vanamente di contrapporsi a quelle semplicemente “pornografiche”, finiscono per attingere al medesimo repertorio di situazioni, o, per meglio dire, di posizioni. Alla fine, quasi tutte mantengono molto meno di quello che promettono.

Trans/est, di Daniele Brolli e Roberto Baldazzini, ci propone una soluzione intellettuale al problema. Poiché dal repertorio non è possibile uscire, diamo un nuovo senso al repertorio, portandolo alle conseguenze più estreme. La scena è un mondo ipotetico, che associa tecnologie del futuro a stili e modelli di vita degli anni trenta; con due, fondamentali, differenze. La prima è che il mondo assomiglia assai a quello dell’orwelliano 1984, con due potenze, Lusitania ed Estlandia, che si dividono il mondo, con modelli di società polizieschi pressoché uguali. La seconda è che il sesso, compresi e anzi dominanti i suoi aspetti più devianti e masochistici, è una merce di scambio e di contatto cui non corrisponde il minimo senso di cattolica colpa.

La storia inizia con un interno di famiglia in Lusitania, che descrive una casa borghese con tanto di papà, mamma, figlia e il relativo fidanzato che la viene a trovare portandole un regalo. Nulla di più normale e di più perbenista. Senonché, con la medesima aria di normalità, la storia continua a raccontare del lavoro della figlia, agente del controspionaggio, che con la massima tranquillità “tortura” una spia straniera – una tortura che non è in realtà che un gioco erotico un poco spinto. Marta, la protagonista, si guadagnerà poi una promozione e sarà spedita in Estlandia, a fare a sua volta la spia.

Le situazioni che si presentano nella storia, se le si vuole guardare da un profilo più basso, sono tutte quelle canoniche dell’eros di consumo. Ma il segno freddo di Baldazzini conferisce loro una tale aria di distacco, e i contesti in cui si verificano sono così fuori dal normale, così assurdi e paradossali, che gli oggetti del catalogo consueto del sesso finiscono per essere insieme quello che sono sempre e quello che non si vorrebbe fossero mai. Erotismo e meccanismo, eccitamento dei sensi e pura ginnastica – quasi più mentale che corporea.

Così esasperato e normalizzato, il sesso perde al tempo stesso magia e volgarità; e insieme continua anche a non perderle. Trans/est è evidentemente una parodia dell’erotismo. Ma l’erotismo è quella cosa di cui anche le parodie possono finire per essere erotiche; e poiché questo testo è perfettamente consapevole dell’impossibilità di una via d’uscita, si mantiene sulla soglia, giocando costantemente sul doppio e multiplo filo ora dell’esibizionistico e ora del grottesco.

Si tratta di un gioco testuale pericoloso, perché cadere nella banalità dell’erotismo, compresa quella delle sue parodie, è fin troppo facile. Quello che permette a Trans/est di mantenersi agilmente sul filo sono l’oggettivismo da cartoon del segno grafico di Baldazzini, realistico e al tempo stesso straniante, e il senso di cupa oppressione, vissuta tuttavia da chi è ben integrato e dunque felice, che comunica la sceneggiatura di Brolli. Contraddizioni nelle contraddizioni.

Come sempre, poiché l’argomento è il sesso, quest’opera troverà dei censori. D’altra parte, una serie di provocazioni sembrano rivolte proprio a loro.

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di Daniele Barbieri

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