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Riflessioni da una spiaggia isolata di Kalymnos

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Ecco. Mi trovo qui. Ho camminato per più di un’ora sotto il sole greco, per sentieri mal tracciati e pieni di sassi, un paio di volte scivolando, passando di fianco a un’immensa cavità naturale sul fianco della montagna, un buco che finisce, verso l’alto, con una gigantesca caverna, profondo oltre venti metri dove lo è di meno, pieno di stalattiti e stalagmiti. E adesso sono qui, al bordo dell’acqua del mare appena ondulato, trasparentissimo, all’ombra di una piccola scarpata (e non so quanto quest’ombra durerà), con una lieve brezza. Non fa troppo caldo. Si sta bene.
Sto cercando, se non si era capito, di dare un senso a quello che sto vivendo. Dare un senso significa poter trasmettere a qualcun altro l’esperienza, significa rendere umano il mondo che ci circonda. Lo faccio scrivendo, scattando una foto per poterla mostrare. Se potessi, registrerei i suoni, gli odori, le sensazioni del sole e del vento sulla pelle.
Eppure, per chi mi legge, tutto questo prenderà vita solo nella misura in cui ha già provato, in qualche momento precedente, qualche esperienza che le mie parole, le mie immagini (e suoni, odori registrati, se ci fossero) possano richiamare. Se non avete già vissuto qualcosa di analogo, quello che dico o che mostro rimane informazione astratta, non evocativa. Magari, se per qualche motivo rimane in memoria, potrà diventare evocativa in futuro, una volta che l’esperienza analoga sia stata vissuta: è questa la sorte di tante parole che solo in seguito ci accorgiamo di non aver capito, o non capito del tutto in passato.
Scrivo queste parole, in realtà, perché la cosa che mi ha colpito arrivando in questo luogo e guardando, rapito, la trasparenza dell’acqua sui sassi, è stata l’improvvisa consapevolezza che avrei dovuto rinunciare a darle un senso – o, perlomeno, che qualunque senso le avessi dato, sarebbe stato parziale e fuorviante. Potevo fotografare, descrivere a parole (e l’ho fatto, e continuerò a farlo), e la mia qualità di fotografo e descrittore verbale sarà maggiore o minore, sapendo provocare in misura maggiore o minore reazioni in coloro che guardano le mie immagini o leggono o ascoltano le mie parole. Questo va fatto; è necessario: dare senso al mondo è ciò che ci permette di viverlo.
Ma la consapevolezza che questo processo di dar senso è inevitabilmente, necessariamente incompleto, è qualcosa, in verità, di quasi doloroso. Significa che quello che sto vivendo non può essere veramente acquisito, ridotto a me. Non me lo posso portare con me, per passarlo magari ad altri. È vincolato al qui e ora, all’esser qui, al sentire bruto. Condannato come sono io al capire, il toccare con mano la banalità del non capire quello che comunque sento intensamente, che sento in maniera quasi bruciante, è quasi un dolore, certamente un’ansia, un lutto.
Elaborare questo lutto vuol dire rassegnarsi all’impossibilità di dare un senso a quello che sto vivendo. Qualsiasi senso io possa dare sarebbe comunque la trasformazione di quello che sta attorno a me in una materia nuova (immagini su un supporto, parole, registrazioni di vario tipo), la quale comunque produce le sue percezioni, e trasmette, insieme con il mio, altri sensi suoi – e magari qualcos’altro ancora di non riducibile al senso.
Rassegnarsi all’impossibilità del senso (pur dovendolo produrre) è qualcosa che mi ricorda qualcosa che viene ripetuto in varie discipline orientali, tra cui lo yoga: “non giudicare”. Però è molto più di questo. Giudicare è una forma di senso già molto elaborata: posso aver già prodotto molto senso, senza aver ancora giudicato. Se scatto una foto, la foto sta già dando senso al mondo, ma ancora non lo giudica. Eppure, come abbiamo visto, la foto stessa non basta: qui attorno c’è infinitamente di più di quello che essa può mostrare.
La direzione è comunque quella indicata dal “non giudicare”, ma andando più in là: rassegnati a non poter dar senso. Stai lì e vivi. Quello che possiamo sperare è che tutto questo che ci sta attorno e che indubbiamente ci colpisce senza che siamo capaci di renderne conto dandogli senso, agisca comunque su di noi, e contribuisca magari indirettamente alla formazione di altro senso futuro, magari solo perché di fronte alla descrizione fatta da qualcun altro, saremo in grado di rivivere questo groppo di sensazioni e di emozioni.
C’è, nel fare poetico, sempre la speranza non tanto di rendere la sensazione vissuta in un certo momento (il che sarebbe comunque perdente) quanto di costruire una sensazione che, attraverso il senso, paradossalmente, sappia creare una situazione in cui il lettore si trovi a esperire di più di quello che riesce a trasformare in senso, e viva il piccolo dramma che oggi io ho vissuto qui. Poiché si tratta di poesia, e non di natura, il dramma sarà però catartico, e non tragico: non capire la natura attorno a noi ci può uccidere; non capire la poesia non ci uccide mai, e quando capiamo perché non capiamo, la cosa è persino didattica, e certamente già umana, a sua volta già dotata di senso.

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