Da tempo volevo riprendere un tema che ritengo importante, quello del carattere tipografico, che avevo già aperto qualche mese fa in un post intitolato Del carattere lineare e del sublime nell’arte. È un tema importante perché di difficile definizione, e perché si trova ai confini del senso. Sono difficili da definire anche, singolarmente, i due corni stessi del problema, che potremmo denominare come la questione della leggibilità e quella dello stile. Parlare di leggibilità significa escludere che il carattere tipografico debba trasmettere autonomamente del senso: tra le sue proprietà vi sarà infatti anche quella di veicolare al meglio le parole scritte, alle quali spetta interamente la costruzione del significato, senza interferenze e distrazioni. Parlare di stile significa invece riconoscere al carattere tipografico una componente di senso, che andrà ad aggiungersi o combinarsi con quelle più propriamente verbali, anche a costo di togliere al lettore una qualche componente di attenzione.
Sono proprio questi i termini del dibattito che, nella Svizzera degli anni Cinquanta, patria di una rivoluzione nel campo della grafica, contrappongono Jan Tschichold a Max Bill e Emil Ruder. Tschichold era stato negli anni Trenta uno dei più attivi sostenitori del rinnovamento grafico ispirato dal Bauhaus, ma aveva poi assunto posizioni più umanistiche, a partire dalle quali aveva già avuto uno scontro molto duro con Bill, a sua volta allievo del Bauhaus, e fiero assertore di un design razionalistico. Ruder era a sua volta uno dei principali rappresentanti della nuova grafica svizzera, ispirata dalle posizioni di Bill.
Per Tschichold il carattere tipografico non deve esprimere nulla, tantomeno lo spirito del tempo, come vorrebbero invece i nuovi grafici svizzeri; deve piuttosto preoccuparsi di “essere adatto ai nostri occhi e al loro benessere”. Tschichold, proprio per questo, sostiene la migliore qualità dei caratteri aggraziati, mentre le scelte della nuova tipografia (comprese le sue stesse del passato) sono coerenti con una civiltà delle macchine sostanzialmente alienante – e, al limite, legate alla medesima radice oppressiva da cui è sorto il nazismo.
Trovo la posizione di Tschichold per molti versi condivisibile e per qualcuno un po’ eccessiva, anche se la verve polemica del momento probabilmente la giustifica un po’ di più di quanto non possa essere evidente oltre sessant’anni dopo. Voglio dedicare questo post a ripercorrere brevissimamente la storia di alcuni caratteri lineari di impostazione razionalista particolarmente significativi, e il loro uso.
È lo stesso difetto che ha portato, sui nostri computer, a sostituire l’Arial (pressoché identico all’Helvetica) con il Verdana, che è più largo e meno sensibile quindi alla concentrazione di linee verticali. (testo composto in Arial)
Insomma, non c’è nessuna sublime semplicità in loro, e non possono essere utilizzati come manifesto di una qualche posizione. La loro complessità deriva da un intelligente ripensamento della tradizione, con tutta la sua – a sua volta – complessità. Io credo che nessuna semplicità razionale, per quanto sublimemente razionale o progressista che sia, possa corrispondere a una natura complessa come quella umana, specie quando c’è di mezzo quel mondo ancora più complesso che è quello del significato.
P.S. Ho cercato, nelle figure e nei testi, di dare un’idea il più precisa possibile dei vari caratteri e del loro effetto nei blocchi di testo. Bisogna sempre tener presente, comunque, che l’effetto di un carattere a schermo dipende sempre non solo dalla sua invenzione originale,ma anche da come quella è stata poi resa nella versione del font digitale. Inoltre, per ragioni varie tra cui certamente anche la differente risoluzione, la resa a schermo dei caratteri è sempre differente di quella a stampa.
Interessante e condivisibile. Non ho conoscenze storiografiche della tipografia ma la pratica mi ha insegnato che in genere i tipi di carattere si distinguono nettamente per la loro adeguatezza ai titoli piuttosto che ai blocchi di testo, direi che sono due oggetti tipografici differenti. E quelli che presentano un’elaborazione stilisitca sofisticata di solito non sono adatti ai blocchi di testo perché mancano di tutte quelle caratteristiche geometriche e quindi gestaltiche che li rendono sostenibilmente leggibili. In un qualche modo ho sempre pensato che le connotazioni stilistiche del font usabili nei titoli potessero sposarsi ed enfatizzare la loro sintesi concettuale. Sarebbe interessante pensare alla possibilità di progettare un font che ha una versione per i titoli (o insegne, naturlamente) e una per i blocchi di teso. Ma magari è gia stato fatto e io non lo so…
Osservazioni molto acute e pertinenti. A margine, la casa editrice Sinnos ha sciluppato un proprio font altamente leggibile, destinato a libri per bambini con problemi di dislessia. È tutto fuorché ‘razionale’, punta a massimizzare le differenze tra caratteri usando un ristretto gruppo di segni marcacatori (non so se i termini sono semioticamente accettabili, ma spero si capisca ciò che intendo!). Trovo che questa sia una magnifica risposta concreta a quella sorta di ideologia (per altro importantissima) che fu il razionalismo…
Bella questa cosa del font per dislessici. Purtroppo ne so troppo poco di dislessia per poterne valutare il valore effettivo. Ho visto la pagina in cui la Sinnos lo presenta. A parte che potevano anche mettere un’immagine con il testo composto in Leggimi! in modo da poter valutare l’effetto sul blocco di testo. Dei tre principi su cui si basa il font, i primi due mi convincono, mentre il terzo un po’ meno. Forse i dislessici hanno davvero questo problema, però io non capisco come gli assottigliamenti possano provocare confusione. A me sembra il contrario, semmai: se posso giocare anche sulla modulazione della linea, ho un parametro in più per diversificare le lettere.
Ripeto: è possibile che questa scelta vada davvero incontro a un problema del dislessico (o disgrafico), però io ci sento puzza di razionalismo tipografico (con tutti i suoi comunque riconosciuti meriti).