Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di tre anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Abbiamo aperto questa rubrica la volta scorsa analizzando Pratt, argentino acquisito. Stavolta voglio proseguire con l’unico allievo argentino di Pratt che abbia (forse) superato il maestro: José Muñoz, qui in collaborazione, come sempre, con Carlos Sampayo. E, si sa, il rapporto tra loro non è quello tra un semplice sceneggiatore che consegna una semplice sceneggiatura a un semplice disegnatore: piuttosto, Sampayo è il principale responsabile di una sceneggiatura a cui partecipa anche Muñoz, così come Muñoz è il principale responsabile di scelte grafiche a cui collabora anche Sampayo.
Quelle riprodotte qui sono le prime due pagine dell’episodio “Quelli che” (1979) di “Nel bar”, una serie in cui ogni episodio focalizza personaggi diversi, con storie diverse, messe in parallelo dalla frequentazione del medesimo Bar da Joe (quello di Alack Sinner, per capirci, e anche lui appare di quando in quando come comparsa).
Dedichiamo qualche parola, per cominciare, agli inchiostri di Muñoz. Attraverso Pratt, questo modo di usare il nero arriva a Muñoz direttamente da Caniff, con anche un comune amore (con il quale invece Pratt non ha relazione) per il continuo interscambio tra il realistico e il grottesco. Ma ci sono anche delle differenze importanti: intanto l’uso del grottesco in Caniff è leggero e muove al riso, mentre il grottesco di Muñoz è ancora più tragico e disperato del suo realismo. E poi, più tecnicamente, laddove in Caniff come in Pratt l’uso del pennello è espressivo e dinamizzante, mentre il pennino descrive e delinea le figure, qui al pennello è riservata la funzione di riempire delle aree già ben definite, mentre è il segno del pennino a creare insieme la forma delle figure e la loro espressività. Si potrebbe quasi dire che laddove in Caniff i personaggi e le scene possono assumere forme espressive o grottesche, in Muñoz espressività e grottesco sono parte dei personaggi, nel modo stesso in cui il pennino li delinea. Anche il pennello finisce quindi per avere una funzione semplicemente descrittiva, ma in più le grandi masse nere creano effetti complessivi di equilibrio plastico. Il dinamismo non è al centro dell’interesse di Muñoz, almeno non nel senso che gli possa interessare (di solito) creare effetti di movimento rapido. Se osservate nell’insieme le due tavole di cui stiamo parlando, vi accorgerete che l’effetto dinamico complessivo (che c’è, ed è anche forte) è creato piuttosto dalla varietà delle inquadrature e delle pose (piuttosto statiche) dei personaggi, e che in questo le campiture nere hanno un ruolo importante.
Questa prevalenza del pennino, con l’uso piatto del pennello, e questa varietà di inquadrature particolari (un riferimento cinematografico obbligato qui è il Citizen Kane di Orson Welles), fanno sì che le immagini non siano di facile lettura. Ci sono molte linee, e l’assenza di mezze tinte chiede all’occhio un lavoro notevole per interpretare le immagini. Guardate la primissima vignetta e fate un esame di coscienza: avete davvero capito subito che cosa rappresenta? Oppure magari solo guardando la seconda vignetta vi è stato chiaro che cosa raffigura la prima?
In un fumetto più tradizionale si tratterebbe di un errore: troppa attenzione richiesta per ciascuna immagine, quindi un ritmo di lettura lento, con, come conseguenza, una probabile lentezza ritmica complessiva del racconto; una storia pesante, troppo impegnativa… Be’, che il lavoro di Muñoz e Sampayo sia impegnativo, è fuori discussione; ma qui la lentezza ritmica è programmata: il lettore deve leggere piano, soffermarsi a lungo su ogni vignetta, perché il racconto non deve correre, e non correndo mostra che quello che si sta raccontando non è soltanto una storia, bensì un insieme di storie intrecciate nella grande città, tra le quali la nostra è solo (quasi casualmente) quella maggiormente focalizzata.
Ed ecco quindi che, quasi a complicare ulteriormente la situazione, e mentre ancora si sta introducendo il personaggio principale e il suo ruolo, appaiono altri personaggi che sembrano non avere (e di fatto non hanno) nessun ruolo narrativo: la signora col cane della quarta vignetta, il tassista della quinta, l’hippie con lo zaino sul fondo della prima vignetta della seconda pagina, l’effeminato della quarta, i tanti personaggi della sesta. La storia principale si snoda attraverso tutte le altre storie che la toccano tangenzialmente, che il testo non racconta, ma vi fa allusione. E in questo modo, tra l’altro, proprio il Mr. Conrad oggetto del lavoro di Wilcox compare senza che ce ne rendiamo conto. Lo capiremo solo un paio di pagine più avanti, quando, accompagnando moglie e figlie alla stazione, Conrad si ritroverà inquadrato sul fondo, mentre in primo piano ci sarà di nuovo Wilcox di fronte al controllore, ma in veste di comparsa, adesso.
È così che Muñoz e Sampayo costruiscono la sensazione di due storie parallele che casualmente si incrociano tra le mille storie parallele che si sfiorano soltanto (e il Bar da Joe è chiaramente la metafora di questo avvicinarsi più o meno determinante tra percorsi diversi).
Se ora leggete la sequenza, vi accorgerete che questo è esattamente l’effetto a cui mira la sceneggiatura di Sampayo: una serie di fatti quasi casuali, attraverso cui si snoda l’unica serie di eventi con una qualche coerenza narrativa. Ma anche che Wilcox debba aver a che fare proprio con Conrad è un fatto quasi casuale. La messa a fuoco sulla storia che sta per essere raccontata è lenta e progressiva, proprio come la messa a fuoco sulle singole immagini di Muñoz.
(altre osservazioni su queste tavole si possono trovare in un post del mio blog: www.guardareleggere.net/wordpress/2013/01/28/)
Leave a Reply