11 Gennaio 2017 | Tags: fumetto, Gipi | Category: fumetto | Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di tre anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
(Niente figura stavolta. Bisogna guardare il libro)
Torniamo sul contemporaneo, anzi, proprio sul recente, sull’attuale. D’altra parte, dal mio punto di vista, unastoria di Gipi è già una storia passata alla Storia; è già un classico, nella sua perfezione e ingegnosità. Mi è capitato, in questi mesi, di udire, leggere, e anche discutere di persona con Gipi che racconta come è nato questo racconto a fumetti. Dopo tante storie autobiografiche, e dopo un lungo, lunghissimo silenzio fumettistico (durante il quale Gipi ha fatto altro, cioè soprattutto il regista), questa storia gli si è quasi imposta da dentro, come qualcosa che voleva uscire, con un inizio quasi casuale e una spinta a proseguire, per quanto ancora senza sapere come.
Il metodo con cui Gipi racconta di aver realizzato questa storia è tutt’altro che didatticamente consigliabile, a meno che uno non abbia già numerose storie realizzate alle spalle – e allora magari non ha nemmeno bisogno di consigli didattici… In altre parole, sino a poco prima della fine della realizzazione, l’autore non sapeva come il discorso sarebbe proseguito, né dove sarebbe approdato.
In termini di economia della produzione, si tratta di un rischio enorme, perché proseguendo così, in maniera miope, vedendo soltanto lo sviluppo immediato (e talvolta nemmeno quello) si corre facilmente il rischio di imboccare vicoli ciechi, senza possibilità di sviluppo, trovandosi magari costretto a buttar via una quantità di lavoro già fatto, per poter riprendere il discorso da un punto precedente, quando le possibilità sono ancora aperte. A meno di non essere (quale Gipi è) un grande narratore, con una specie di istinto animale per gli sviluppi più iteressanti e sensati.
A quanto l’autore ha raccontato, di vicoli ciechi quasi non ne sono stati presi: poca roba, insomma, nell’economia complessiva. Ma l’autore l’ha ugualmente pagata in termini di incertezza, di continua angoscia sul come proseguire. È un po’ come con una partita a scacchi, in cui cerchi di prevedere quale sia il ventaglio di possibilità future che la tua prossima mossa ti apre; ma non puoi pianificare l’intera partita. Se sei un giocatore di qualità potrai prevedere quattro, cinque mosse future; ma poi l’insieme dei possibili sviluppi si fa così ampio da non essere più gestibile. E la cosa dipende anche dalla qualità del tuo avversario.
Gipi aveva di fronte un avversario temibile: la banalità, o la prevedibilità, se preferite; il rientrare nel già visto, nel già letto, già noto. Ma ne aveva, al tempo stesso anche un altro, non meno temibile: l’astrattezza, la fumosità, l’incomprensibilità. Sono gli avversari, questi, di qualunque scrittore; ma una cosa è affrontarli sostanzialmente in fase di pianificazione e progettazione iniziale (avendo di fatto già giocato in larga misura la partita sulla stesura del soggetto e della sceneggiatura), e altra cosa è trovarseli di fronte giorno per giorno, mattina dopo mattina, dovendosi domandare se si sta davvero facendo la cosa giusta, e come reagiranno loro. In termini pratici, se chi lavora su una sceneggiatura già preparata può trovare lo spazio per rilassarsi, perché una quantità di problemi globali sono già risolti e ci si può concentrare su quelli locali, di impaginazione e di disegno, Gipi, al contrario, è costretto a stare sul pezzo senza distrazioni, come un sassofonista che stia eseguendo un assolo: non puoi interromperti un minuto per fare altro, e poi riprendere! Se ti azzardi a farlo, perdi il ritmo, perdi il flusso, si dissolve il duende.
Ecco quindi che cosa guadagna Gipi con questa operazione certamente antieconomica, umanamente distruttiva, rischiosissima: guadagna la freschezza dell’improvvisazione, il suo ritmo, la condivisione con il lettore dell’atteggiamento nei confronti della storia che si sta narrando. Perché nelle pagine di unastoria l’autore come il lettore non sa che cosa accadrà dopo, e le sue interrogazioni possono essere le stesse del lettore, il suo feeling il medesimo del lettore, il suo rapporto con i personaggi e con gli eventi proprio quello che sta avendo il lettore. Il guadagno è dunque in freschezza, in immediatezza, nella sensazione che quello che stai leggendo/guardando non arrivi dall’alto, ma prenda vita quasi nel momento in cui lo guardi.
Ho selezionato, da mostrare qui, le prime tre pagine di unastoria. Che cosa vi si sta raccontando? Difficile dirlo. In generale, il rapporto che ciascuno di noi ha con il proprio corpo, con la propria storia personale, con la propria età. Tuttavia, nel fare questo, vengono messe in gioco due figure, quella dell’albero secco, metafora della natura non benigna, e quella della stazione di benzina, metafora di qualcosa che non arriva (per ora) a essere chiaro, perché di colpo entra in campo come una seconda voce, “Cos’è questo posto” al che la voce narrante principale si trova costretta a rispondere “Zitto. Non parlare. Seguimi.”; e poi il discorso riparte da capo, introducendo una variazione nel tema iniziale: non più la vecchia, ma il diciottenne; non più qualcuno che si vede così com’è, ma qualcuno che si vede come sarà tra trent’anni.
Ecco che nel giro di tre pagine, un attacco quasi filosofico, autoriflessivo (“Dammi risposte complesse”) si articola in un dialogo con una seconda voce, e appaiono figure emblematiche. Si tratta di un’introduzione, indubbiamente, e alle introduzioni permettiamo di divagare, di creare l’atmosfera. Narrativamente, qui è ancora tutto aperto; solo, ci si potrà aspettare una storia in cui si rifletta sul rapporto con il proprio io, con l’alterità, con l’esperienza vissuta.
Anche graficamente sta già succedendo molto. Sono stati mostrati diversi personaggi, anche se hanno l’aria delle comparse, funzionali al solo discorso del narratore. Ma soprattutto è stata impostata un’alternanza tra una grafica disegnata, bianconero al pennino graffiato, e una dipinta, tecnica mista con dominanza di acquarello o ecoline.
Non è immediata la comprensione del perché di questo salto d’immagine. Non si tratta di una differenza convenzionale, come spesso si usa nel fumetto, per esempio per contrapporre realtà a sogno o fantasia o ricordo. Al massimo c’è un accenno a un’opposizione di questo tipo, o a un’opposizione narrativa di qualsiasi tipo. Credo che, anche qui, Gipi preferisca giocare di indeterminatezza.
Certo, le immagini al tratto sono fortemente integrate con il lettering che le accompagna, con abbondanza di discorso verbale, come se parole e immagine dovessero essere considerate quasi una cosa sola, quasi un modo fortemente integrato di raccontare, in cui anche la parola è immagine, e l’immagine è a sua volta parola. D’altro canto, le immagini dipinte sono accompagnate da poco testo, e nettamente differenziato da loro, come se l’immagine volesse imporre la propria pregnanza e autosufficienza, facendosi fortemente guardare, perché in quel momento guardare è sufficiente.
In altre parole, con gli strumenti del fumetto, Gipi ci fa passare dal romanzo (dominanza della parola) al film (dominanza dell’immagine), e viceversa, scegliendo per ogni situazione la modalità più adatta per esprimere quello che si vuole esprimere. Un altro ritmo, un altro motivo di fluidità, un altro elemento di complessità che si aggiunge con semplicità al gioco.
Indubbiamente, con questa introduzione alata, intrigante, coinvolgente, ma che non rivela quasi nulla, il lettore ha ragione di aspettarsi un seguito di storia di eguale altezza ed eguale livello di coinvolgimento. Ma le ambasce quotidiane dell’autore Gipi non sono state inutili.
17 Novembre 2016 | Tags: fumetto, Fumettologica, Gipi | Category: fumetto |
Dopo la storia che non è una storia, ma due o più, di Unastoria, Gipi torna a raccontare una storia che è davvero una, e fila diritto dall’inizio alla fine. Solo che la fine, stavolta, c’è già stata. Anzi, la Fine, la Fine del mondo. La palude pure c’era già stata, nelle storie di Gipi, e anche già associata all’Apocalisse: ne Le facce nell’acqua, i protagonisti sono scappati dalla guerra, e stanno in un casotto in mezzo all’acqua, mentre sopra di loro passano i bombardieri che vanno a scaricarsi sulla città. Non è chiaro se le facce, che vengono scorte a mezzo metro sotto l’acqua, siano reali o frutto della suggestione del luogo.
Nel libro uscito a ridosso di Lucca Comics & Games 2016, la palude è La terra dei figli, un luogo terribile, abitato da una sfilacciata comunità di pochi sopravvissuti, che si guardano in cagnesco e diffidano l’uno dell’altro, perché le risorse sono scarse e spesso avvelenate. Non è chiaro in che cosa sia consistita l’apocalisse, ma il mondo che conosciamo noi non c’è più, e quello che resta è miseria, ignoranza e durezza. La durezza necessaria che il padre insegna ai figli affinché siano in grado di sopravvivere, e i figli – protagonisti della storia – non sanno nemmeno cosa sia una carezza, e non conoscendola credono di non sentirne il bisogno.
Questa volta la storia è davvero una storia…
Prosegue qui, su Fumettologica.
Macchine emotive per raccontare storie di nulla
Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2004
Sembrano provenire da un altrove remoto le cinque storie inedite che Gipi presenta in Esterno Notte, ma si tratta di un altrove interiore, come isole della coscienza o della memoria che escano d’improvviso dalle brume, per restare, quasi magicamente, fissate sulla carta. E di magia, in questi brevi testi narrativi per immagini, ce n’è parecchia.
È il primo libro, questo, che Gipi pubblica, ma numerose storie sue erano già uscite su riviste – storie belle, intriganti, ben costruite. Eppure il salto di qualità che si incontra su queste pagine è stupefacente. Le si legge e rilegge, queste storie, alla ricerca del nocciolo della loro magia, cercando di capire come facciano a emozionare il lettore così tanto, a comunicare questa sensazione di profondità del ricordo, quasi di paura.
Non è solo questione di invenzioni visive, ma anche nel semplice modo di rappresentare il suo mondo Gipi appare dalla prima tavola come un maestro. Ci sono questi monocromi dipinti a olio, che combinano la rappresentazione realista con una vaga parodia – messi a contrasto con immagini disegnate a pennino, ora per giustapposizione di vignette, ora addirittura sovrapposte alla pittura, quasi due realtà diverse nello stesso spazio.
E poi c’è la parola, il racconto, le voci dei personaggi. Una costruzione di polifonie e contrasti, in cui una vena lirica molto intensa si trova temperata da un’ironia leggera e amara.
Tre di queste storie sono frammenti autobiografici, storie di nulla, non-storie. O magari suggerimenti rispetto a quello che in seguito è accaduto davvero, che qui viene taciuto. Ma intanto si delinea il ritratto di un piccolo mondo e delle sue emozioni – che appaiono in questo modo come messe a nudo, liberate dalle pastoie narrative che rischierebbero di farle apparire convenzionali, già raccontate, come spesso accade, da milioni di storie.
Poi ci sono altri due racconti, quello di un malavitoso colto da una sorta di crisi esistenziale in un momento di tensione (uno scambio di prigionieri tra bande rivali), e l’ultimo, il più lungo, “Muttererde”, l’incubo di una caccia ai clandestini a bordo di una petroliera, sull’oceano, d’inverno. E qui si riesce forse a individuare almeno una delle strategie di cui Gipi fa uso per costruire le proprie macchine emotive. Nella storia dei malavitosi è il contrasto tra due contesti narrativi tradizionalmente diversissimi, come il tormento interiore e la tensione per la situazione di pericolo. In “Muttererde” è il contrasto tra la grandiosità spaventosa dell’oceano ostile, e il tarlo di inumanità e idiozia che corrode la casa comune dei personaggi, la petroliera Muttererde (“Madre Terra”, in tedesco).
Ma non si tratta di accostamenti facili. Come in ogni ricetta che avvicina ingredienti dai sapori lontani, la sapienza sta nella scelta degli altri elementi, che servono per farli “legare”. Qui sarà forse la maestria visiva, o la capacità di costruire un ritmo emotivo fatto di tanti elementi diversi; ma che non rallenta mai.
Gipi
Esterno notte
Coconino Press, Bologna 2003
96 pagg. 13 €
Gipi – “Esterno notte” – pag.1
Gipi – “Esterno notte” – pag.2
Gipi esordisce nel campo del romanzo a fumetti nel 2003, con Esterno notte. Ha già pubblicato varie storie interessanti, ma Esterno notte rappresenta comunque un salto di qualità. Il lettore se ne accorge sin dall’inizio, dalle prime pagine della “Storia di Faccia”.
C’è quella prima immagine, bellissima, tre quarti di pagina, in un bianco e nero di un azzurro plumbeo, che rappresenta un cielo enorme sopra un paesaggio che corre verso l’orizzonte. Ci sono le parole di una didascalia, in alto nel cielo: “COME BRILLA L’ARIA OGGI”; e poi, sotto, sopra l’immagine più piccola, quasi astratta, ma non meno piena di cielo: “BRILLA COSÌ TANTO DA FAR DIMENTICARE TUTTO”.
L’immagine si impone anche da sola. Racconta di una giornata luminosa, ma è anche un oggetto visivo interessante in sé, con quel contrasto tra denso e diafano, presente nella materia stessa del colore – un colore che insieme c’è e non c’è, perché la monocromia è basata su un pesante blu di Prussia, non sul nero. L’effetto che si vuole ottenere non è solo poetico, cioè di una forte attenzione alla forma, ma è anche, specificamente, lirico. Il cielo luminoso, l’aria che brilla, sono temi lirici troppo classici per non essere immediatamente riconoscibili. In altri contesti potrebbero apparire addirittura stucchevoli.
Ma qui, la dominanza della componente visiva modifica il gioco. In poesia c’è solo la parola, e nel campo della lirica è convenzione diffusa che si debba interpretare quella parola come la voce stessa del poeta, l’io lirico; perché l’effetto non sia questo bisogna giocare di straniamento, di dislocazioni, ottenute con altre parole, o con un uso meno ovvio della parola stessa.
L’immagine gode di un’espressione più oggettiva della parola: in linea di principio, mentre non esiste parola che non sia pronunciata da qualcuno, il mondo è pieno di immagini che nessuno ha “pronunciato”: basta aprire gli occhi e guardarsi attorno per vederne; il mondo è tutto fatto di immagini che la nostra vista recepisce (o, per dirla con maggior precisione, attraverso il senso della vista noi percepiamo il mondo come una sequenza di immagini). Per questo, anche un’immagine evidentemente prodotta da qualcuno, come questa, non è necessariamente e immediatamente interpretata come “pronunciata” da lui. Ancora prima di vedere la componente di espressione soggettiva, noi vi vediamo l’immagine, e magari il mondo che essa raffigura, se c’è qualcosa di raffigurato. Prima di tutto vediamo un pezzetto di mondo; e solo in seconda istanza, e non necessariamente, ne vediamo la dimensione di immagine prodotta e ne valutiamo la componente espressiva.
Per la parola, in generale, è vero praticamente il contrario: prima se ne vede (se ne ode) l’espressione soggettiva, e poi eventualmente, e non necessariamente, la si riesce a vedere come oggetto del mondo, nelle sue forme visive e/o sonore.
Tuttavia quando, come qui, le parole compaiono in mezzo all’immagine, è l’immagine stessa a provocare l’effetto di dislocazione, separando l’io che pronuncia quelle parole dall’io dell’autore. In altre parole, non è necessariamente l’autore il soggetto che parla qui, che sta dicendo “io”; è un altro io, quello del narratore, o di un narratore, che si trova all’interno della storia e del suo mondo proprio come la didascalia è piazzata all’interno della figura. Una soggettività già oggettivata nella storia, insomma; una soggettività lirica, certamente, ma un lirismo visto da fuori, riportato, e quindi straniato, oggettivato. Certo non meno vero, per questo, e non meno efficace. Anzi, forse persino di più, perché la dislocazione neutralizza il dolciastro, il lirismo: non è il poeta (l’autore) a pronunciare quelle parole, ma qualcuno di cui lui sta qui raccontando.
È questo che permette il magistrale colpo di scena della seconda pagina, quando entra in scena Faccia, il cattivo, il bullo, il Franti della situazione. C’è un cambio di registro improvviso. Dal lirico si passa al realismo basso, al linguaggio colloquiale e scurrile. Ma Faccia si rivolge a colui che nella pagina precedente aveva fatto espressione di commozione lirica, e appare qui disegnato con uno stile diverso, più semplice, più quotidiano, quasi più scurrile: “CHE COSA CAZZO STAI SCRIVENDO? ARIA CHE BRILLA, DIMENTICANZA, TUTTE CAZZATE. GUARDAMI. GUARDAMI BENE.”
Il Faccia disegnato male e che parla male si rivolge a colui che parlava bene nella pagina precedente, identificandolo al tempo stesso con colui che disegnava così bene. Il nuovo registro del disegno sembra delineare una diversa dimensione di realtà, più cruda e reale, che vuole negare la precedente, dichiararla falsa, e falsa in quanto lirica, e lirica in quanto si dimentica di lui, di Faccia, quello che la realtà la viveva davvero! e nella cui dimensione di vita il lirismo non ha posto, è pura e semplice falsità, sdolcinata falsità.
La storia prosegue poi per tutto il suo corso su questo duplice registro: da un lato una dimensione lirica da cui il narratore non riesce mai a staccarsi davvero, dall’altro la cruda realtà della vita di Faccia, piccolo delinquente di provincia, ma anche figura eroica e tragica, malato di una deformazione ossea progressiva che gli deturpa il viso, e in fondo evidentemente e profondamente umana. L’alternanza viene essa stessa tematizzata, a volte sembra persino l’argomento del discorso, mentre poi piano piano, progressivamente, pagina dopo pagina, la storia di Faccia diventa sempre di più l’argomento evidente. E se, all’inizio, la grafica “dipinta” viene contestata da quella “disegnata”, proprio come il lirismo viene contestato dalla realtà, progressivamente, nelle pagine successive, è questa stessa realtà a trovarsi sempre di più a essere “dipinta”, e quindi ad assumere tonalità liriche. Anche il personaggio Faccia continua ad abitare esclusivamente la dimensione “disegnata” solo fino al momento dell’azione sciagurata ed eroica, in cui però le (due) immagini “dipinte” in cui compare il suo viso sono annegate in un lunghissimo monologo di dolore e di sfida – un monologo che, in una storia a fumetti, è ovviamente “disegnato”, e quindi appartenente alla dimensione reale anche se fatto di parole soggettive.
Ecco insomma come Gipi muove le acque, giocando sull’opposizione poesia/prosa per ottenere un effetto diverso da entrambe. Ha la possibilità di farlo perché nel fumetto questa opposizione non è formalizzata. Ma lo può fare anche perché l’opposizione è nota, e può essere applicata al fumetto, pur se in maniera fluida, più evocativa che tassonomica. Gipi evoca esplicitamente l’opposizione, sembra quasi, a momenti, farne l’oggetto del discorso, ma si tratta di uno stratagemma a sua volta narrativo. È la figura di Faccia, attraverso questo stratagemma, a ricoprirsi a sua volta di una liricità più autentica. Alla fin fine, per quanto struggente e lirico sia quel cielo brillante che appare all’inizio, quando si arriva all’ultima pagina della storia è la figura di Faccia ad apparire lirica e struggente, e molto più giustificatamente tale.
Il cielo brillante ci affascina, certo; ma Faccia ci affascina molto di più. Il cielo brillante è facilmente lirico; mentre per trovare lirico il destino di Faccia bisogna fare molta più fatica, attraversando persino il territorio antilirico del grottesco. Tuttavia, una volta che il racconto di Gipi ci conduce attraverso questa fatica, Faccia ci appare, pur in maniera paradossale, ancora più lirico di quel cielo – e senza nemmeno il sospetto di stucchevolezza che ci sorgeva all’inizio.
Poetry comics? Boh! non saprei proprio. Tendenzialmente direi di no. Di certo c’è un uso molto acuto di certi stereotipi poetici, per ottenere effetti che di stereotipico non hanno proprio nulla.
Giacomo Monti, Camicia
Sarà magari perché ce l’ho in mente da quando ho parlato di Mumin, ma i fumetti di Giacomo Monti mi sembrano avere qualcosa in comune con i film di Aki Kaurismäki. C’è lo stesso sconsolato squallore, la stessa umanità appassionata e demente, la stessa ironia sottile e devastante. In realtà Kaurismäki mi fa ridere un po’ di più, ma anche lo squallore di Monti è talmente stralunato o lunare, così ridicolo e assurdo, che non si può restare del tutto seri.
Eppure le storie raccolte in Nessuno mi farà del male (Canicola, 2010) sono serie, serissime, talvolta drammatiche – proprio come quelle di Kaurismäki. C’è la capacità di cogliere il gesto, il dettaglio solo in apparenza insignificante: come la camicia spiegazzata del cliente della prostituta, su cui si incentra il loro discorso, unica relazione un poco umana nell’indifferenza reciproca generale.
Persino il disegno raccoglie e diffonde il senso di monotonia e grigiore della vita, con quelle caselline tutte uguali, quelle linee troppo o troppo poco marcate per essere di qualità, graficamente. E tuttavia persino il disegno è straordinario in Monti, nella sua assurda semplicità, nella sua quasi demenza. Mi piace persino il modo in cui Monti spreca lo spazio della pagina, limitandosi a poche vignette piccole dove potrebbe metterne tante, o magari farle più grandi.
Ma qui tutto deve essere piccolo, perché piccola è la vita, piccole le gioie, i dolori, le disgrazie. E persino l’arrivo degli alieni finisce per diventare una storia di amore coniugale di campagna.
Monti è antiepico, antilirico, antigrafico, ma riesce a esserlo liricamente e quasi epicamente, inventandosi una grafica del banale e dello scontato, che non è, in sé, né banale né scontata.
Insomma, capisco bene perché Gipi abbia scelto questo libro per ricavarne il soggetto del suo primo film. Mi domando giusto come farà a ottenere una trama unitaria da questo pulviscolo di piccole vicende.
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