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Di John Coltrane, del significato e dell’ascolto

Ho partecipato, negli ultimi anni, a diversi convegni dove si è parlato del tema del significato della musica, ho scritto articoli e curato libri dove se ne parla. Continuo a pensare che il tema sia importante e che la musica possa avere un significato nel senso in cui ce l’hanno altre forme espressive. Mi ritrovo però progressivamente più scettico sul fatto che alla musica si debba comunque trovare un significato.

Naturalmente, un brano musicale può avere un significato perché, molto banalmente, qualsiasi cosa prodotta dall’uomo lo può avere. Come detta un vecchio e sempre valido adagio di un grande guru della comunicazione (Paul Watzlawick), non possiamo non comunicare. Questo vuol dire che anche in un brano di musica possiamo trovare intenzioni comunicative, ed è pure giusto attivarci per farlo.

Tuttavia, la mia impressione è che non sia questo il modo corrente in cui noi ascoltiamo musica, o perlomeno che il nostro modo di ascoltare musica non si esaurisca affatto in questo. Anche se la musica colta occidentale si è evoluta negli ultimi secoli in modo da costituire una forma di discorso (richiedendo dunque una ricezione che mette in gioco questioni di significato), la musica che l’ha preceduta, e quella di altre culture che si è evoluta indipendentemente dalla nostra, non ha necessariamente seguito la medesima strada. Inoltre, anche nella musica colta occidentale restano in gioco una quantità di componenti che non chiamano in gioco necessariamente la dimensione del significato.

Intendere la musica come portatrice di significato rappresenta indubbiamente un grande vantaggio per la critica, la quale, esprimendosi attraverso parole, vive per sua natura nella dimensione del significato. Valutare la musica nei termini di quello che “ci vuol dire”, e valorizzarla in relazione ai valori che essa trasmetterebbe, è una mossa che permette alla critica di svilupparsi al meglio, riducendo l’ascolto musicale alla percezione di quei valori e del modo in cui verrebbero trasmessi. D’altra parte, una musica che debba convivere con una critica di questo tipo trarrà vantaggio dall’apparire maggiormente discorsiva, maggiormente propensa a trasmettere valori.

Devo puntualizzare che sto parlando di musica pura, strumentale. Se c’è di mezzo la parola, o una dimensione scenica, l’universo del significato è già legittimamente entrato in gioco in altro modo, e l’invito a leggere la musica in questa medesima dimensione è naturalmente molto più forte e giustificato. Pure qui, va detto, la questione non si esaurirebbe con questo – ma non ne voglio parlare in questa sede.

Per entrare più nello specifico della questione, sulla musica pura, un aspetto che, a mio parere, per esempio, caratterizza il jazz, è quello di aver coniugato la tradizione occidentale colta della musica-come-discorso con altre componenti di origine popolare ed etnica, che si sono evolute al di fuori di questo ambito. Quando ascolto John Coltrane, la qualità del suo fraseggiare, delle sue invenzioni melodiche e del modo in cui porta avanti le proprie sequenze di note sono tutti elementi di carattere “discorsivo” che indubbiamente fanno parte del piacere che la sua musica mi procura. Il suo modo di passare da dimensioni liriche a dimensioni rabbiose, trasognate, appassionate, frenetiche, distese e così via, fa parte di quello che Coltrane mi trasmette, e non c’è dubbio che io ami la sua musica anche per quello.

Ma tutto questo non mi spiega come mai io possa restare attaccato alla voce del suo sax anche dopo aver sentito per caso due sole note, e ancora prima che qualcosa mi si illumini in testa, quasi esclamando “Coltrane!” – perché quel qualcosa che mi si illumina è l’effetto e non la causa del piacere improvviso.

Certo, persino quelle due note di sax afferrate per caso possono essere interpretate come portatrici di significato. Ci sono belle pagine di Davide Sparti (Il corpo sonoro, 2007) sulla capacità di Coltrane di ricreare l’emotività della voce umana attraverso il semplice modo di emettere il suono attraverso l’ancia nel tubo del sax. Seguendo questa intuizione, pure quelle due note sarebbero portatrici di significato. Dovremmo allora dire che l’intonazione di Coltrane rimanda a quella della voce, e ai significati che le associamo normalmente? Forse sì.

Eppure, quando si dice che io assomiglio a mio fratello non si vuol dire che io ho senso in quanto assomiglio a lui, e rimando semanticamente a lui e di conseguenza ai suoi significati. Se io assomiglio a mio fratello non sono un segno di lui più di quanto lui non sia un segno di me. Allo stesso modo, le due note di Coltrane non rimandano alla voce umana più di quanto essa non rimandi a loro. Dovremmo allora dire che sia le note che la voce portano senso allo stesso modo, in maniera parallela, e che la somiglianza è un semplice suggerimento di trovare nelle note quello che troviamo nella voce.

Ma se dal modo di intonare le note passiamo alla melodia, dove finisce la somiglianza? A un’altra melodia, che ripropone il medesimo problema un po’ più in là? O magari all’andamento del mio corpo, come tende a fare una certa musicologia recente? Tuttavia, se metto in gioco l’andamento del corpo, devo davvero continuare a parlare di rimando semiotico, o non sarà piuttosto altro, quello che è in gioco? Prima di rimandare all’andamento del mio corpo, la mia sensazione è che la musica di Coltrane lo produca, lo provochi. Prima di un meccanismo di rimando segnico sembra entrare in gioco un meccanismo di sintonizzazione, di compartecipazione, di “fare insieme la stessa cosa”. Persino nell’effetto delle due note e della voce, di cui parlavamo sopra, potrebbe giocare allora questa stessa sintonizzazione, il porsi nel medesimo mood.

Certo, c’è comunque di mezzo il riconoscimento: se non riconosco qualcosa come note o voce, o come melodia, non avverrà nessuna sintonizzazione. E se lo riconosco, l’ho già riconosciuto come qualcosa, e l’ho già fatto rientrare in un universo di senso. La mia sensazione è però che la dimensione del significato a cui la musica non può non essere ricondotta si esaurisca qui (mentre quella a cui può essere ricondotta non si esaurisce né qui né mai). In altre parole, la prima funzione del mio godimento nei confronti della musica di Coltrane (e di tanta altra musica di cui godo, ovviamente) starebbe nella sintonizzazione che essa produce in me, e nel percorso su cui, attraverso questa sintonizzazione, io vengo condotto. Se rifletto su questo percorso, poi, la dimensione del significato può incominciare a dispiegarsi, e da questo momento senza fine. Ma se io non sono un critico musicale, quanto ho bisogno di riflettere sul percorso? Lo vivo, piuttosto, e basta. Mi lascio percorrere, piuttosto, e basta. Approfitto di questa occasione per vivere, attraverso questo percorso, delle esperienze altrimenti ben più pericolose. Nel percorso posso trovare, certamente, degli effetti di senso – ma io ci sono già dentro, nel percorso, ancora prima di trovarli.

Non è il ritmo, non è il timbro o la melodia a produrre questi effetti, non sono quelle componenti della musica che la critica tradizionale definisce “sensuali” – anche se certamente ritmo, timbro e melodia giocano la loro parte. Ho parlato di Coltrane perché la sua musica, il suo jazz, riesce a essere insieme trascinante e intellettuale. Certo, nella musica di Pierre Boulez la componente intellettuale, discorsiva, ha un ruolo di base più importante, ma proprio perché è musica, e non prosa critica, pure con i pezzi di Boulez, quando li si sa ascoltare, si può essere travolti, trascinati, ci si può ritrovare immersi.

Senza immersione, e sintonizzazione, non c’è godimento estetico, né in musica né altrove. Immersione e sintonizzazione sono due tipi di azione. La comprensione è spesso di grande importanza per l’azione, ma è una cosa diversa, che non può essere confusa con lei. Confondere l’agire con il comprendere ci porta a confondere la fruizione con la critica.

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4 comments to Di John Coltrane, del significato e dell’ascolto

  • alla tua suggestiva riflessione mi permetto di aggiungerne un paio di mie. che la musica mi riguarda da vicino.

    quando scrivi
    “Ma tutto questo non mi spiega come mai io possa restare attaccato alla voce del suo sax anche dopo aver sentito per caso due sole note, e ancora prima che qualcosa mi si illumini in testa, quasi esclamando “Coltrane!” – perché quel qualcosa che mi si illumina è l’effetto e non la causa del piacere improvviso.”

    dimentichi un aspetto fondamentale della musica (e del suono), ovvero la vibrazione sonora. un fatto fisico, invisibile ma concreto, che caratterizza tutti gli ascolti. il nostro corpo, e la memoria del nostro corpo, sono totalmente coinvolti nell’ascolto della musica. il suono ci attraversa, percorre e ci fa fisicamente convibrare (per simpatia, si dice). questo viene prima ancora della decodifica auditiva, e prima ancora di qualunque analisi. e rimanda a una memoria che è preverbale, intrauterina, pre-concettuale. il sax di coltrane, le sue note, appoggiate come sono al resto dei suoni che ha sviluppato con incredibili musicisti, avvolge il corpo con un insieme unico di vibrazioni. poi il resto..

    seconda annotazione. non mi convince la tua “etichetta” di musica pura. soprattutto, non con coltrane. la fisicità del jazz, e dei riti sonori di coltrane (soprattutto l’ultimo, ovviamente) presuppongono una presenza scenica che non si può cancellare dalla mente dell’ascoltatore. neppure a chi, come me, ha conosciuto la musica di coltrane da morto. c’è un pre-testo che arriva da quella che è la nostra conoscenza del jazz degli anni ’50-’60, dalla fisicità di coltrane, dalla ritualità delle sue esibizioni e delle sue ultime registrazioni (ascension) …? credo di si.
    saluti

    harry

    • Caro Harry,
      grazie per la puntualizzazione; ma non dimentico affatto la vibrazione sonora, che è parte di ciò di cui stavo parlando. E sono d’accordo: il suono ci attraversa, percorre e ci fa vibrare per simpatia. Ma se dovessimo limitarci a questo, il suono del sax di Coltrane farebbe lo stesso effetto di quello di chiunque altro, con il quale comunque ugualmente vibriamo – e magari lo stesso di qualsiasi altro suono, visto che qualunque suono ci fa vibrare. Io credo che ci sia di più, e ancora senza entrare nella dimensione del significato (perché poi c’è anche tutta la sfera del significato, che non è secondaria, ma è quella di cui NON sto parlando qui). Non so se la memoria che ci produce questo effetto sia pre-verbale, certo è extra-verbale; ma io credo che lo sia perché non è di carattere cognitivo, ma di carattere pratico, fattivo, attivo. È un tipo di memoria come quella che abbiamo del come si fa a camminare (spiegarlo è impossibile o quasi, mentre farlo è banale). Nella musica questa memoria si attiva: ancora prima di ascoltare, partecipiamo. Naturalmente anche la vibrazione fisica fa la sua parte, e non è trascurabile. Ma da sola non basta a fare la differenza.
      Quanto alla fisicità del jazz, nelle performance dal vivo naturalmente c’è, ed è una componente importante dello spettacolo (e anche degli effettti di senso della musica, come ho detto nel post). Ma io (come te) non ho mai visto Coltrane suonare, e la sua fisicità, se vogliamo, mi arriva soprattutto attraverso il suono. Eppure anche qui credo che una certa parte dell’effetto (quella di cui sto parlando qui) stia più nel provocare una mia fisicità che non nell’evocare la sua.
      Poi naturalmente c’è l’evocazione, il discorso, e un sacco di aspetti che riguardano (in maniera complessa) già la sfera del significato; e sono tutti importanti. Ma a me preme osservare che c’è qualcosa che sta a monte di loro, e che già a monte mi permette di vibrare con Coltrane (ma anche con Boulez, per quanto strano appaia), e non con tanti altri.
      Ciao
      db

  • Chiarissimo.
    Mi viene in mente la distinzione che fa krishnamurti tra azione e attività. la prima è una specifica condizione legata all’esperienza, senza condizionamenti, direbbe lui, la seconda è qualcosa di mediato.
    ma forse mi allontano.

    attenzione però, non è affatto vero che suoni diversi ci fanno vibrare nello stesso modo. i suoni che percepiamo sono il risultato di un’insieme unico e ricco di armonici, che determinano non solo il timbro proprio di ogni strumento, ma anche il timbro di una specifica “voce”. la nostra risonanza è quindi diversa in base a queste componenti. il nostro convibrare non è anonimo o impersonale, insomma. ma è chiaro che il tuo discorso è un altro.

    è chiaro che c’è una partecipazione alla musica che è intuitiva, ed è azione, nel nostro vivere nel corpo il movimento e nel profondo le emozioni che il suono produce. e in questo, coltrane o boulez o beethoven o berio… in questo potenziale hanno sviluppato la loro arte. c’è ancora un qualcosa di misterioso, no? di indecifrabile?

    harry

  • Bell’articolo e complimenti per il post. Vi segnaliamo i gabin da NotitiAE al link :
    http://notitiae.wordpress.com/2011/02/05/third-and-double-gabin-visioninmusica-2011-terni/

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