Ricordo di Guido Crepax. La sua matita disegnava il desiderio
Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2003
Guido Crepax è stato noto al grande pubblico italiano soprattutto come autore di fumetti fortemente e raffinatamente erotici, costruiti attorno ad alcune eroine, il nome di una delle quali è ormai universalmente associato al suo: Valentina. Ma solo i lettori appassionati di fumetti di valore sanno quanto importante sia stato il suo contributo al raggiungimento della maturità di quest’arte sottovalutata. Guido Crepax non è stato soltanto un narratore e disegnatore così bravo da permettere che venisse riconosciuta dignità culturale alle sue fantasie erotiche nell’Italia perbenista degli anni Sessanta e Settanta, ma anche uno che ha inventato un modo nuovo di raccontare a fumetti, sperimentando una quantità di tecniche espressive che sono in seguito entrate stabilmente nel linguaggio del fumetto d’autore.
La sua storia di fumettista è legata a doppio filo a quella della rivista Linus, che nasce nel 1965 con l’esplicito programma di far conoscere agli italiani il fumetto di qualità, e gli pubblica dopo pochi mesi la sua prima storia: “La curva di Lesmo”. È la prima volta di Crepax fumettista, ma è anche la prima volta che Linus dedica tanto spazio a un autore italiano. È una storia centrata su un personaggio dotato di un ultrapotere, una versione un po’ particolare delle storie dei supereroi che arrivavano dagli USA o degli eroi negativi che stavano impazzando in Italia. La differenza, rispetto a questi modelli un po’ ingenui, era tuttavia evidente appena si incominciasse a leggere, sia per il disegno, raffinato e del tutto alieno agli effetti dinamici mirabolanti, sia per il modo di raccontare, attento alla psicologia dei personaggi e alle loro relazioni umane – al punto che il superpotere di Neutron, il protagonista, era fin dall’inizio un aspetto marginale delle vicende, assai poco influente nella dinamica complessiva.
È all’interno di questa storia che fa la sua prima comparsa Valentina, destinata a innamorarsi di Philip Rembrandt, alias Neutron, e ben presto a sposarlo. E poi, negli anni successivi, storia dopo storia, destinata a diventare ben più importante di lui nell’economia dei racconti. Neutron perderà infatti progressivamente il suo potere, e finirà per scomparire anche fisicamente dalla vita di lei – mentre le storie di Valentina vireranno verso una costante contaminazione tra reale, memoria e immaginazione, in cui l’erotismo sarà, volta per volta, sempre più presente.
Siamo quindi debitori a Crepax di aver dato all’erotismo per immagini un aspetto difficilmente attaccabile dai censori, che nei medesimi anni in cui si iniziavano a dispiegare le morbose fantasie di Valentina avevano gioco facile (e spesso non del tutto immotivato) a condannare molte altre produzioni visive. Il gioco condotto da Crepax era troppo evidentemente consapevole e intellettuale, troppo pieno di riferimenti culturali e – possiamo aggiungere noi – troppo graficamente innovativo, per poter essere assimilato a quello povero e pacchiano dei prodotti pornografici, a fumetti o di ogni altro tipo.
Oggi non ci resta che salutare un maestro che se ne va, a settant’anni, dopo averci insegnato mille modi conturbanti di riconoscere e disegnare i nostri desideri più segreti, e mille nuovi modi di fermare il tempo sullo spazio della carta.
Guido Crepax, “L’uomo di Harlem”, 1979
Lasciamo perdere un attimo il discorso poesia/prosa nel fumetto, che può un po’ confondere le idee, e concentriamoci sul punto, cioè sulla centralità sì del racconto, ma non esclusività.
Questa doppia pagina de L’uomo di Harlem, di Guido Crepax (collana CEPIM, Un uomo un’avventura, 1979) racconta certamente in maniera efficace quello che vuole raccontare – e Crepax era estremamente inventivo ed efficace nel raccontare, specie in quegli anni lì – però voi la state vedendo così, probabilmente senza sapere che cosa vi stia raccontando. Magari se avete letto in passato il volume, ne avete un ricordo un po’ vago; non di più, comunque.
Certo, la sequenza qualcosa racconta anche di per sé. Una donna, in una stanza; una situazione con elementi erotici, poi lei piange, dorme, si riveste; c’è un parallelo accompagnamento musicale; non è chiaro del tutto se sia sola oppure no, se il riflesso nello specchio della prima vignetta sia reale o immaginario, e se sia reale o immaginata la mano a cui si avvicina la sua sulle lenzuola.
Ma sforziamoci di ignorare anche questo, e guardiamo la doppia pagina come una sequenza di figure, o una sequenza di forme. Il fumetto, visivamente, gode di una doppia lettura possibile: quella secondo il verso di scorrimento (sinistra destra, alto basso) e quella complessiva, generale.
Alla veduta complessiva, le forme rigide della gabbia grafica si contrappongono a quelle morbide della donna (corpo, volto, bocca, occhi, mani…); ci sono tre grandi strutture verticali continue, inframezzate da due colonne divise in molti elementi orizzontali. Già questa semplice ricorrenza ritmica mette in gioco lo scorrimento, che sarà, inevitabilmente per questo contesto, da sinistra a destra. Così, all’estrema sinistra, la curvatura dello specchio in alto sembra quasi il ricciolo di una parentesi aperta, e spinge avanti, a cercarne una chiusura.
Poco più a destra, la coppia di occhi in alto richiama la sequenza delle bocche subito sotto; la mano diventa subito due mani; e poi di nuovo la successiva sequenza delle bocche è richiamata dalla coppia di occhi in fondo. È una struttura visivamente simmetrica, nonostante le variazioni locali.
La vignetta con la mano singola si trova al centro, e corrisponde alla vignetta centrale della colonna senza colori sulla pagina di destra. E, ancora sulla pagina di destra, la testata metallica del letto viene mostrata senza la deformazione prospettica che chiederebbe; e in questo modo richiama a sua volta la struttura complessiva della gabbia grafica – come succede anche, in misura minore, alle linee orizzontali del letto e della cassettiera alle spalle della ragazza nell’ultima vignetta.
Tutti questi elementi troverebbero certamente un ruolo narrativo se prendessimo in considerazione la sequenza della storia (come si dovrebbe certamente fare in un’analisi del testo più completa): per esempio, anche la semplice ortogonalità della struttura grafica, che può sembrare ovvia (tutti i fumetti si fanno così), non è affatto ovvia in un testo come L’uomo di Harlem che inizia con delle vignette diagonali, e che ha di frequente anche pagine dalla gabbia molto poco regolare. Qui certo, la regolarità della gabbia corrisponde a una fase narrativa di quiete.
Tuttavia, io credo, non c’è solo questo. Quella coppia di bocche che si apre come a voler parlare, corrisponde alla coppia di occhi, che parlano attraverso le lacrime. Le rime visive, come questa, definiscono la struttura complessiva della pagina, che si fa guardare, chiede di essere guardata, suggerisce una ricorrenza di punti importanti, ancora prima che si capisca il perché narrativamente lo sono. Il bel sedere della ragazza sdraiata corrisponde al bel sedere della donna nello specchio, ed è, nella pagina, all’altezza della vignetta con la mano, e di quella in cui finalmente si vede la bocca del sassofonista, e quindi si decifra la situazione; così come alla stessa altezza è il gesto dell’allacciarsi le giarrettiere, focus erotico dell’ultima vignetta.
Queste corrispondenze ci sono, anche quando non raccontano nulla, di per sé. Il racconto è importante, nel testo a fumetti, ma il testo non si esaurisce nel racconto. Questo tipo di sensualità, per esempio, lavora (anche) al di fuori del racconto e non sarebbe riproducibile con mezzi diversi dal disegno – non per sole parole, non fotograficamente. Sarebbe in quei casi, eventualmente, un’altra e diversa sensualità.
Il ritmo costruito dal ripetersi delle forme, nelle immagini, agisce a monte del racconto; lo percepiamo anche se non capiamo la storia; è un ritmo della sequenza, non del racconto; al più, è un ritmo del raccontare, non del raccontato.
Per tornare all’opposizione poesia/prosa che stiamo provando ad applicare, un po’ forzosamente, al fumetto in questi giorni, il testo di Crepax sta presumibilmente assai di più dal lato della prosa. Ma questo non gli impedisce di possedere a sua volta aspetti formali che costruiscono senso anche di per sé, autonomamente dal racconto. In un fumetto molto “poetico” ce ne sarebbero di più, presumibilmente. Ma il fumetto è per sua natura diviso in unità regolari (come i versi della poesia) che sono le vignette e le pagine. È abbastanza naturale che possano diventare elemento espressivo.
Guido Crepax, Emmanuelle, 1978
Lo confesso: ho sempre considerato Crepax un disegnatore da moda e pubblicità, troppo milanese (in questo senso) per essere davvero bravo a lavorare a fumetti. Poi, certo, era un ottimo narratore, e, soprattutto, le sue invenzioni di taglio delle inquadrature e delle vignette, e le sue invenzioni di montaggio, sono state davvero importanti. Nel complesso, quindi, mi piaceva, e a volte anche moltissimo – almeno sino a quando non ha incominciato a imitare se stesso, e a buttarla tutta sull’estetismo e sull’eros; e lì io l’ho lasciato perdere.
Ingrandendo questa comunque bella immagine si vede abbastanza bene quello che Crepax sapeva e non sapeva fare. Di certo, non aveva una mano sicura; non ci sono infatti linee lunghe, qui, e tutto è ottenuto attraverso un intreccio, una tessitura di linee brevi e un po’ incerte. Persino quella che qui appare come una bella modulazione della linea che definisce le spalle dell’elegante signora, a guardarla da vicina si rivela una linea composita, fatta di linee brevi intrecciate.
Quali che fossero i suoi limiti come disegnatore, Crepax li conosceva comunque bene, e sapeva altrettanto bene giocarci. A linee incerte corrispondevano vicende di incertezza; e dove la linea non era ottimale per definire i corpi femminili, Crepax era straordinario a giocare di situazioni psicologiche, inquadrature e giochi d’insieme.
Non è però sempre stato così. La linea delle prime storie di Neutron è molto più pulita, netta, definitoria, anche se, forse, povera di capacità di diversificarsi. Le singole vignette di quegli anni sono forse più belle, più incisive, di quelle successive – ma è come se la tavolozza di Crepax vi fosse troppo limitata. Volendo espandere le proprie capacità narrative, e non essendo sorretto dalla qualità del tratto grafico, Crepax ha quindi, da un certo momento in poi, puntato su altro – facendo una scelta vincente, in fin dei conti. Il tratto si è impoverito e un po’ standardizzato, ma l’invenzione visiva è comunque cresciuta, insieme con il virtuosismo narrativo.
Per quanto importante sia la linea, evidentemente c’è, nel fumetto, molto altro su cui giocare.
9 Dicembre 2010 | Tags: comunicazione visiva, Dark Knight Returns, Filippo Scozzari, Frank Miller, fumetto, Guido Crepax, Guy Peellaert, sistemi di scrittura, Vaughn Bodé | Category: comunicazione visiva, fumetto, sistemi di scrittura | C’è un ambito, nel fumetto, che riguarda la scrittura ma non il lettering in senso stretto, ed è quello dei rumori. I rumori appaiono sotto forma di segni di scrittura dalla forte caratterizzazione grafica, con una grande varietà di forme.
Il rumore non è un oggetto del mondo rappresentato, e la natura semiotica della sua espressione nel fumetto è complessa. Un rumore viene tipicamente rappresentato attraverso una sequenza di lettere che, pur essendo di carattere onomatopeico, appare comunque come una parola – magari inventata. In quanto parola, implica la presenza di un senso (che magari può anche semplicemente essere: rumore forte) e soprattutto del suono che la sequenza di lettere evoca, un suono che (a parte quando si tratta di grida) non può davvero corrispondere a quello letteralmente espresso dalle lettere. Il suono espresso dalla parola brakabrakabraka, per esempio, che vediamo qui sotto in una tavola di Frank Miller, sarà dunque interpretato come il suono della mitragliatrice mostrata dall’immagine, un suono caratterizzato – proprio come la sequenza fonetica rinviata dalle nostre lettere – dalla ripetitività di suoni secchi, meccanici ed esplosivi.
Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985
La parola brakabrakabraka rinvia perciò a una serie di suoni che sono un corrispondente analogico di quelli emessi dalla mitragliatrice. L’analogia messa in scena a livello del suono trova poi riscontro in un’altra costruzione analogica a livello della forma grafica, alla quale è demandato di dare energia alla figura del suono. Così, nei diversi esempi visivi che abbiamo raccolto qui si vede chiaramente come i rumori siano costruiti graficamente in modo da rendere, per analogia, la qualità dei loro corrispondenti sonori evocati.
Ma il rumore forte visivizzato nel fumetto gode di un’altra caratteristica. Il rumore è un elemento di per sé estraneo alla natura visiva del mondo rappresentato (e deve comunque avere, nel fumetto, una rappresentazione visiva), e si tratta di qualcosa che deve caratterizzare un eccesso, poiché il rumore stesso (quando vale la pena di rappresentarlo nel fumetto) è frutto di un eccesso. Per questa sua estraneità alla dimensione figurativa e per questa sua natura eccessiva, il rumore finisce per apparire come un elemento cruciale di caratterizzazione stilistica: ci sono infiniti modi possibili di essere eccessivi nell’inventare la forma visiva di qualcosa che in sé non ha nulla di visivo; e di conseguenza il modo scelto è cruciale per l’individuazione del contesto grafico di riferimento.
Guy Peellaert, Pravda La Survireuse, 1967
Così, i rumori di Peellaert sono coloratissimi e bombati come nella visività psichedelica degli anni Sessanta, e quelli di Bodé sporchi e irregolari; mentre Crepax deve giocare sulla poca deformazione di un carattere lineare bold di ascendenza pubblicitaria, e Scozzari non si allontata dal modello underground di Bodé se non per una molto maggiore ricchezza di espressioni. Miller, infine, fa dei rumori visivi uno dei punti di forza della propria poetica della spettacolarità a tutti i costi, con una continua folgorante serie di invenzioni fonetiche e grafiche, dove non di rado il rumore investe la totalità del campo, ed è l’oggetto che si impone principalmente all’attenzione.
Vaughn Bodé, War Lizards, circa 1970
Guido Crepax, L'uomo di Harlem, 1978
Filippo Scozzari, Nekator Superfly, 1974
Frank Miller, Ronin, 1983
Il racconto – da questi esempi è chiaro – si è mangiato l’immagine: là dove la rappresentazione di un rumore può diventare la totalità di ciò che si vede, è ovvio che si guarda (e si deve guardare, e anche con attenzione) per leggere la storia. Solo nel leggerli come rumori degli eventi della storia i rumori visivi del fumetto ricevono un senso dal proprio essere guardati. Tuttavia, al tempo stesso, essi restano anche delle pure caratterizzazioni grafiche astratte, con una figuratività, perciò, del tutto diversa da quella delle figure del mondo che li attorniano.
Se ignorassimo, o mettessimo sullo sfondo il racconto, certo, allora il rumore grafico si trasformerebbe in uno straordinario oggetto visivo, spesso da godere tramite un puro guardare. Ma non verrebbe più, in tal caso, inteso come un rumore. Eppure, anche se il racconto costituisce il fumetto, sappiamo bene che non lo esaurisce affatto. I rumori grafici sono certo prima di tutto rumori, ma un po’ sono anche favolosi oggetti grafici sospesi nello spazio.
Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985
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