Narratori senza parole
Il Sole 24 Ore, 26 settembre 1999
Raccontare senza parole. E’ la sfida del mimo, e fu quella del cinema muto. E’ stata, in qualche epoca, la sfida della pittura: ma in pittura ci si limitava a mettere in figura una storia già nota, evocata nella sua interezza dalla messa in scena di una sua situazione cruciale – nell’ambiguità, talvolta, che si trattasse della storia di Giuditta e Oloferne, o di quella di Salomè e Giovanni Battista…
Il racconto è così legato alla parola, che ci sono lingue in cui “dire” e “raccontare” vengono espressi dalla stessa parola, come l’inglese “to tell”. E pure in italiano un racconto è certamente, in assenza di ulteriori specificazioni, un racconto a parole.
Nella nostra tradizione, almeno fino a un secolo fa, è solo con il teatro che è possibile raccontare in una forma che non sia semplicemente verbale. Il teatro da sempre, potremmo dire, mette in scena un racconto: lo fa avvenire davanti ai nostri occhi, seleziona frammenti di realtà, li artefà e li rimonta in modo che lo spettatore veda chiaramente la sequenza degli eventi che costituisce il racconto, anche senza l’accompagnamento della voce del narratore.
La parola ha un ruolo importante nel teatro, ma rispetto al racconto puramente verbale il salto è enorme; perché il ruolo della parola nel teatro si riduce dall’essere fondamentale al semplice essere utile. E la mimica, la scenografia, il movimento reale, assumono valenza narrativa, rendendo possibile alla fine, quando l’evoluzione tecnologica ne fornirà gli strumenti materiali, l’ipotesi di un arte che racconti integralmente senza fare alcun uso della parola.
Visto all’indietro, con gli occhi di oggi, il cinema muto appare singolarmente e talora grottescamente espressivo. L’immagine deve rendere chiaro quello che nella vita normale (e nelle abitudine dei lettori di sempre e dei cinespettatori di oggi) viene solitamente reso con qualche parola: sensazioni, sentimenti, emozioni…
Ma se il cinema è nato muto, per ragioni squisitamente tecniche, il fumetto è nato con le parole. Convenzionalmente, si usa considerare data di nascita del fumetto quella della comparsa della prima tavola di Yellow Kid in cui compare un balloon, un fumetto appunto, corredato del suo contenuto di parole. Non si considerano fumetti, convenzionalmente, le storie illustrate esistenti in precedenza, né quelle per bambini dell’Ottocento, né quelle edificanti e popolari diffusissime nell’Europa dal sedicesimo al diciottesimo secolo. C’è di buono, in questa data convenzionale, che essa individua grosso modo anche la data di inizio di un’industria culturale, che rende il fenomeno “comics” assai diverso da quanto di anche simile esistesse prima. E questi precedenti, non frequentissimi e talvolta davvero senza parole, sono dimenticati molto più del cinema muto.
Per questo, realizzare oggi dei fumetti senza parole appare come un’operazione inusuale e difficile, con pochi precedenti. Ricordiamo le strisce storiche di Ferd’nand del danese Mik, e di Little King (Piccolo Re) di Otto Soglow; ma si trattava di strisce umoristiche, che presentavano e risolvevano una situazione nelle quattro vignette di un’apparizione quotidiana. Non c’era davvero racconto, non c’era azione.
Più prossimo a noi è il fumetto giapponese Gon, di Masashi Tanaka, storie di un piccolo e fortissimo dinosauro alle prese con un mondo che ignora (e poi subisce) la sua forza. E più prossima ancora è una collana inaugurata qualche mese fa dalla casa editrice Phoenix di Bologna, dal significativo titolo No words.
Sono tre i volumi usciti sino ad oggi, di cui almeno due di deciso rilievo. Si tratta di Pastil, di Francesca Ghermandi, e di ¡Infierno!, di Tito Faraci e Silvia Ziche. Due storie molto diverse, accomunate dal tema surreale.
In Pastil, una bambina dalla testa piatta come una pastiglia continua a svegliarsi in tante variazioni del medesimo incubo, vola all’interno di una cassetta del pronto soccorso, ora fuggendo ora arrivando in situazioni da cui è necessario risvegliarsi. ¡Infierno! racconta invece del destino post-mortem di un boss mafioso, che, ovunque vada, riesce in breve tempo a rivolgere la situazione a suo vantaggio. Una parodia che si risolve in un continuo incubo la prima, un incubo che si risolve in parodia la seconda.
In entrambe le storie, a ben guardare, ritroviamo gli aspetti che abbiamo visto caratterizzare il cinema muto: poiché non si possono utilizzare le parole, i sentimenti vanno resi evidenti, vanno sottolineati con l’eccesso dell’espressione. Ma il fumetto, con tutta la sua storia di parodia e caricatura, convive tranquillamente con questa esasperazione, e le storie di No words non fanno eccezione. Quello che crea differenza, e stranezza, nel cinema, è del tutto naturale in un medium differente, e con una storia differente alle spalle, come il fumetto.
Ma qualcosa di diverso c’è comunque, rispetto a un normale fumetto che faccia uso di dialoghi e didascalie. La parola – è facile osservarlo, in generale – influisce profondamente sui ritmi del fumetto: rallenta la lettura, dando più tempo alle singole vignette, e quando compare in didascalia accelera il racconto, esprimendo con poche parole quello che potrebbe richiedere anche parecchie vignette. La sua assenza è dunque cruciale nelle storie di No words. Nella diversità che comunque manifestano tra loro, la diversità ritmica rispetto a qualsiasi altra storia a fumetti è comune e evidente. Molti lettori, solitamente appoggiati alle parole (dialoghi e didascalie) si troveranno qui costretti – magari davvero per la prima volta – a guardare le figure, a compiere un’opera di decodificazione grafica a scopo narrativo.
Una volta tanto, per quanto strano possa apparire dirlo, le immagini del fumetto non sono trasparenti. L’assenza della parola costringe il lettore ad attraversarle senza la consueta stampella. E il discorso narrativo vi si costruisce forse con qualche leggera difficoltà, ma con un grande godimento visivo e con un notevole effetto didattico. Cosa che, in una società popolata da analfabeti dell’immagine e in cui la comunicazione passa in larga misura attraverso figure, basterebbe da sola a dar valore a questi testi.
Ma si tratta, per quanto singolari, anche di storie, con tutta la fascinazione del racconto, dello sviluppo narrativo. Restituito in qualche modo con la forza delle cose che si vedono per la prima volta, come la teoria – di nuovo di origine teatrale – dello straniamento ci ha da tempo insegnato.
Francesca Ghermandi
Pastil
Tito Faraci, Silvia Ziche
¡Infierno!
Phoenix, Bologna
pp. 48, £. 7.900
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