Mazzucchelli è una strana bestia americana che di europeo non ha solo il cognome. Ora che è sufficientemente lontano dai precedenti superomistici dei suoi esordi, piano piano salta fuori tutta la sua passione per Joost Swarte e per la ligne claire francese, e ogni tanto sembra quasi di guardare Jean-Claude Floc’h. Ma siccome Mazzucchelli è un grande autore, tutto questo è diventato molto suo. Anzi è persino diventato l’oggetto, quasi il tema del suo racconto.
Asterius Polyp è un architetto, dai principi funzionalisti, talmente estremo nella propria adorazione della razionale teoria, che di fatto non ha mai costruito nulla, e i numerosi premi e riconoscimenti importanti che ha ricevuto sono stati tutti per progetti rimasti sulla carta. La sua stessa vita, il suo atteggiarsi, il suo vestire, sono ugualmente improntati ai suoi principi, secondo i quali ciò che non ha una funzione è decorazione (e la decorazione, lo sappiamo senza che ce lo dicano né Mazzucchelli né Polyp, per il funzionalismo è un delitto).
Questo prodigio di razionalità è ovviamente un freddo anaffettivo, tanto brillante e seduttore in società, quanto incapace di relazionarsi davvero con un’altra persona, troppo pieno della propria intelligenza per accorgersi che ce ne sono altre e diverse. Almeno finché non incontra Hana, la timida scultrice.
Guarda caso, questa dialettica tra funzionalismo razionale e sentimento è la stessa che caratterizza proprio la ligne claire. Quando Swarte ci dice che il segno grafico di Hergé elimina tutto quello che non è funzionale alla storia che sta raccontando, sta esprimendo principi simili ad Asterius Polyp – con la differenza che la materia cui il disegno del fumetto si applica non è quella dei principi rigorosi della scienza delle costruzioni, ma quella già sfumata e sporca del racconto. Per questo poi i migliori autori ligne claire non appaiono affatto freddi – e persino Chris Ware, che di questa tendenza è il maestro americano, e più estremo di qualsiasi europeo, non fa che raccontare profondi sentimenti, cui il gelo razionale, funzionalista, esattissimo delle immagini aggiunge una straniante dimensione rivelatoria.
Mazzucchelli non è però Chris Ware. Fin da principio il suo segno è più volutamente sporco e trasuda passione sotto il vincolo funzionale. Così, in questa storia, è il segno stesso, insieme con il colore, a determinare i personaggi e i loro stati d’animo. Asterius in persona e il suo mondo sono, di quando in quando, di un freddo azzurro da prova cianografica, disegnato con linee nette (da ligne claire estrema) che spesso definiscono i corpi come insiemi di solidi articolati (come se fossero manichini, come si fa per definirli chiaramente nella loro composizione plastica); Hana e il suo mondo sono invece rosa o rossi, tracciati con una grande quantità di linee sfumate e rotondeggianti – l’antitesi stessa della ligne claire. Mentre il mondo normale in cui Asterius precipita dopo il disastro da cui ha inizio il racconto ha colori grigi e gialli, tracciati con una linea semplice ma non troppo pulita.
Tra queste tre tonalità e modalità si snoda tutta la storia, che è una specie di romanzo di formazione, quelli in cui il protagonista deve passare attraverso delle prove per arrivare a capire, e diventare davvero uomo. In questo romanzo le prove sono delicate e ironiche, e il dramma di Polyp sempre solo suggerito senza ostentazione. L’immersione nel mondo della vita è necessaria per rendersi conto dei limiti dell’astrazione, per capire i limiti del funzionalismo, per rendersi conto che l’utopia della perfezione razionale nasconde con facilità il mito personale della propria inarrivabile superiorità, inattaccabile perché difesa dai baluardi della ragione – quando proprio questa ragione è già minata da dentro alle origini. La ragione è strumentale, ci ricorda qualcuno, non fondazionale: cioè insostituibile come strumento per raggiungere degli scopi, ma inutile per fondarli alla base, quegli stessi scopi.
Questo è il racconto che Mazzucchelli ci fa, con intelligenza, sensibilità, molta strumentale razionalità, una invidiabile capacità grafica, e un forte senso del ritmo del racconto, capace di rendere forti e grandi delle cose piccole – un po’, ma girato al contrario, come quando riportava sulla terra col suo segno terroso i miti superomistici di Batman e Daredevil, molti anni fa.
P.S. Se volete altre interessanti opinioni su Asterius Polyp, sul blog Conversazioni sul fumetto ne stanno programmaticamente uscendo numerose, sin’ora tutte davvero interessanti. Invece sulla polemica tra fumetto popolare e d’autore emersa nella conversazione seguita al primo intervento (di Andrea Queirolo) direi che ho dato implicitamente risposta col mio post di lunedì scorso. Aggiungo solo – a margine – che non credo che le parole di Eco lì riportate fossero una critica al fumetto d’autore e un rimpianto del fumetto popolare, ma semplicemente una considerazione su quanto è cresciuto il fumetto, che, a quanto mi pare stia dicendo Eco, può arrivare persino a condividere talvolta con la letteratura verbale certe difficoltà di comprensione. Mi pare una semplice constatazione di fatto, non una presa di posizione in nessun senso.
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