Da “Scuola di fumetto” n.106, 2017: La logica del mito in Sergio Toppi

Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Sono molto dispiaciuto che la rivista non ci sia più. Queste riproposte continueranno con frequenza bimestrale sino a esaurimento.

Sergio Toppi, “Sharaz-de. Ho atteso 1000 anni”, luglio 1980

Rimaniamo sul tema della costruzione di pagina, rispetto al quale l’ultima volta avevamo esaminato una pagina del Little Nemo di Winsor McCay. Stavolta ci spostiamo molto più vicino a noi. La tavola di Sergio Toppi che state vedendo appartiene alla storia “Ho atteso mille anni” della serie Sharaz-de, ed è stata pubblicata per la prima volta sul numero di luglio 1980 di AlterAlter.

Sharaz-de consiste in una serie di racconti ispirati alle favole delle Mille e una notte, e rappresenta forse il punto più alto della produzione di Toppi per Linus e Alter negli anni Settanta e Ottanta. Quasi tutti gli episodi sono in bianco e nero, con due importanti eccezioni, da una delle quali è tratta questa pagina. Anche gli episodi di Sharaz-de condividono il tono epico e favolistico delle storie che Toppi sta realizzando in quegli anni; anzi, lo accentuano, facendosi forti delle modalità narrative della raccolta tradizionale araba.

Osserviamo dunque con attenzione questa tavola. Chi conosce Toppi sa quanto è arrivato lontano, in questi anni, dall’organizzazione tradizionale della pagina fumettistica, organizzata sequenzialmente per vignette. Spesso nelle sue tavole la ripartizione in vignette è completamente assente, sostituita da una logica di lettura che sfrutta sia le convenzioni di lettura (sinistra prima che destra, alto prima che basso) sia i poli di attrazione percettivi dell’immagine (tendenzialmente: prima il centro poi la periferia, prima le figure meglio definite – cioè più grandi, o più vicine, o più contrastate… – e poi le altre, prima le figure umane e poi il resto, prima i volti e poi i corpi…).

Qualche volta, però, un accenno di organizzazione della sequenza basata sulle vignette rimane, magari combinandosi con gli altri principi, proprio come in questa pagina. Sono infatti immediatamente riconoscibili qui quattro vignette, di cui due colpiscono l’attenzione prima delle rimanenti. Si tratta della vignetta grande quasi quanto la pagina, su cui si appoggiano quasi tutte le altre, che però catalizza l’attenzione del lettore solo per via del grande volto del demone in alto a sinistra; e della vignetta centrale, con il primo piano dell’uomo. I due volti attirano l’attenzione del lettore prima di ogni altra figura sia perché sono volti umani, sia perché occupano i due punti maggiormente qualificati della pagina: l’angolo in alto a sinistra, punto di inizio per la lettura delle tradizionali pagine del fumetto, e il centro, punto di richiamo importante per tutta la visività non sequenziale (come illustrazione e pittura).

Inoltre gli sguardi dei personaggi presenti in questi due punti nodali della pagina sono rivolti l’uno verso l’altro, ed è dunque immediatamente chiaro al lettore, il quale – ancor prima di leggerli – ha visto i balloon affollati di testo, che il tema di questa pagina è il dialogo tra il demone e l’uomo. Questo dialogo è già iniziato nelle pagine precedenti. L’uomo ha trovato per caso una giara sigillata in una grotta, e quando l’ha aperta ne è uscito un gigantesco demone, o genio, il quale è rimasto prigioniero lì dentro mille anni e ha sviluppato una grande rabbia, decidendo di uccidere chi lo tirerà fuori. Ma l’uomo è astuto e lo fa parlare, e alla fine befferà il genio potentissimo ma stupido, salvandosi, divenendo ricco, e richiudendolo per sempre nella giara.

Oltre ai due volti dialoganti, ci sono altre figure nella pagina, sufficientemente nitide quelle inquadrate in vignette, incerte, quasi sfondi insomma, le altre. È solo seguendo i dialoghi che ci accorgiamo che è presente una figura non immediatamente evidente, sulla destra: di nuovo il demone, reso difficile da individuare a causa della scarsa definizione e del colore molto simile a quelli circostanti. Il grosso della pagina, da cui questa figura non si stacca, è costituito dal variegato ma oscuro e informe corpo del genio della vignetta principale, che solo arrivando, dopo la lettura dei balloon, all’angolo in basso a destra, viene ancora riconosciuto come esalazione dalla bocca della giara aperta. In questo modo il genio appare davvero imponente, poiché occupa la quasi totalità della pagina; ma viene creata anche, dall’angolo in alto a sinistra procedendo verso il basso a destra, una progressione dal chiaro verso lo scuro, un’oscurità che poi si rivela essere il fiotto che esce dalla giara.

Dall’angolo in alto a sinistra è comunque evidente pure una progressione diagonale, che attraversa le tre vignette in cui appare la figura dell’uomo. L’immagine del demone a destra rimane percettivamente secondaria anche perché resta fuori da questa diagonale, la quale cattura fortemente l’attenzione e sembra tracciare integralmente la sequenzialità temporale della pagina.

Non capiamo comunque del tutto il gioco visivo di Toppi se non leggiamo il discorso contenuto nei suoi dialoghi, per accorgerci di questo tono così alto, aulico, da favola antica, o da leggenda. Non ci sono didascalie in questa pagina, ma in altre pagine i cartigli sono relativamente frequenti, e il loro registro verbale è lo stesso che troviamo in questo dialogo. Se ora riflettiamo in generale sulla natura delle favole e delle leggende, potremo accorgerci che si tratta di un tipo di racconti che è fatto per essere ripetuto (e ascoltato) più e più volte, in cui lo sviluppo della vicenda (comunque di solito già noto agli ascoltatori) è meno importante della sua ripetizione, la quale ha un carattere rituale, quasi da cerimonia. Non c’è quindi in loro la logica del romanzo o della novella, che ci tengono avvinti per sapere come si sviluppa la storia. Qui infatti, senza che lo sviluppo della storia scompaia o diventi irrilevante, domina piuttosto il ritorno dell’atteso, come in ogni rito che si rispetti. Ma quando l’atteso, pur confermandosi nello sviluppo del racconto, si presenta in ogni momento in forme nuove e sorprendenti, ecco che la situazione rituale si riempie di interesse anche per chi non sia interessato al rito in sé.

Questo è quello che Toppi sembra ribadire in tutte le storie per Linus e Alter, fino a Sharaz-de: lo sviluppo della vicenda, pur non irrilevante, non è certo l’argomento centrale; e il tempo al suo interno può anche, in tanti casi, rivelarsi sospeso, o incerto quanto al proprio ordine. I dialoghi contenuti in queste pagine sarebbero inutilmente lunghi in una logica serrata dell’azione. Ma dove il tempo è sospeso o incerto, è molto più importante la costruzione dell’aura mitica che non quella dell’azione.

Toppi introduce quest’aura per mezzo dei testi verbali, ma la sviluppa e carica di ineguagliabile fascino attraverso la costruzione dei suoi disegni. Certo che una sequenzialità costruita in questo modo è più debole di quella – assai più evidente e facilmente comprensibile – di una tradizionale sequenza di vignette! Ma nella prospettiva di queste storie a fumetti, una sequenzialità incerta può andare benissimo; anzi va meglio di una ben definita. Il tempo fermo, il leggendario, il meraviglioso possono costituire da soli (o quasi) una sufficiente ragione di interesse.

Diffondi questo post:
Facebook Twitter Plusone Linkedin Digg Delicious Reddit Stumbleupon Tumblr Posterous Email Snailmail

Immergersi nella pagina

Immergersi nella pagina

C’è una differenza di base tra la percezione visiva e quella sonora: quello che vediamo è là, di fronte a noi; quello che udiamo è qua, attorno se non addirittura dentro di noi (specie i bassi, che ci fanno vibrare la pancia). Fondamentalmente la percezione visiva è frontale, quella sonora è immersiva. Quando la percezione è frontale, ci troviamo di solito in una relazione cognitiva: il soggetto conosce l’oggetto davanti a lui. Quando è immersiva, soggetto e oggetto tendono a confondersi: non c’è tanto conoscenza, quanto compartecipazione (il filosofo francese François Jullien usa il termine connivenza, ma io credo che la connivenza sia già la consapevolezza – cioè la conoscenza – della compartecipazione, quindi un suo derivato). Ascoltando musica, sentiamo il ritmo, per esempio, e magari lo seguiamo e ci mettiamo a ballare; non è un’attività in sé cognitiva, è piuttosto il partecipare a un’attività cui partecipa chiunque ascolti quella musica. Qualcosa di simile succede ogni volta che fluiamo insieme con ciò che percepiamo attorno a noi.

Detto questo, si può ascoltare frontalmente la musica (come richiede la musica colta, pur mantenendo aspetti immersivi), o ci si può immergere in situazioni visive: il medesimo Jullien ha scritto un libro (Vivre de paysage ou L’impensé de la Raison, Gallimard, 2014) dove si parla essenzialmente della percezione del paesaggio, e del senso di connivenza che essa procura. Inoltre, anche se la compartecipazione non è in sé conoscenza, può essere comunque occasione per conoscere; e, d’altra parte, si può essere compartecipi o conniventi anche su qualcosa che prima abbiamo dovuto conoscere (come succede con tante arti, compresa la letteratura, e compreso il fumetto). Insomma, anche se conoscenza e compartecipazione, frontale e immersivo, sono dimensioni diverse, e diverse relazioni nei confronti del mondo, le troviamo continuamente intrecciate e mutuamente causate. Io credo che sia così perché noi stessi siamo fatti così: sino a un certo punto siamo dei soggetti (come ci voleva Cartesio) che conosciamo il mondo organizzandolo in oggetti; al di là di quel punto siamo noi stessi mondo, e lo siamo assai prima e assai più in profondità di quanto non possa arrivare la nostra soggettività.

Cosa c’entra tutto questo con il fumetto? Il fumetto è interamente visivo, non ha suoni né percezioni di altro tipo. Dovrebbe essere perciò interamente frontale, e quindi cognitivo…

Il fatto è che il fumetto fluisce, scorre, e ha perciò, inevitabilmente, dei ritmi. Con questi ritmi il lettore si può trovare in sintonia. Non che ci si possa ballare: un ritmo narrativo, per esempio, non è fatto per questo. Ma conosciamo tutti la fluida magia di un racconto che scorre bene, e il nostro vissuto del momento con lui.

Non è tuttavia di questo che voglio parlare, perché di questi temi ho già parlato in molte occasioni. Il fatto è che qualche giorno fa, mentre discutevo una tesi in corso di stesura a proposito del fumetto nel Web, opera di una mia allieva ISIA, Claudia Conti, lei salta fuori con un’osservazione che mi fa sobbalzare, dicendomi qualcosa sul fatto che mentre la singola vignetta in sequenza sarebbe sostanzialmente narrativa, frontale, la pagina nel suo insieme sarebbe invece immersiva. Sul momento ero perplesso: sarà davvero così? A una prima veloce riflessione le ho detto che poteva aver ragione; ma poi di riflessioni, più tardi, ne ho fatto molte altre. E, sì, credo che non solo sia davvero così, ma che si tratti di una considerazione importante, che spiega varie cose.

rothko

Light Cloud, Dark Cloud, di Mark Rothko

Leggevo qualche giorno fa, non ricordo dove, qualcosa su Mark Rothko, il quale pare che sostenesse che i suoi dipinti andrebbero guardati da una distanza ottimale di 60cm…

Continua qui, su Fumettologica.

Diffondi questo post:
Facebook Twitter Plusone Linkedin Digg Delicious Reddit Stumbleupon Tumblr Posterous Email Snailmail

I frontespizi di The Spirit e il tempo nello spazio

I frontespizi di The Spirit e il tempo nello spazio

spirit_logo_620 copia

Ho passato un po’ di tempo a riguardarmi i frontespizi di (ce n’è, per esempio, una vasta collezione online qui, ordinati dalla fine, 1952, verso l’inizio, 1940), lasciandomi andare alle libere associazioni di un antico lettore di fumetti. Il risultato è almeno in parte documentato dalle immagini a corredo di questo articolo.

Ce n’è un primo gruppetto in cui affianco un frontespizio del 1940 a una tavola di del 1980. Non c’è bisogno di sottolineare le differenze, che saltano all’occhio. È invece interessante osservare che (e siamo a pochi mesi dall’apertura della serie) introduce una tecnica che permette la composizione sequenziale della tavola secondo una logica che non è quella canonica delle vignette: nello specifico, la lettura della didascalia sotto la testata introduce al titolo , il quale si collega, attraverso il braccio levato che afferra l’ultima lettera, alla ragazza bionda, il cui sguardo conduce allo scimmione vestito in primo piano, che si appoggia sul piano di una banchina che è lo stesso su cui agiscono i due personaggi con cui inizia davvero il racconto, all’interno di una quasi-vignetta, i cui limiti vengono suggeriti da quelli della situazione narrativa e da quelli del rettangolo della dida che la sovrasta.
Analogamente, nella pagina di Toppi la direzione alto-basso e varie linee che costituiscono altrettanti impliciti vettori conducono la lettura.

Eisner_Toppi

C’è un secondo gruppetto, in cui affianco due frontespizi del 1947 e ’48 a due tavole rispettivamente di Gianni De Luca e di . Qui la tecnica è leggermente diversa: c’è un quadro spaziale generale, sopra il quale le medesime figure ricorrono più volte, senza che possano sorgere dubbi sul fatto che non sono compresenze di personaggi diversi, bensì ripetizioni dei medesimi. Sappiamo l’uso straordinario che ha fatto De Luca di questa tecnica nella sua trilogia shakespeariana del 1976,  ed è suggestivo riflettere sul fatto che la rivista Eureka inizia a pubblicare regolarmente The Spirit in Italia nel 1969.
Guarda caso gli esperimenti sia di Toppi che di De Luca iniziano qualche anno dopo. E questo lascia anche capire come non ci sia bisogno di scomodare davvero De Luca per individuare l’ispirazione dell’uso di questa tecnica da parte di Miller nel 1990…

Prosegue qui, su Lo Spazio Bianco

Diffondi questo post:
Facebook Twitter Plusone Linkedin Digg Delicious Reddit Stumbleupon Tumblr Posterous Email Snailmail

Fumetto e funzione poetica

Fumetto e funzione poetica

Roman Jakobson ebbe a dire, parlando della poesia, anzi della funzione poetica, che ”la funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione” (Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli 2002, p. 189). Che sarebbe come dire che, nella costruzione del linguaggio poetico l’equivalenza o la similarità tra gli elementi – parole o sintagmi che siano – possono prevalere sulle regole stesse della successione dettate dalle esigenze sintattiche e narrative. Per cui, ancora in Jakobson, “in poesia l’equazione serve a costruire la successione” (ibidem, p. 192). Per esempio, una parola può essere scelta più per esigenze di rima che per esigenze di chiarezza espositiva e questo può andare benissimo perché la chiarezza espositiva è al massimo un fine marginale della poesia, mentre molto più centrale è il tentativo di creare una rete di rimandi (fonetici, prosodici, semantici…) che si sovrapponga alla sequenza lineare del discorso narrativo o espositivo, sovradeterminandola, ovvero caricandola di ulteriore e ulteriore senso. Certo la condizione ideale è quella in cui la parola-rima viene scelta così magistralmente da apparire anche come la parola migliore per esprimere il senso – ma a volte anche l’evidenza di una leggera forzatura può aggiungere interessanti sfumature di senso.

Perché parlo di funzione poetica proprio qui? Guardate questa tavola dal Little Nemo di Winsor McCay:

Winsor McCay, "Little Nemo" tavola del 21 ottobre 1906

oppure quest’altra (famosissima):

Winsor McCay, "Little Nemo" tavola dell'8 settembre 1907

Non è difficile accorgersi che la forma complessiva della tavola non dipende soltanto dalle esigenze espressive della narrazione. Nella tavola del 1907, per esempio, la coincidenza di posizione e forma tra le colonne della seconda striscia e gli alberi della terza è narrativamente irrilevante; cioè, per quanto riguarda le esigenze di un’efficace narrazione, non ve ne sarebbe alcun bisogno. In quella, sopra, del 1906, c’è una prima striscia in cui dominano le orizzontali, una seconda le diagonali discendenti verso destra, e una terza in cui dominano le diagonali discendenti verso sinistra (linee prospettiche incluse): anche qui questa articolata costruzione non sarebbe necessaria all’efficacia del racconto…

Prosegue qui, su Fumettologica.

Diffondi questo post:
Facebook Twitter Plusone Linkedin Digg Delicious Reddit Stumbleupon Tumblr Posterous Email Snailmail

Di Sergio Toppi e del suo andamento musicale

Sergio Toppi, "Sharaz-de"

Sergio Toppi, “Sharaz-de”

Venerdì sera, al corso sul fumetto che sto tenendo (e ormai volge al termine), parlando di Sergio Toppi ho avuto una piccola illuminazione su di lui. Stavo parlando di Sharaz-de, e del modo in cui Toppi costruisce un effetto mitico, sintetizzando al massimo la storia ma espandendo gli elementi caratterizzanti, sia quelli stilistico-verbali che (soprattutto) quelli grafici. Le figure presenti nelle sue pagine alla fin fine sono molto poche, ma i segni con cui sono disegnate sono moltissimi e fortemente evocativi. L’effetto complessivo è quello di un racconto molto rapido (proprio come sono le favole e le leggende) ma di grande profondità, carico di un’infinità di rimandi potenziali. È come se il racconto, alla fin fine, non fosse che un espediente per far avanzare un meccanismo che, in realtà, vive sostanzialmente di altro.

Questo altro è il sistema delle evocazioni, come succede in poesia, ma come succede soprattutto in musica. È di questo che mi sono di colpo accorto, osservando che, pagina dopo pagina, si ripresentavano figure, forme, dettagli, anche al di là della loro specifica necessità per lo sviluppo della storia. Tutto accade, in queste pagine, come in un brano di musica in cui coesistono vari motivi, che si presentano e poi ritornano a più riprese, intrecciandosi con altri, e con lo sviluppo che la musica sta avendo in quel momento. In certi punti questi motivi ritornano in maniera netta, in altri appena appena accennati, mentre il discorso principale è un altro.

È un modo di lavorare non così diverso da quello che caratterizza la musica di Wagner, per esempio, con i suoi leitmotiv, anch’essa con un sottofondo narrativo (sempre di melodramma si tratta), ma molto più concentrata sull’evocazione musicale che sul racconto.

Guardate, per esempio, nella sequenza di pagine che riporto qui sopra (occorre ingrandire, naturalmente) come ritornano le figure della città, dell’uomo a cavallo, del nastro intrecciato, della lama fortemente ricurva. Al di là della capacità (straordinaria) che Toppi possiede nel costruire le singole pagine, queste ricorrenze forniscono un’unità dinamica al testo. E anche l’assenza o grande scarsità delle vignette, che rende le pagine degli organismi graficamente unitari, contribuisce alla fluidità del risultato, come fosse davvero un giustapporsi di masse e motivi non sonori ma grafici. (E guardate come nell’ultima pagina qui riportata il passaggio dalle tre vignette piccole in alto all’immagine grande del banditore dia graficamente l’idea di un improvviso fortissimo, ancora prima di leggere le parole)

Lo si potrebbe quasi suonare, nel complesso, questo testo…

Diffondi questo post:
Facebook Twitter Plusone Linkedin Digg Delicious Reddit Stumbleupon Tumblr Posterous Email Snailmail

Di Toppi, dopo

Sergio Toppi, "Algarve1460", 1978

Sergio Toppi, “Algarve1460”, 1978

Di pochissimi, o forse di nessun autore di fumetti, mi è capitato di scrivere tanto come di Sergio Toppi, e con tanto piacere. Specie dovendo parlare di fumetti a un pubblico potenzialmente ostile, le immagini di Toppi sono state tantissime volte il miglior viatico possibile per mostrare all’uditorio la misura dei suoi limiti e dei suoi pregiudizi.

Credo che questo non dipenda solo dalla sua abilità grafica, ma anche e soprattutto dal fatto di essere stato capace di innalzare il linguaggio del fumetto a una dimensione epica, dentro la quale hai continuamente l’impressione di essere di fronte a eventi memorabili: memorabili non perché grandi, ma perché simbolici, profondamente rappresentativi, e ciascuno scolpito visivamente e narrativamente come un monumento – ma non quelli delle piazze, nazionalistici o comunque ideologici, ma quelli che celebrano qualcosa del nostro profondo, del nostro intimo, rivestendolo di condivisa magia.

A parlare di qualcuno appena scomparso, è facile cadere nella retorica. E i morti appaiono facilmente come più grandi dei vivi. Credo che Toppi non avrebbe avuto nessun bisogno di morire per apparire così grande. Quando scompare qualcuno così, ci verrebbe voglia di correre da lui e abbracciarlo e dirgli “Grazie”, ma siamo ovviamente in ritardo, e possiamo soltanto raccontare a chi resta che ci sarebbe piaciuto farlo.

Diffondi questo post:
Facebook Twitter Plusone Linkedin Digg Delicious Reddit Stumbleupon Tumblr Posterous Email Snailmail

Dello sguardo e della parola (nelle meditazioni gesuite)

Jerónimo Nadal, Tavola sull’Annunciazione dalle “Adnotationes et meditationes in Evangelia”, 1594

Jerónimo Nadal, Tavola sull’Annunciazione dalle “Adnotationes et meditationes in Evangelia”, 1594

Tanto per restare sui temi di queste settimane, parlando di parola e immagine e dimensione spaziale e visiva, leggo un libro da poco uscito di Andrea Catellani (Lo sguardo e la parola. Saggio di analisi della letteratura spirituale illustrata, Franco Cesati Editore 2009). È un libro di impostazione semiotica, che ha per oggetto di analisi il particolare tipo di comunicazione impostato dal gesuita Jerónimo Nadal nel suo volume Adnotationes et meditationes in Evangelia, del 1594. Il volume di Nadal non contiene solo un’opera fortemente illustrata, ma è anche un’opera sostanzialmente basata sulle proprie illustrazioni. Non solo, infatti, come si può vedere dalla figura sopra riportata, le illustrazioni contengono dei puntatori in forma di lettere maiuscole, che rimandano alle didascalie sottostanti, ma anche il testo continuo delle pagine circostanti si propone come commento più ampio dell’immagine e dei suoi dettagli. Nel libro di Nadal, dunque, l’illustrazione non è solo un commento a un testo verbale altrimenti autonomo, ma anzi, al contrario, è il nodo stesso della comunicazione, del quale il testo verbale rappresenta il commento, la spiegazione, l’interpretazione. Se togliete da questo contesto le figure, le parole cessano di avere senso, perché ne scompare il riferimento; se invece togliete le parole, impoverite grandemente la comunicazione delle immagini, senza tuttavia ucciderla del tutto.

Catellani analizza dettagliatamente il meccanismo di senso del volume di Nadal e di molte delle sue immagini, anche per comparazione con gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, da cui questo libro deriva, e con i lavori di alcuni contemporanei e allievi di Nadal. Lo fa da numerosi punti di vista, perché la macchina comunicativa di Nadal è davvero complessa ed estremamente ricca, e sfrutta numerose potenzialità già note dell’immagine introducendone altre, sufficientemente intuitive da poter essere comprese con poco sforzo dal fruitore.

Lo scopo di queste immagini e dei testi (brevi e lunghi) che le accompagnano non è soltanto informativo-didattico, ma è anche di supporto alla meditazione. Per esempio, l’immagine che ho riportato qui sopra non è soltanto un’illustrazione dettagliata dell’evento dell’Annunciazione, con le sue premesse e conseguenze più importanti, ma anche un’icona dell’Annunciazione stessa, con le sue figure sacre (la Madonna, l’Arcangelo, Dio Padre, Cristo medesimo in croce), e quindi un oggetto che si presta alla devozione e alla preghiera.

Siamo ben lontani ormai dal furore delle discussioni tra iconoclasti e iconoduli che attraversano i secoli prima del Mille, centrate sul sospetto di idolatria che l’adorazione delle immagini sacre porta comunque con sé. È un dibattito che segna profondamente il destino delle immagini (sacre e profane) in Occidente, e si risolve nella decisione di considerare le immagini come rappresentazioni della natura mortale (per esempio) di Cristo, che a sua volta viene presa come simbolica di quella divina. Adorare le immagini viene riconosciuto dunque come lecito, purché si riconosca all’immagine questa natura di semplice e imperfetto tramite simbolico, attraverso il quale si può far riferimento al trascendente. Se pensiamo che l’Islam non arriverà mai a una conclusione di questo genere, e l’immagine sarà per sempre bandita dal suo universo, capiremo che cosa significhi questa decisione per la cultura europea.

Il Gesuita Nadal, molti secoli dopo, agisce in un contesto in cui questa natura imperfettamente simbolica dell’immagine è data ormai per scontata, ma sta probabilmente proprio in questa imperfezione la possibilità delle immagini di articolarsi in racconto, in spiegazione, in una moltitudine di varietà di tramiti nei confronti del divino.

Catellani ci fa osservare come, in una figura come quella dell’Annunciazione di Nadal (che vedete qui sopra), l’evento centrale dell’apparizione dell’Arcangelo Gabriele alla Madonna sia circondato da una serie significativa di altri dettagli ed eventi, e ciascuno viene identificato da una lettera, che a sua volta rimanda alla legenda sottostante. In questo modo la successione ordinata alfabetica rimanda a un percorso di lettura preferenziale dell’immagine, che parte (A) dall’incarico dato a Dio Padre all’Arcangelo, che continua (B) con la presa di costituzione materiale dell’Arcangelo al suo ingresso nel mondo e (C) con la discesa della luce divina su Maria, che focalizza (D) l’attenzione sulla casa di Maria subito prima di presentarci l’evento centrale dell’Annunciazione medesima (E), per poi passare alle premesse prime di tutto questo, cioè (F) la creazione di Adamo, e alle conseguenze (G) cioè la crocefissione, sino all’annuncio dell’incarnazione del Cristo (H) che l’angelo porta alle anime del limbo.

La precisione con cui la sequenza delle lettere conduce l’attenzione del fruitore ha carattere didascalico, e permette di leggere l’immagine come un percorso narrativo, una sorta di fumetto, dove il racconto (come in tante tavole di Sergio Toppi, per esempio) si trova non articolato per vignette (cioè per riquadri separati) ma per aree differenti dello stesso spazio in cui agiscono dei vettori impliciti che conducono lo sguardo e l’attenzione a trascorrere dall’una all’altra rivelando la successione degli eventi. Anche qui sono presenti dei vettori impliciti, ma la successione alfabetica li rinforza con la sua inequivocabilità.

Ecco dunque che l’Annunciazione non è più presentata come un semplice evento unitario, ma come l’evento focalizzato (in quanto degno di devozione anche in sé) all’interno di una catena narrativa assai ampia. Il gesuita che fa uso del libro di Nadal per le proprie devozioni non sta dunque adorando l’evento in sé, bensì quell’evento come segno di tutta la catena degli eventi che hanno portato Cristo in Terra a redimere l’umanità, una catena che rimanda comunque a Dio.

L’immagine, con le sue dimensioni spaziali, diventa il contesto a cui la parola gira intorno, e in cui la parola trova senso. Per quanto imperfetto, è l’immagine l’oggetto di adorazione e spiegazione, rispetto a cui la parola è un semplice ausilio. L’immagine è insieme un diagramma del racconto, su cui si inserisce il discorso verbale, e l’imperfetta ma decisiva rappresentazione del divino, ed è quindi insieme temporalità (umana) e intemporalità (divina).

Il resto del discorso lo lascio alla lettura del testo di Catellani, che spero di non aver tradito troppo, in questa mia (partigiana) rilettura di una piccola parte delle davvero tante prospettive da cui riesce a osservare queste intriganti figure.

Diffondi questo post:
Facebook Twitter Plusone Linkedin Digg Delicious Reddit Stumbleupon Tumblr Posterous Email Snailmail

Su Facebook

Dalla timeline
di Daniele Barbieri

[fts_facebook type=page id=danielebarbieriautore posts=12 height=1600px posts_displayed=page_only]