Desmayarse, atreverse, estar furioso,
áspero, tierno, liberal, esquivo,
alentado, mortal, difunto, vivo,
leal, traidor, cobarde y animoso;no hallar fuera del bien centro y reposo,
mostrarse alegre, triste, humilde, altivo,
enojado, valiente, fugitivo,
satisfecho, ofendido, receloso;huir el rostro al claro desengaño,
beber veneno por licor süave,
olvidar el provecho, amar el daño;creer que un cielo en un infierno cabe,
dar la vida y el alma a un desengaño;
esto es amor, quien lo probó lo sabe.—————————–
Abbandonarsi, ardire, esser furioso,
tenero, aspro, liberale, schivo,
animoso, accasciato, morto, vivo,
leale, infido, vile e coraggioso;non trovar fuor del bene agio e riposo ,
mostrarsi altero, mite, egro, giulivo ,
stizzito, pusillanime, aggressivo,
soddisfatto, adontato, sospettoso;voltar le spalle al chiaro disinganno,
bere veleno per liquore grato,
scordarsi del profitto, amare il danno;creder che un cielo è in un inferno entrato,
dar l’anima e la vita a un disinganno:
quest’è amore: lo sa chi l’ha provato.
Non è una poesia di un autore contemporaneo, questa. L’ha scritta Lope Félix de Vega y Carpio intorno al 1600 (pubblicata in Rimas, 1604, qui nella traduzione di Roberto Paoli, Liriche, Einaudi, 1974).
Lope de Vega è uno dei grandi autori del periodo d’oro (el siglo de oro) della letteratura spagnola, con Cervantes, Góngora, Quevedo e (qualche anno dopo) Calderón de la Barca. Ricordo che, la prima volta che lo lessi, mi colpì, nelle sue liriche, una singolare assonanza di temi e di modi con le Canzoni popolari di García Lorca. Non sapevo, allora, che García Lorca, insieme a un gruppo di poeti della sua generazione, era stato protagonista del cosiddetto gongorismo, ovvero una rivalutazione e ispirazione poetica a Luis de Góngora, e alla poesia del suo tempo. In qualche modo, dunque, la poesia spagnola del Novecento è figlia diretta di quella del siglo de oro. Non c’è da stupirsi di trovare delle convergenze, a distanza di tre secoli.
Nel leggere questi versi, bisogna tenere presente che l’endecasillabo e il sonetto non sono forme native della poesia spagnola. Per gli italiani, l’endecasillabo è il verso epico e lirico tradizionale, e il sonetto una delle forme principali attraverso cui la poesia si è sempre espressa, da Giacomo da Lentini in poi. Per gli spagnoli, endecasillabo e sonetto giungono insieme con il petrarchismo, una moda italiana che si diffonde nel Cinquecento, a sostituire (e solo in parte) i metri della tradizione.
I grandi poeti spagnoli del Cinquecento scrivono dunque all’interno della cornice petrarchista, nel mito della poesia italiana. Ma basta leggere Lope de Vega per rendersi conto di quanto particolare sia questa adesione alla regola petrarchista, ormai quasi solo una facciata metrica, attraverso cui si manifestano ben altre disposizioni poetiche. Dov’è, per esempio, l’io lirico in questo componimento? C’è qualcuno che dice io, o che racconta della propria interiorità?
Quello che io trovo straordinario, in questi versi, è il crescendo maestoso di inaccettabili atteggiamenti l’uno contrario all’altro, che si alternano ora parola per parola, ora verso per verso, sempre più accesi, lasciando sempre meno comprensibile, verso dopo verso, il senso del discorso. Così, verso dopo verso la tensione cresce sempre di più: di che cosa ci sta parlando costui? Che cos’è questa roba così assurda?
La soluzione arriva tutta di un colpo proprio alla fine, con un fantastico coup de théatre: “esto es amor, quien lo probó lo sabe”. Ed ecco che, improvvisamente, tutto si spiega; noi tutti l’abbiamo provato; tutti riconosciamo la verità e il senso delle sue parole. Nella cornice classica e petrarchesca ed elegante del sonetto, Lope de Vega incastona un combattimento furibondo e un tensione altissima, destinata a risolversi con una specie di cannonata finale. Non è difficile riconoscere in questi versi lo stesso amore dei paradossi, della teatralità e dell’ironia che anima il coevo Don Chisciotte.
La cornice petrarchesca mantiene questi versi sufficientemente distanti da noi. Ma se potessimo fare astrazione da questa maniera – che per un’italiano è ancora più definitoria che per uno spagnolo – non potremmo riconoscere qualcosa, in questi versi, di molto più vicino? In fondo, nella Spagna degli anni Venti del Novecento, i confini tra gongorismo e surrealismo sono stati davvero molto labili.
Aggiungo che qui c’è un modello molto esplicito, il Petrarca del Sonetto CXXXIV, che però è tutto giocato sull’asse Io / Tu.
Pace non trovo, e non ho da far guerra;
e temo, e spero; et ardo, e son un ghiaccio;
e volo sopra ’l cielo, e ghiaccio in terra;
e nulla stringo, e tutto ’l mondo abbraccio.
Tal m’ha in pregion, che non m’apre né serra,
né per suo mi ritèn né scioglie il laccio;
e non m’ancide Amore, e non mi sferra,
né mi vuol vivo né mi trae impaccio.
Veggio senza occhi, e non ho lingua, e grido;
e bramo di perir, e cheggio aita;
et ho in odio me stesso, et amo altrui.
Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte e vita:
in questo stato son, donna, per vui.
Direi che questo è certamente il modello di riferimento. Però non c’è solo l’assenza dell’io a fare la differenza. In Lope de Vega non ci sono indizi, prima della fine, per capire di che cosa stia parlando, mentre Petrarca nomina l’amore già dal verso 7. Mi sembra che Petrarca non stia cercando, a differenza di Lope, l’effetto sorpresa, come conferma anche il fatto che si sta rivolgendo, in prima persona, direttamente alla donna; mentre Lope, in terza persona, si rivolge genericamente al pubblico. Inoltre ho la sensazione che le stesse contrapposizioni utilizzate da Petrarca siano più standard per descrivere l’amore passionale, rispetto a quelle di Lope, e quindi più facilmente riconoscibili.
Insomma, da un lato ci vedo un’intensa e diretta dichiarazione d’amore; dall’altro una sconsolata riflessione sulla miseria umana, costruita in modo che solo alla fine, di colpo, si scopre (con divertito orrore) che questa miseria è la passione amorosa (magari quella stessa di Petrarca).
Insomma: stesso modello, effetto diversissimo!
Ciao
db