Perché il lettering azzarda così poco

Perché il lettering azzarda così poco

Mi sono ritrovato a pormi una strana domanda, una di quelle che di solito non ci si pone perché le cose stanno così e non sentiamo un particolare desiderio di cambiarle – e di quello che per noi è normale, come ci insegna Wittgenstein, nemmeno ci accorgiamo più. In questo caso la domanda riguarda proprio ilperché le cose stiano così, e perché non sentiamo il desiderio di cambiarle, se non occasionalmente, in circostanze particolari o visibilmente eccezionali. A queste circostanze particolari appartengono i tre esempi che ho voluto mostrare qui.

Andrea Pazienza, The legend of Italianino Liberatore 2, p. 8

Il problema, evidentemente, riguarda il lettering, e la domanda è: perché, con poche eccezioni, il lettering nel fumetto è da sempre così standardizzato? Certo, vi sono varianti individuali (come quello, bellissimo e personalissimo, di Dino Battaglia), però, all’interno di quella variante la standardizzazione agisce di nuovo. Perché, insomma, non si usano le innumerevoli varianti grafiche della scrittura che pure sarebbero possibili e facili da produrre per caratterizzare gli aspetti espressivi delle parole dei personaggi, che pure saranno espresse con qualche tono emotivo nel mondo rappresentato? Visto che, giustamente, il bravo disegnatore caratterizza le espressioni del viso e del corpo a seconda del tono emotivo del personaggio, perché mai (con rare eccezioni) il bravo letterista non fa lo stesso con le parole dei suoi balloon?…

Prosegue qui, su Fumettologica.

Diffondi questo post:
Facebook Twitter Plusone Linkedin Digg Delicious Reddit Stumbleupon Tumblr Posterous Email Snailmail

Del saper guardare le parole, o di Marco Ficarra

Pogo, di Walt Kelly

Pogo, di Walt Kelly

Raramente guardiamo le parole. Tutto il processo di scrittura è mirato a far sì che le leggiamo, non che le guardiamo. E leggere vuol dire passare oltre, cioè passare direttamente dalla parola scritta al suo suono o, ancora più spesso, da otto o nove secoli a questa parte, al suo senso.

La forma grafica della parola è quindi presente, ma apparentemente ignorata, perché l’attenzione del lettore è concentrata altrove, sul senso, o al massimo (ma già raramente) sul suono evocato. Eppure, proprio per questo, quella forma grafica può agire indisturbata sul lettore, trasmettendogli una gran quantità di senso senza che la sua attenzione, concentrata altrove, possa valutare o filtrare. Non si tratta solo (ma certo anche) di maggiore o minore facilità di lettura (in termini cioè di leggibilità ottica); però anche questo ha il suo peso: rendere, per esempio, otticamente faticosa la lettura di un testo verbale significa associare a quella lettura un senso di fatica e fastidio – e non è detto che il lettore sia capace di dissociare questo senso da quelli trasmessi dalle parole. Al di là della leggibilità, poi, la scelta del carattere, tipografico o calligrafico, è qualcosa che caratterizza inevitabilmente il testo scritto, anche al di là della convenzionale irrilevanza che gli attribuiamo, abituati come siamo a vedere le medesime parole potenzialmente stampate in forme editoriali diverse.

Quando dalla scrittura autonoma si passa alla problematica della scrittura all’interno del fumetto, la questione diventa evidentemente ancora più rilevante. Ho avuto occasione di sostenere che i fumetti, nel loro complesso, si leggono (cioè, non si guardano), tuttavia ho anche sempre spiegato che questa lettura (che è tale, perché il fumetto è un linguaggio sequenziale, che mira a raccontare una storia) non si può basare sull’oblio del guardare, come quella del romanzo puramente verbale, perché si tratta di una lettura che ha alla sua base proprio il guardare, e le sue regole. In altre parole, il lettore di fumetti, a differenza di quello di sequenze verbali, non può mai trascurare le forme grafiche, perché la base del racconto è esattamente quella, e il processo di interpretazione di base è sin dall’inizio più complesso di quello, convenzionalizzato, della parola.

Saper guardare i fumetti, per poterli leggere, vuol dire non limitarsi a vedere le immagini come riproduzioni di scene del mondo reale, ma a capire la loro natura specifica di forme grafiche, cioè forme disegnate.

Tra queste forme disegnate ci sono quelle del lettering, figura tra le altre in un contesto che chiede di essere guardato. Per questo motivo, la questione del lettering del fumetto è più diretta, più facilmente comprensibile, più immediata per il pubblico, della questione del lettering in generale, cioè delle scelte tipografiche della stampa.

Marco Ficarra, Manuale di lettering, TunuéHo apprezzato moltissimo l’approccio di Marco Ficarra, sin da quando sono stato un fortunato beta reader di questo suo Manuale di lettering. Le parole disegnate nel fumetto (Tunuè 2012). Ficarra inizia il suo libro con una breve storia della scrittura, dalle origini alla romanità, e poi dalla romanità ai giorni nostri, sino alla tipografia e calligrafia novecentesche. In questo modo, la questione del lettering nel fumetto si trova ben inquadrata in una storia dove la scrittura mostra il proprio primitivo rapporto con l’immagine, e la sua mai completa separazione da quella dimensione.

Il titolo non deve trarre troppo in inganno. Delle circa 200 pagine che compongono il volume, le seconde 100 sono davvero un prezioso manuale per chi voglia cimentarsi con il lettering del fumetto, sia a mano che informatizzato, con i vantaggi e gli svantaggi, le possibilità e le difficoltà dell’uno e dell’altro approccio. Ma le prime 100 sono di grande interesse anche per chi desideri soltanto comprendere un aspetto così importante e così marginalizzato del fumetto.

Avete mai pensato, per esempio, all’importanza della posizione del balloon rispetto alle figure in una vignetta e nella sequenza di una tavola? O alla forma di balloon e didascalie? O all’importanza dell’ingombro del testo scritto all’interno del balloon? Sembrano questioni da tecnici, ma quando Ficarra ve le spiega, e ve ne mostra lì le diverse possibilità, capite immediatamente non solo che ci sono forme corrette ed errori, ma anche che, nell’ambito di ciò che è di principio giusto, ci sono anche  forme più o meno adatte a quello specifico contesto grafico, e non esiste una correttezza a priori, perché posizione e forma del lettering qualificano ciò che vedete non meno delle figure che le accompagnano.

Se non avete ambizioni di letterista, le prime 100 pagine del libro sono comunque una ragione sufficiente per leggerlo (fosse solo per la grande abbondanza di esempi analizzati). Tuttavia, una scorsa veloce alle successive 100 permette anche di capire che informatizzazione del lettering non vuol dire necessariamente prodotti più uniformati e meno curati. Certo, il computer e i suoi programmi ci aiutano a risparmiare lavoro, e questo non è poco. Tuttavia, quando si fanno le cose per bene, ci permettono anche di ottenere risultati che a mano sarebbe difficile ottenere, mantenendo la varietà e l’efficacia necessarie.

In altre parole, la puntigliosità didattica (e chiarezza esplicativa) di Ficarra ci fa capire che il computer non è che uno strumento, e che la qualità del risultato dipende da come lo utilizziamo. Con il computer possiamo utilizzare l’orrido Comic Sans, e distruggere la qualità visiva di qualsiasi fumetto; ma possiamo anche ottenere i raffinati risultati di Manuele Fior o di David Mazzucchelli. Dipende solo da noi.

Diffondi questo post:
Facebook Twitter Plusone Linkedin Digg Delicious Reddit Stumbleupon Tumblr Posterous Email Snailmail

Di Pogo e Barnaby, o della parodia della tipografia

Pogo, di Walt Kelly

Pogo, di Walt Kelly

Pogo contiene stupendi esempi di parodie di tipografie espressive. Per esprimere l’eloquio fiorito (sempre in campagna elettorale) del politico locale Mr. Bridgeport, Kelly mette in scena un intero campionario di caratteri ottocenteschi, quelli dei manifesti americani del West, e rappresenta i suoi balloon come se fossero striscioni di propaganda. Tuttavia, per restare in tono con lo spirito disegnato della striscia, non usa questi caratteri nella loro versione naturale a stampa, ma li disegna a loro volta a mano.

L’effetto, oltre quello di parodiare ferocemente il politico americano medio (di destra), che parla per esclamazioni di giubilo e luoghi comuni, è quello di farci vedere come anche la tipografia faccia parte del panorama della parola, e connoti fortemente le epoche e i ruoli sociali. Analogamente, infatti, il canto un po’ ridicolo della tartaruga Churchy Lafemme viene reso da un carattere minuscolo di ascendenza medievale, forse non troppo dissimile da quelli che avrebbe usato un William Morris per stampare un’antica ballata.

Pogo, di Walt Kelly

All’estremo opposto di Pogo, da punto di vista del lettering, sta Barnaby, di Crockett Johnson. Allo stile estremamente lineare del disegno, privo di qualsiasi dettaglio che non sia essenziale, e ossessivamente riportato alle rotondità dell’infanzia, viene accostato un lineare tipografico freddo in alto-basso, appena appena riscaldato dall’essere in versione obliqua (un Futura Heavy italics, presumibilmente). Niente lettering disegnato dunque: mentre Kelly disegna persino i caratteri a stampa, Johnson opta per la tipografia là dove non la usa nessuno.

Non è una scelta dettata da principi di economia (come sarebbe successo poi per tanti altri fumetti, con risultati spesso degradanti), ma anche qui una scelta espressiva. Il carattere con cui sono scritti questi dialoghi è lineare e neutro quanto il disegno di Barnaby, e, proprio come per il disegno, la sua scarsa espressività serve a mettere in evidenza le infinite sfumature dei discorsi e delle situazioni di questo piccolo capolavoro della comic strip americana.

È la stessa strategia dell’understatement che adotterà vittoriosamente Charles M. Schulz qualche anno dopo: rendere neutri o insignificanti un sacco di fattori su cui normalmente nel fumetto si gioca, in modo da fare emergere più chiaramente altri fattori, che altrimenti non potrebbero essere notati.

Per la storia del fumetto di quegli anni, da questo punto di vista Pogo rappresenta magistralmente il passato, e Barnaby il futuro. (Certo che se poi si allarga la vista a tempi più ampli e ad altre considerazioni stilistiche, diventa assai più difficile decidere chi sia stato alla fine il più progressista dei due. Ma credo anche che, se si generalizza troppo, il problema smetta davvero di avere senso.)

L'annuncio pubblicitario di Barnaby, di Crockett Johnson, 19 Aprile 1942

L’annuncio pubblicitario di Barnaby, di Crockett Johnson, 19 Aprile 1942

Diffondi questo post:
Facebook Twitter Plusone Linkedin Digg Delicious Reddit Stumbleupon Tumblr Posterous Email Snailmail

Del lettering nel fumetto

Dino Battaglia, Maupassant, Due amici, p.4

Dino Battaglia, Maupassant, Due amici, p.4

Questa settimana parlo solo di caratteri, e il tema è di grande importanza anche per il fumetto. La leggibilità di un carattere è un requisito necessario, ma quando il carattere è usato per testi brevi una parte della sua leggibilità può essere anche sacrificata alla sua (chiamiamola così) espressività visiva (o espressività grafica): se per il corpo del testo di un romanzo o di un saggio la scelta del carattere va fatta tra quelli che garantiscono la massima leggibilità (poiché mentre si legge il carattere deve diventare trasparente, garantendo la totale attenzione al flusso delle parole), viceversa in un titolo o in una insegna o in una comunicazione pubblicitaria, la componente espressiva visiva del carattere può manifestarsi di più, sino a diventare predominante.

Poiché il fumetto comunica visivamente ancora prima che narrativamente (cioè per leggere il racconto è necessario aver guardato le immagini), la componente espressiva visiva dei caratteri ha comunque una grande importanza. Ce l’ha anche quando siamo vicini al livello qualitativamente più basso: persino il lettering più neutro e banale, per esempio, si fa per convenzione in maiuscolo – e il maiuscolo è notoriamente meno leggibile del minuscolo. Anche il lettering più neutro e banale, dunque, manifesta una qual continuità stilistica visiva con le linee del disegno circostante. Come minimo, insomma, queste lettere disegnate a mano (almeno in apparenza, spesso) manifestano la propria appartenenza al medesimo mondo grafico delle figure rappresentate vicino a loro.

Guarda caso, il passaggio dalla narrazione per immagini ottocentesca al fumetto vero e proprio negli USA di fine secolo è caratterizzato anche dalla nascita di un lettering disegnato – ben diverso da quello a stampa delle didascalie. Il carattere a stampa, evidentemente, dichiara pure in maniera grafica la propria appartenenza a un mondo diverso da quello delle figure disegnate: è un commento esterno, a cui corrisponde una finestra visiva. Nel fumetto, viceversa, noi siamo già, leggendo, nel mondo dietro a quella finestra, e il lettering manuale ci mostra di far parte pure lui di quel medesimo mondo.

Dino Battaglia script

Dino Battaglia script

Se passiamo dall’uso elementare del lettering a usi più raffinati, ci possiamo accorgere di quanto grande possa essere il contributo della forma delle lettere all’effetto visivo complessivo. Immaginate di sostituire questo lettering molto particolare di Dino Battaglia con uno più standard, anche se sempre disegnato. Se lo facessimo, ci accorgeremmo immediatamente di come ne risulterebbe stravolto l’equilibrio compositivo della pagina (qui riprodotta all’inizio del post).

Le lettere di Battaglia hanno lo stesso stile “graffiato” delle sue figure, ottenuto attraverso l’uso di un pennino sottile a punta dura. Un lettering più morbido metterebbe i testi scritti (balloon e didascalie) nettamente in evidenza sul resto della pagina, a causa della loro diversità. Anche se risulterebbe magari più leggibile finirebbe per essere messo troppo in evidenza.

Anzi, si ritroverebbe a essere in evidenza due volte: una, come già detto, per la sua diversità dal grosso dell’immagine; l’altra perché la sua maggiore leggibilità inviterebbe il lettore a privilegiare il testo rispetto alle figure, ma non è questo che l’autore vuole. A queste figure bellissime ma di decifrabilità non immediata deve corrispondere per forza un font che richiede qualche (piccolo) sforzo di lettura: comunque questa è una storia a fumetti, cioè una storia in cui è l’immagine a dover avere un peso determinante.

Andrea Pazienza, The Legend of Italianino Liberatore 2, p.8

Andrea Pazienza, The Legend of Italianino Liberatore 2, p.8

I medesimi principi di fondo sortiscono un effetto tutto diverso nel lavoro di Andrea Pazienza, che disegna con la punta morbida di un pennello o pennarello, giocando su bruschi cambiamenti di tonalità, e masse di bianco e di nero. Il lettering di Pazienza è una componente essenziale del suo disegno, praticamente inseparabile, composto di linee che sono esattamente le medesime linee, con i medesimi andamenti grafici, delle linee delle figure, e persino delle linee di contorno dei balloon.

La leggibilità è forse ancora più bassa che nel caso di Battaglia, ma l’espressività è straordinaria, ed è questa riduzione della dimensione verbale alla dimensione visiva del disegno a dare al lavoro di Pazienza una coerenza e un’efficiacia ineguagliabili. Sostituite questo lettering con uno più standard e non avrete ridotto, ma distrutto il lavoro di Pazienza.

Andrea Pazienza script

Andrea Pazienza script

D’altra parte, lui stesso è acutamente consapevole della necessità di alternare momenti in cui il lettering è sostanzialmente regolare a momenti in cui esso esplode graficamente. Tuttavia, anche dove il lettering di Pazienza è regolare esso esprime una notevole attenzione espressiva: la sua fattura manuale è sempre ostentata; sembra cioè che sempre esca direttamente dall’animo ironico del suo autore. Ed è per questo che la sua enfatizzazione, quando avviene, appare così naturale.

Leggendo Pazienza, paradossalmente, è come se seguissimo la voce di un narratore, che esprime le emozioni con i toni mentre racconta i fatti con le parole. Solo che la voce di Pazienza è il segno grafico, e questo segno si manifesta esattamente al medesimo modo nelle figure e nel lettering, tramite le quali, al contempo, ci mostra i fatti. Dunque, non c’è scampo: per leggere le storie di Pazienza le dobbiamo soltanto attentamente guardare.

Paolo Bacilieri, La magnifica desolazione 2007 p.59

Paolo Bacilieri, La magnifica desolazione 2007 p.59

Paolo Bacilieri ha senz’altro imparato molto da Pazienza, penso di più e meglio di chiunque altro. Il suo lettering esprime finemente il sarcasmo che pervade, narrativamente e graficamente, le sue storie, ed è graficamente coerente con quello che gli sta vicino. Osservate questo “bold” di forme quadrateggianti, e confrontatelo con le linee spesse del contorno delle figure e con la continua presenza di forme simili a rettangoli dagli angoli bombati – non solo nei balloon ma anche nei profili dei personaggi e dei loro dettagli.

Paolo Bacilieri script

Paolo Bacilieri script

Magari Bacilieri non ha il virtuosismo grafico di Pazienza (e chi ce l’ha?), ma è bravissimo nel costruire la (sardonicamente desolante) coerenza del proprio mondo. Il lettering ne è – se vogliamo dire così – il basso ostinato, lo swing, il groove.

Diffondi questo post:
Facebook Twitter Plusone Linkedin Digg Delicious Reddit Stumbleupon Tumblr Posterous Email Snailmail

Su Facebook

Dalla timeline
di Daniele Barbieri

[fts_facebook type=page id=danielebarbieriautore posts=12 height=1600px posts_displayed=page_only]