Ancora una figura del mare

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Settanta figure del mare

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Diario di Creta. Nono giorno

Si scende progressivamente nel profondo della vacanza, quando ci si incomincia a dimenticare della vita normale, e la quotidianità di qui diventa la norma. Nel frattempo, ci sono stati dei cambiamenti: da Kato Zakos, estremo est dell’isola, siamo arrivati a Paleochora, quasi estremo sud ovest, circa 370 km di strada. E stamattina ho portato la macchina a Chania, tornando in bus. Domattina si prende il traghetto per Gavdos, una piccola isola a 4 ore di navigazione, il punto più a sud dell’Europa. Qui fa più caldo, ma tutto è molto più verde, e le montagne sono bellissime, con un sacco d’acqua che scorre.
Ieri l’altro sera, dopo una passeggiata sull’altopiano per vedere le rovine di una piccola città veneziana, siamo andati a Ziros per un concerto di lira. Il biglietto di 10 euro comprendeva, oltre al concerto, un piatto misto, acqua e raki a volontà per tutta la notte. Gli spiedini (souvlaki) erano a € 1,50 l’uno, e non erano piccoli. La musica è iniziata dopo le dieci, quando il posto (un giardino all’aperto) incominciava a riempirsi, e il tasso alcolico a salire.
La lira cretese è una specie di violino che si suona tenendolo verticale ed era accompagnata dal liuto, una chitarra e un tamburo. Dopo un primo lungo pezzo molto cantato, una specie di ballata di circa mezz’ora, si sono aperte le danze, e progressivamente i ballerini sono aumentati sino a forse più di un centinaio. Il fatto interessante è che questa musica tradizionale appare amatissima anche dai giovani, che erano la maggioranza di una collettività che andava comunque dai 7 ai 70 anni. Noi ce ne siamo andati verso l’una, ma queste feste proseguono di norma sino all’alba.
Le considerazioni sulla tradizione da noi perduta o cancellata, o relegata nei musei, le lascio nella penna. Devo solo osservare che questa tradizione musicale popolare mi pare assai più ricca e interessante, comunque, della nostra. Ma il discorso è spinoso, e lo lascerò cadere.
Ieri lungo viaggio in macchina, con qualche tentativo fallito di fare i turisti: ma era lunedì, e di lunedì tutti i recinti archeologici e i musei sono chiusi: dà un qualche conforto sapere che da questo punto di vista c’è chi fa peggio di noi italiani.
Alla sera, a Paleochora, cena a To Skiolio, ovvero La Scuola, quella che era la scuola di un paesino qui sopra, a quattro km. Si cena sotto i gelsi e un gigantesco olivo, con una cucina particolarmente originale e molto gradevole, per 12 €uro. Se arrivi di giorno c’è anche un notevole panorama, perché subito sotto c’è una gola che scende sino al mare. Qualche anno fa l’abbiamo anche discesa.
Stamattina, con la macchina, sono tornato a Chania, per lasciarla all’aeroporto dove l’avevo presa. Con il bus, alle 2 e mezza ero qui. Poi, letture e contemplazione. E caldo, che qui si sente di più. La Libia è vicina.

To Skolio, Anidri

To Skolio, Anidri

 

(la foto è stata fatta con l’iPad, e, data la scarsa luce, la qualità è quel che è – però mi sembra che ugualmente renda l’atmosfera)

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Diario di Creta. Settimo giorno

Dopo qualche giorno si entra davvero nello spirito della vacanza, nel senso che il resto del mondo svanisce, si fa evanescente, e la problematica esistenziale che ci si sente in grado di affrontare è dell’ordine del bagno sì / bagno no, passeggiata sì / passeggiata no, e così via. Però ieri l’altro siamo dovuti andare a prendere i nostri amici (che non sono potuti partire regolarmente con noi per un problema dell’ultima ora, e hanno spostato il volo a venerdì) sino a Chania.

Da qui (Kato Zakros, estremo oriente di Creta) a Chania (quasi estremo occidente) ci sono circa 350 km, dei quali circa 50 saranno autostrada, e il resto strade in generale abbastanza buone, ma pur sempre a corsia singola. Insomma, sono 5 ore di macchina ad andare e altrettante a ritornare. Per spezzare un po’ il viaggio di andata, siamo partiti con largo anticipo e abbiamo fatto un paio di deviazioni fuori dalla via principale.

La prima era per andare a vedere un supposto monastero, Monastiri Faneromenis, nome che, per quel che capisco di greco, dovrebbe fare riferimento a una manifestazione o apparizione. Ma il monastero non c’era, ed era invece un paesino che si chiamava così. Però il posto era talmente bello che è andata benissimo lo stesso, con questa piazzetta dalla strana forma, davanti la chiesa e di fianco lo strapiombo di uno dei tanti canyon di qui. Peccato non poter traslare le foto dalla macchina fotografica sull’iPad. Dovrei farle direttamente con l’iPad per poterle mostrare qui, ma le foto vere sono migliori, e non giro con l’iPad appeso al collo.

La seconda deviazione è stata verso il mare, alla ricerca di una taverna in cui mangiare. Non è difficile trovare taverne, in Grecia. Ce ne sono nei luoghi più sperduti e incredibili. Si sa, la cucina greca non ha una varietà soverchiante di piatti differenti, però quelle quattro cose che si trovano dappertutto sono molto buone, e costano due soldi.

Dopo di che eravamo in ritardo. In realtà lo eravamo già da prima, ma non ci eravamo resi conto che ci sarebbe voluto taaanto tempo. Dopo tutti i chilometri fatti, verso Chania c’era un pezzo di autostrada, dove l’uscita per l’aeroporto non era segnalata. E quindi l’abbiamo mancata, trovandoci per le vie della città a divinare la direzione giusta.

Insomma, circa un’ora e mezza di ritardo (ma avevamo avvertito gli amici di andare al bar). E quindi saluti, bagagli, e via per il ritorno. Dopo Aghios Nikolaos (era già notte) ci siamo fermati per mangiare; i nostri amici entusiasti (prima volta a Creta), noi un po’ provati. E poi via di nuovo, per le curve della notte (ma quasi nessuna macchina in giro) per altre due ore, e strade progressivamente più piccole.

Per buona parte del ritorno non ho guidato io, ma all’arrivo ero estenuato lo stesso, così stanco da fare fatica persino ad andare a letto.

La nozione successiva del mondo è stata alle 10 della mattina dopo. Mi sentivo come con i postumi di una sbronza. Quindi giornata calma, letture, contemplazione, cicale, vento. Verso le 5 una passeggiata di un paio d’ore per andare a vedere una grotta. Mi sono portato la torcia e sono sceso giù fino all’oscurità, e c’erano le stalattiti, e ambienti molto grandi. Sono sceso sinché lo si poteva fare senza troppo rischio. A un certo punto la discesa diventava un’arrampicata all’ingiù, e lì mi sono fermato, cercando di capire quanto fosse fondo il buco diagonale che avevo davanti, ma con la mia luce ho visto soltanto che non lo si vedeva.

Poi, risalendo e uscendo mi sono accorto anche di quanto risalisse la temperatura. Non che si muoia dal caldo qui: di giorno si sta sui trenta, ventilati, e verso sera si scende sino a ventiquattro, però rispetto ai 17 della grotta è comunque un bello sbalzo. La cosa più affascinante è che la base delle stalattiti (o sono stalagmiti, quelle che salgono? non riesco a tenerlo a mente) alla luce della mia torcia appariva avvolta come da una rete argentata. Quando l’ho guardata da vicino, e toccata, ho visto che sono migliaia di goccioline d’acqua, umidità condensata che non viene assorbita dalla roccia, e crea questo effetto di patina argentata e riflettente, come un catadiottro.

La sera, poi, qui sotto, c’era una festa di matrimonio. Era nel ristorante di fianco a quello scelto da noi (ma in tutto sono quattro, quindi saremmo stati comunque vicini), ed era una festa piccola, per gli standard di qui: poche decine di invitati, disc jokey e non suonatori veri (l’altra volta che eravamo a Creta ci è capitato di partecipare a una festa di matrimonio media, con circa seicento invitati e l’orchestra). Però l’atmosfera era comunque quella della festa, con tutti a ballare e la musica sino a tarda notte, e il raki che scorre a fiumi (anche per noi, perché veniva offerto a tutti i dintorni). Io mi sono addormentato con la finestra chiusa, perché la musica continuava e continuava.

C’era un po’ di rock anni settanta (gli sposi non erano giovanissimi) e molta musica cretese, ovviamente. Ascoltandola mi veniva da pensare che c’è una strana analogia con la musica indiana. Non tanto ritmicamente, armonicamente e melodicamente, perché da questi punti di vita la parentela è piuttosto con il medio oriente (e in maniera nettamente più forte della musica greca del continente). L’analogia sta piuttosto nel circolo ipnotico che questa musica crea in chi la ascolta, costruendo più l’immersione che l’ascolto frontale – che è un po’ l’effetto che producono anche i raga, specie quando durano più di quaranta minuti (e anche qui le lunghe durate sono abbastanza la norma). Si entra nel flusso e si ondeggia al suo interno, interminabilmente. Il tempo viene sospeso, e tutto ritorna, ritorna, però sempre leggermente diverso…

Adesso è mezzogiorno. Nel pomeriggio andiamo a fare una passeggiata sull’altipiano, e poi andiamo a sentire il concerto di un suonatore di lira, che è un piccolo strumento ad arco tradizionale e molto usato qui.

A presto.

P.S. Questo stava davanti ai miei occhi mentre scrivevo:

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Diario di Creta. Per iniziare: quarto giorno

Cercare di cogliere qualcosa del senso di un paese: forse è questo il senso di una riflessione come quella che può essere contenuta in un post. In realtà non ci sarebbe ragione di riflettere; la vacanza sembra fatta apposta per evitare di farlo. Lasciarsi andare, lasciar trascorrere i giorni senza il pensiero di impegni, e una riflessione è già un impegno. Ma non può essere un progetto, se non genericissimo. Non sono qui alla ricerca di qualcosa. In ogni caso lascio che le cose vengano a me. Io mi limito a creare le condizioni affinché questo succeda, e poi, a posteriori, potrei riflettere a partire dalle cose stesse, e vedere cosa succede.
Oggi lunga camminata. Da Kato Zakros, sulla costa orientale di Creta, dieci chilometri di sentiero sulla scogliera sopra il mare per arrivare a Xerokambos, che è un po’ più a sud. Sole, vento, mare sotto, cespugli spinosi, terra rossa, rocce e sassi bianchi: un meraviglioso senso di desolazione (certo, è necessario non doverci vivere in mezzo). E poi a un certo punto una baia a strapiombo con un mare così azzurro che sembra incredibile. Si scende per un solo passaggio, abbastanza avventuroso. Sotto, persino i sassi grigi sembrano un po’ azzurri, magari per contrasto con la terra rossa che sta sopra, nella parete scoscesa. Niente vento, lì sotto. Una volte tolte le scarpe, il bruciore dei sassi è insopportabile. Ma l’acqua è bellissima e fresca, e come lava via il sudore, mentre la maglietta stesa sui sassi sotto il sole si asciuga con incredibile rapidità!
A Xerokambos c’è un’immancabile taverna. Il frapè che ho ordinato termina prima che io possa capire che sapore abbia: e poi segue un primo bicchiere d’acqua e un secondo e un terzo e pure un quarto. Mi accorgo che forse mi ero un po’ disidratato, nonostante durante il percorso (3 ore) avessi bevuto molte volte.
Solo a questo punto si può ipotizzare di mangiare. Il ragazzo che ci serve e che ci ha portato il menù, alla prima domanda su cosa c’è ci dice di aspettare un minuto che chiama la mamma, che è anche la cuoca. E poi la signora ci fa un breve elenco che comincia con “dolmadiakia”, che è esattamente quello che volevo io; più una birra, che contribuisce alla reidratazione.
Mangiamo, e poi ci prendiamo ancora tempo. Ellenikò cafè, ena metrio, ena skieto. Il nostro greco è basic, ma l’essenziale per il bar c’è. Poi, con il conto, arriva anche il carpusi, cioè l’anguria, che qui è un tipico omaggio della casa a fine pasto (del resto, ieri, in un paesino sperduto della costa sud, passava un furgoncino della frutta, e l’altoparlante gridava tria carpusi pende euro, cioè tre angurie cinque euro, e le angurie erano enormi).
Passano pochissime auto, e questo ci preoccupa, perché il programma è fare l’autostop sino a Zakros, in alto, e poi ridiscendere a Kato Zakros a piedi per il sentiero della Gola del morto. Sotto il sole delle 15 prendiamo la strada in salita, sino a vedere dall’alto un’altra gola (quella di Xerokambos, ovviamente). Camminiamo una mezz’ora. Le due auto che passano andando nella nostra direzione ci ignorano, ma la terza si ferma. Ci sono tre ragazzi greci chiacchieroni, specie lei (ateniese, ma il padre di lì), che ci portano non solo su, ma proprio all’ingresso della gola.
Scendiamo in questa sorta di paradiso terrestre, con il ruscello che scorre tra i platani e gli oleandri fioriti. Al sole fa caldo, ma all’ombra è meraviglioso – e comunque la brezza non smette.
Ma a un certo punto smette l’acqua. C’è un ultima pozza, bella piena, da cui l’acqua non esce, e il resto del corso è asciutto. C’è anche meno ombra, e la gola non finisce mai. Sono 5 chilometri di percorso non difficile ma un po’ accidentato e quindi un po’ lento. Ma alla fine – saranno le 6 – finalmente siamo poco lontani dal mare. C’è uno stradello, e poi, per arrivare alla spiaggia, un breve percorso (saran 100 metri) sotto un pergolato di vite quasi matura; alla fine la fontanella di acqua (quasi) fresca.
Ieri, per arrivare da Matala a qui, abbiamo fatto tutta la costa meridionale di Creta, privilegiando stradelli e stradine. Un paio di volte ci siamo anche persi. Ma tanto qui una taverna c’è da qualsiasi parte, anche nel posto più sperduto dell’altopiano. Bello l’altopiano qui sopra. Pare ci sia (non l’abbiamo vista) pure una cittadella veneziana, i cui abitanti per andar d’accordo con i nuovi dominatori turchi si erano convertiti. Probabilmente così, da bravi veneti, potevano continuare a commerciare.
Oggi è giovedì. Siamo a Creta da lunedì pomeriggio. È quindi il quarto giorno.
Dei libri che sto leggendo avremo occasione di parlare, suppongo.
Kalinichta

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Diario di Kalymnos. Sino alla fine

 

Kalymnos nord, dall'alto

Kalymnos nord, dall’alto

Il diario si conclude faticosamente. Le giornate di una vacanza al mare in effetti finiscono per assomigliarsi tra loro. Persino la bellezza e la piacevolezza alla fine un po’ stancano. Si rimane attaccati al fatto che al ritorno la vacanza non ci sarà più.

Bisognerebbe poter rientrare qualche giorno, e poi, dopo una settimana, tornare qui per altre due. Così tutto si rinnoverebbe, e sarebbe come da capo. Ma il mondo non va così, per cui siamo felici lo stesso di mangiare bene, avere il tempo di leggere belle cose, e avere attorno panorami straordinari.

Che tanto martedì si torna a casa comunque.

Kalinichta!

 

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Sacro e poesia (Diario di Kalymnos. Quindicesimo e sedicesimo giorno)

A vacanza avanzata resta poco da raccontare. Il riposo fa poca storia. Magari la fanno invece le riflessioni che il riposo suscita, insieme con le letture che si fanno. Per questo ho intitolato questo post “Sacro e poesia” perché è il tema su cui ha divagato la mia mente in questi giorni di relax.

I libri che ho letto qui (e di cui ho parlato nei post precedenti) hanno mostrato sostanzialmente due vie di accesso al sacro. Parlo di sacro senza ulteriori specificazioni; naturalmente chi vuole può vederci Dio, nel sacro, o gli dei, o Shiva, o il Brahman, o la coscienza cosmica; io mi fermo prima, magari parlando di sacro/sublime, vista la vicinanza strettissima delle due nozioni, come ho fatto nei giorni scorsi; mi interessa il numinoso, non so quanto mi interessi Dio.

Dicevo, dunque, di due vie di accesso al sacro, una esteriore (e uso questa parola senza connotazioni negative) e una interiore. La via esteriore è quella del rito, del gesto corale, del riconoscersi in un ordine rituale, che è, inevitabilmente, un ordine sacro, in quanto antico, virtualmente immutabile, collettivo non solo nel senso della collettività umana. La via interiore è quella dell’ascetismo mistico, del fondo dell’anima, del fare il vuoto dentro di sé perché possa entrarci dell’altro. Nella tradizione induista la via esteriore corrisponde alla bhakti dei seguaci di Vishnu, mentre quella interiore all’advaita degli shivaiti.

In modi diversi, per entrambe le vie si arriva a una diversa coscienza di sé, dove il sé non è più l’io, ma qualcosa di assai più vasto. L’io si rivela quell’illusione che è, certo mai del tutto abbandonabile, ma altrettanto certamente molto riducibile rispetto al ruolo strabordante che ha per noi occidentali.

Le vie esteriore e interiore sono diverse tra loro, ma molto meno di quello che sembra. La via rituale è la più antica: il rito è più antico del linguaggio, e il linguaggio è più antico della coscienza di sé. Ma proprio l’esistenza del rito e del linguaggio hanno fatto sì che il nostro inconscio, che già è un processo di per sé naturale, diventasse anche un processo sociale, ancora prima di sostentare un io. Questo è accaduto filogeneticamente e continua ad accadere ontogeneticamente nello sviluppo di qualsiasi bambino.

In questa prospettiva l’autocoscienza non è che un breve segmento nella linea che va dal mondo esteriore a quello interiore, entrambi naturalmente e socialmente costruiti. L’esistenza dell’inconscio (che è sì quello freudiano, ma non solo) rende incoerente la concezione cartesiana di una res cogitans interna contrapposta a una res extensa esterna. Interno ed esterno, piuttosto, sono solo aspetti diversi della stessa cosa, e da qualche parte lì in mezzo ci sta quell’illusione che chiamiamo io, o autocoscienza.

Attingere il sacro è riuscire a vedere, almeno per un attimo, al di là dell’illusione; sentirsi parte del tutto, essere il tutto. La via esteriore ha funzionato da sempre, quella interiore, più difficile e tortuosa, funziona pure lei da molto tempo.

Che cosa c’entra la poesia con tutto questo? Ho forti ragioni per pensare che sia la scrittura che la fruizione di una poesia (ma soprattutto la fruizione) siano atti di carattere rituale. Come ho scritto anche nel mio libro, per fruire un componimento poetico bisogna recitarlo, almeno interiormente, ovvero ricostruirne attivamente le sonorità, l’andamento. Non basta leggere con gli occhi, come si fa con la prosa: leggere una poesia solo con gli occhi è infatti ridurla a prosa, puro significato delle parole, escludendo dal gioco la gran parte dell’efficacia poetica.

Recitando almeno interiormente, ma meglio ancora esteriormente, l’esecuzione assume l’aspetto della recitazione di un mantra; diventa cioè un atto rituale, in cui il lettore si ritrova in sintonia, accordato, a quello che hanno fatto o faranno tutti gli altri lettori dei medesimi versi. Nel fare questo, le parole contenute in quei versi acquistano quello che si acquista attraverso il rito, ovvero una qualche sacralità.

Si noti che è presente, nel sacro, una forma di verità che non è quella epistemologica dell’aderenza al reale (“la neve è bianca” è un’asserzione vera se e solo se la neve è bianca, come recita l’assioma di Tarsky). È piuttosto una verità che si dà per assunta, pur essendo indimostrabile ed essendo indimostrabile la sua negazione. È quella verità per cui un credente ritiene vero che Dio esista, pur sapendo perfettamente che non c’è modo di verificarlo, ma è il rito stesso a renderla tale (cfr. Roy Rappaport, Ritual and Religion in the Making of Humanity, il volume che sto leggendo ora). Non è certo la verità della scienza, e un filosofo analitico non ve la farebbe passare; ma tutte le religioni si fondano su questo senso di verità.

I Greci antichi ritenevano vera qualsiasi asserzione che fosse stata espressa attraverso i versi di un testo poetico; in altre parola, se era poesia che lo diceva allora era sicuramente vero (lo ricorda Paul Veyne, nel volume I Greci hanno creduto ai loro miti?). Si tratterà di verità nel secondo senso, indubbiamente, ma sempre di verità si tratta. Per i Greci, infatti, i testi poetici più antichi sono testi in cui si parla degli dei, e attraverso cui si fonda il loro sistema di credenze.

Ecco quindi dove voglio arrivare: la natura rituale della poesia la rende dell’ordine del sacro, e conferisce quindi alle sue parole uno statuto particolare di verità. È per questo che la poesia suscita il rispetto di chi la legge; ma è anche per questo che ha vita difficile in un mondo de-sacralizzato, in cui la nozione di verità imperante è quella epistemologica di corrispondenza al mondo.

Parlo di buona poesia, ovviamente. La cattiva poesia è come un rito eseguito male, senza criterio, senza serietà: qualcosa quasi di sacrilego, insomma. Se non fosse che ce n’è tanta, e che inevitabilmente siamo più spesso in contatto con la poesia cattiva, percepiremmo davvero questo senso sacrilego, questa impressione di voler avere a che fare con il sacro senza aver preso le dovute cautele, senza saperle prendere, in realtà. Perdoniamo ai cattivi poeti solo perché sappiamo bene che non c’è una scuola a cui si impari a costruire questo genere di riti, e che senza cattiva poesia non nasce nemmeno quella buona.

Ma questa sacralità, e quindi, in qualche modo, oracolarità della parola poetica le conferisce delle responsabilità terribili. Proprio in quanto depositaria di un senso particolare di verità, apparentato col sacro, la poesia non può dire qualsiasi cosa. Non che non possa parlare di qualsiasi cosa: ovviamente lo può fare. Ma dev’essere in grado di vedere la dimensione sacrale in quello di cui parla; altrimenti fallisce, altrimenti si rivela come un bluff, non è che banale cattiva poesia.

Può essere ironica, scherzosa; il sacro può stare anche lì. Ma non lo può essere in maniera banale.

Personalmente, sono poco interessato ai temi della poesia. Quello che interessa a me è come la poesia li mette in scena, li sviluppa, li rende fascinosi, li sacralizza. Per questo (ma questo vale solo per me, personalmente) quando inizio a scrivere non devo sapere di che cosa parlerò: se lo sapessi, starei sviluppando un tema, come si fa a scuola, o come si fa in prosa. Devo avere piuttosto la sensazione che il tema stesso scaturisca dal mio fondo dell’anima, il luogo del sacro dentro di me, e che si sviluppi secondo linee rituali/sacrali che dentro di me si sono depositate. Solo così, per me, chi leggerà poi quei versi potrà ritrovarvi davvero il sacro, attraverso il rito che essi costruiscono.

In questo modo la via interiore e quella esteriore al sacro convergono. Anzi, sono una e una sola.

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Diario di Kalymnos. Dal decimo al quattordicesimo giorno

Stalattiti al tramonto a Kalymnos

Stalattiti al tramonto a Kalymnos

Il diario si fa rado. Lo spirito pigro della vacanza si impone ogni giorno di più. Ora sono sulla spiaggia già in ombra, mentre il sole tramonta dietro la montagna alle mie spalle, e il mare davanti è liscio ma appena appena mosso, e il suo colore-base azzurro è macchiato dal rosa delle montagne di fronte, ancora colpite dal sole.

Ieri sera a quest’ora eravamo sulla strada, facendo autostop (avevamo riportato il motorino la mattina, passato la giornata sull’isolotto di Telendos, e bisognava rientrare). Prima che ci prendessero su camminavamo proprio sotto una parete dove c’erano grandi caverne piene di stalattiti, arrossate drammaticamente dal sole basso. Uno spettacolo.

Sulla macchina (greca) che ci ha raccolto ascoltavano un cd di musica che ho riconosciuto come cretese; abbiamo chiesto chi fosse il musicista, e ce ne hanno scritto il nome, Michalis Tzouganakis, aggiungendo che il 9 agosto suona proprio qui, a Kalymnos, poco lontano da casa nostra, a Kastelli. Ci andremo, ma dovremo riprendere il motorino, perché la notte a Emborios non viene nessuno, e dieci km a piedi a mezzanotte non sono il massimo…

Oggi non sono nemmeno sceso in spiaggia (a parte ora). Ho poltrito leggendo sulle poltrone del giardino dell’Eden, ovvero di Harry’s Paradise, il nostro padrone di casa. Se venite da queste parti dovete provare la loro cucina, che è decisamente notevole – anche se costa un pelo più degli altri (cifre, comunque, che in Italia apparirebbero ridicole: oggi, in due, 27 Euro, contro i 20 o 22 che spendiamo di solito in altri posti – si mangia bene dappertutto, ma qui hanno una marcia in più).

Non ricordo nemmeno più che cosa abbiamo fatto i giorni scorsi. Il punto è che se hai il motorino ti senti obbligato a sfruttarlo, e a inventarti mete per andare in giro. Oggi che non lo abbiamo più era come essere in vacanza dagli obblighi della vacanza. Qui è davvero tutto bello, mare e montagne, aria e cibo. C’è persino qualche rovina, e il bel museino di Pothià.

Ah, a Pothià l’altra sera siamo tornati alla uzeria della scorsa settimana, dove di nuovo facevano musica. Ed è stato magnifico e coinvolgente di nuovo. E poi ormai eravamo di famiglia: quando siamo andati via, verso mezzanotte (con 25 km di motorino davanti) ci hanno salutato tutti, a partire dai musicisti.

Le mie letture di questi giorni hanno fomentato ulteriori riflessioni teologiche, ma per stavolta ve le risparmio. Sarà per la prossima.

Se la pigrizia non ha il sopravvento, ovviamente!

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Diario di Kalymnos. Ottavo e nono giorno: Chora (Choriò)

 

Ieri e oggi abbiamo ruotato intorno a Choriò (o Chora, si trova scritto in ambedue i modi). Dopo una giornata pigra, abbiamo preso il motorino e nel tardo pomeriggio, calato il caldo, siamo andati ad Argo, sopra Chora. L’idea era quella di salire con la moto sino a un passo, da cui dovrebbe iniziare un sentiero che scende a una baia lì sotto, dove c’è un porticciolo e un monastero.

Di fatto, la strada non era percorribile con la moto, e quando siamo arrivati in cima, a piedi, io ero già esaurito. Inoltre, il sentiero per scendere non si trovava, e quando abbiamo finalmente capito qual era incominciava a essere tardi per scendere (e poi risalire). Però da là sopra c’era un panorama magnifico: verso sud Kos, e l’isolotto di Nera, verso est le prime Cicladi, sino ad Amorgos; e poi rocce tutt’attorno.

Siamo tornati giù e siamo scesi con la moto alle spiagge sotto Panormos, alla ricerca di un locale che ci avevano segnalato. Ma solo dopo parecchie ricerche abbiamo scoperto che non esiste più. Cena casalinga, quindi.

Il programma per oggi era di ascendere sino a Profitis Ilias, la chiesina che in quest’isola come in tutte le isole greche marca il punto più in alto, la vetta maggiore. Ma io sono in un momento down, e ho lasciato Daniela salire da sola. Sono tornato alle spiaggette della sera prima e ho letto il mio libro (terminato Vannini, ora è la volta di un antropologo, Roy Rappaport, Ritual and Religion in the Making of Umanity: ne parleremo). Era ancora tutto chiuso (ci eravamo svegliati alle sei, e al mio arrivo non erano nemmeno le otto), e mi sono seduto a un tavolino qualsiasi, nel silenzio e nel vuoto.

Solo più tardi ho potuto bere un caffè, poco prima di andare a riprendere Daniela, intanto ridiscesa dall’altro lato. Insieme siamo andati a una spiaggetta rivolta a est, e abbiamo poltrito e mangiato lì.

Insomma, vacanza…

 

 

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Diario di Kalymnos. Sesto e settimo giorno: Platanos

Ieri l’altro giornata pigra. Però, a metà pomeriggio abbiamo preso il motorino e siamo saliti a un passo proprio al centro dell’isola, in alto sulla valle di Vathì, proprio sopra Platanos (qui, su Google Maps, si vede la curva in alto – al centro – dove abbiamo lasciato la moto e la forra per cui siamo scesi). Mappa alla mano, il programma era quello di scendere per un sentiero, fare un pezzetto della strada nella valle, e poi risalire prima del buio (per prudenza ci siamo portati le torce) per un altro sentiero.

Di fatto, dopo cinquecento metri del sentiero in alto, abbiamo trovato una serie di bivi, e, pensando di interpretare la mappa, abbiamo preso quello sbagliato e ci siamo persi. Niente di grave, in sé, ma abbiamo sprecato circa un’ora a girare tra i sassi, i cespuglietti spinosi e gli alberi bassi, prima di ritrovare il sentiero giusto; e anche lì, potendo scegliere tra due potenzialmente equivalenti, abbiamo scelto quello sbagliato, che all’inizio sembrava tenuto meglio, ma dopo un poco è risultato abbandonato, e spesso lo si perdeva facilmente.

Insomma, siamo arrivati giù con un grande ritardo. Inoltre, guardando la parete della montagna, non c’era traccia del sentiero per risalire. Così abbiamo fatto l’autostop, e, come spesso succede nelle isole greche, la prima macchina che è passata ci ha raccolto e portato su (non che ne passassero molte: dovremmo dire la prima e unica).

La valle di Vathì è molto bella, e Platanos ne è il paese centrale. E’ una valle agricola e incredibilmente verde, per un’isola arida come sono di solito queste del Dodecaneso. Ci siamo tornati la mattina dopo alle sette, con un altro giro in programma. Sempre da Platanos, ma dall’altro lato della valle, c’è un sentiero che sale a 400m e ridiscende a Pothià, la cittadina capoluogo. Anche lì non è stato facilissimo trovare l’inizio del sentiero, ma poi il giro è stato bello, fresco e panoramico.

A Pothià ci siamo fatti un frapé sul porto, e poi abbiamo fatto l’autostop per tornare di là. Ci ha raccolti, dopo poco, un signore anziano, che parlava un italiano recuperato dalla memoria dei tempi in cui l’aveva studiato a scuola, all’epoca della dominazione italiana. Il dominio italiano era finito nel ’43, e il nostro salvatore stradale aveva la bellezza di 89 anni. Di questi ne aveva passati ben 48 a Bordeaux, facendo il commerciante, e quindi parlava anche un ottimo francese. Insomma, tra una lingua e l’altra, ci siamo capiti bene.

Ci ha raccontato che il platano al centro del paese, e che gli dà il nome, Platanos, appunto, era stato piantato da suo padre nel 1902. Mi è sembrato per un attimo di vivere una saga familiare tipo Cent’anni di solitudine. Poi ha insistito a portarci sino al motorino, benché lui fosse già arrivato. Gentilissimo.

Siamo andati a pranzare a Vlichadia, un po’ deludente. Troppa gente, ma era pure domenica. Abbiamo dormito sulla spiaggia, sino alle 17, poi siamo saliti a visitare il monastero in alto sopra Pothià: veduta stupefacente, aria troppo libera e aperta per sentire davvero un’atmosfera monacale.

Ho proseguito le mie lettura sulla mistica speculativa. Ma mi sembra che Vannini si spinga troppo in là considerando la Fenomenologia dello spirito come il punto più alto della mistica occidentale. Riesce a vederci persino alcune convergenze con lo Zen: presumibilmente ci sono davvero, ma poi, quando elenca le divergenze, mi sembra che non a caso dimentichi quella fondamentale, ovvero il pesante accento che lo Zen (e il Buddhismo in generale) pone sulla prassi, e sull’impossibilità per la speculazione teorica di oltrepassare certi limiti. La prassi implica il corpo, e l’azione materiale, che è esattamente quello che viene lasciato fuori da tutti i mistici di Vannini, se non attraverso le conseguenze di quello che viene chiamato “amore”, parola ambigua più di qualsiasi altra, e che vive il proprio successo nella religione proprio in virtù di questa impossibilità di definirlo.

Mi sembra che Vannini (con tutte le sue innegabili doti di storico) viva e ragioni in un mondo pre-fenomenologia e pre-psicoanalisi, dove si può impunemente parlare di spirito e pensare che questa parola abbia (come amore) un senso definito.

(à suivre)

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Diario di Kalymnos. Quinto giorno: Pothià

Ieri mattina non siamo riusciti ad alzarci presto come avremmo voluto. Così abbiamo perso il bus, e abbiamo fatto l’autostop. Dopo dieci minuti ci ha preso su una macchina con un padre e figlio italiani, diretti al traghetto con meta aeroporto, per il figlio, mentre il padre sarebbe rimasto ancora un poco. Simpatici, cordiali, e soprattutto ci hanno fornito l’informazione essenziale su dove trovare un motorino a prezzo più basso.

Col motorino siamo andati a Pothià, la cittadina capoluogo dell’isola, con un gran traffico (per i ritmi a cui ci siamo abituati) e un bel museo archeologico, piccolo ma significativo, spaziante dal 3.000 a.C. sino al 1.400 d.C. Abbiamo mangiato in una uzerìa in un vicoletto percorso da un’incredibile brezza fresca, a due passi dal porto. I gestori parlavano solo greco, ma una bella ragazza tra i clienti ci ha fatto da interprete, via inglese, sino a quando ha scoperto che eravamo italiani, e allora è passata all’italiano. Nina, figlia di un greco di Kalymnos e di una slava di Spalato, conosciutisi a Pavia, dove entrambi studiavano, e anche lei nata a Pavia; da piccola i genitori le parlavano in Italiano, perché le restasse in mente (e forse anche perché all’inizio era la lingua che avevano in comune). Poi ci ha presentato un amico del padre, anche lui a suo tempo studente in Italia, che ci ha offerto da bere, come spesso si usa, sulle isole greche…

Siamo rimasti lì a lungo, in questa atmosfera così piacevole. Quando abbiamo chiesto a Nina se sapeva di qualche posto dove si facesse musica, ci ha detto semplicemente di tornare lì la sera, dopo le 9. Così ci siamo organizzati per farlo. Siamo ripartito col motorino e andati a Vathìs, qualche km più a est, un paesino di pescatori su un fiordo stretto stretto, così stretto che nemmeno c’è la spiaggia, solo il porticciolo, e intorno tutto a strapiombo, incantevole.

Così come incantevole era la spiaggia dove abbiamo riparato, a metà strada tra Vathìs e Pothià, al solito semideserta, con le solite meravigliose tamerici a dare ombra direttamente davanti al mare. Lì mi sono tuffato nella lettura del nuovo libro, che, tanto per restare in tema, è un libro di Marco Vannini, su Mistica e filosofia. Vannini è un ottimo studioso e storico di questi temi. I personaggi di cui parla sono affascinanti (Margherita Porete, Meister Eckhart, Nicola Cusano, Angelus Silesius…), ma io trovo in tutta la mistica speculativa un grave problema di fondo, che deriva in qualche modo dal suo stesso fascino.

Leggendo questi autori, o il resoconto del loro pensiero che fa Vannini, non posso fare a meno di avere la sensazione che questo abbandono totale della materia, a favore di un intelletto purissimo, che arriva a guardare nel fondo dell’anima, nell’essere dell’essere, finisca per configurarsi come una sorta di vertigine, in cui la ragione, lasciata a se stessa e senza più qualsiasi resistenza materiale, si avvolge ripetutamente su se stessa, sino a ubriacarci di conclusioni paradossali e straordinarie. La mia sensazione è, per riallacciarsi ai discorsi dei giorni scorsi, che i mistici speculativi finiscano per vedere il sacro (o il sublime, che è lo stesso) esattamente in questo vortice che è in loro.

Nella loro prospettiva il ganz andere (totalmente altro) di Rudolf Otto non è Dio, con il quale, al contrario, si cerca una paradossale unità, bensì l’atteggiamento stesso che permette all’uomo di camminare verso Dio, ovvero questa stessa riflessione iper-spirituale, questo stesso avvolgimento plurimo del pensiero su se stesso, in cui si finisce per perdere qualsiasi coordinata. Trovare il sacro così dentro di sé, nel proprio stesso intelletto, è quanto caratterizza questi mistici.

Ma se il sacro è un trascendentale, oppure, peggio, se è un effetto linguistico tipico delle lingue occidentali (indoeuropee e semitiche) questo ritrovamento finisce per diventare una possibilità ovvia, e finisce per apparire anche un fertile travisamento. Travisamento perché non si vede altro che quello che la nostra stessa costituzione fenomenologica o linguistica di fatto ha già posto in noi; fertile perché spesso i risultati sono comunque affascinanti, nella prosa paradossale della Porete e di Eckhart o nella poesia altissima di Silesius.

Tutto sommato, preferisco trovare il sublime (il sacro) nella musica, piuttosto che nel fondo dell’anima, questa discutibile astrazione. Anche per questo siamo tornati alla nostra uzerìa, la sera (Paradosiakò ouserie), dopo in realtà aver mangiato degli ottimi dolmadies alla taverna sulla spiaggia di fronte al mare.

Suonavano quattro amici: lauto, buzuki, un altro chitarrino minuscolo di cui non so il nome ma che potrei chiamare un buzuki o un lauto sopranino, e violino. Il lautista cantava anche. Musica popolare, di qui, suonata da dilettanti di qualità, ma pur sempre tali. Anche di questo genere ho sentito di meglio, per esempio a Creta. Però ascoltare queste cose dal vivo, a due metri dagli interpreti, magari cantando con loro (e il pubblico, greco, lo faceva continuamente) o addirittura ballando (come, dopo un po’, tanti hanno incominciato a fare, nel vicolo strettissimo) è davvero in ogni caso un’esperienza. Questo è davvero il senso del fare musica, con tutto il rispetto per la musica progettata, da concerto, che ha evidentemente comunque i suoi pregi: quello di essere un’attività che non separa un esecutore da un pubblico, ma che unisce chi è un po’ di più esecutore (ma intanto si ascolta anche) e chi è un po’ di più pubblico (ma che canta anche, e balla, e partecipa).

Col passare delle ore, e l’aiuto di birra e ouzo, si aveva davvero l’impressione di un fervore collettivo, di un riconoscerci tutti attorno al medesimo qualcosa, e quel qualcosa era la musica. In questo senso di comunione che si costruisce attraverso la musica in questo modo, io vedo più sublime e più sacro che non nelle astrazioni dei mistici speculativi. (Qualcuno, con cui avevo semplicemente scambiato qualche sguardo complice sul piacere della musica, ci ha di nuovo offerto da bere)

Siamo tornati nella notte, 25 km sul motorino di cui metà nella strada buia, con gli oleandri attorno, e la consapevolezza dello strapiombo sul mare alla nostra sinistra. Nelle orecchie avevo ancora la musica. Da bravo turista, non ho potuto fare a meno di registrare (e videofilmare) parecchi pezzi della serata, ma per quanto buone posano essere le registrazioni (e non lo sono) non sarà mai la stessa cosa. Però mi permetterà di ricordare meglio l’esperienza.

Scritto il pomeriggio del giorno dopo, su una poltrona nel giardino, sotto ulivi e bouganville.

Kalispera.

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Diario di Kalymnos. Quarto giorno: i pirati

Altro giorno poco conclusivo. Mattina di letture (ho terminato il libro di Tagliaferri), pranzo in casa, leggero. Poi siamo andati alla baia dei Pirati di Kalymnos, decantataci dalle nostre amiche dei giorni scorsi, a poco più di un km da casa nostra. Ma è stata un po’ una delusione. Il posto non era male, ma c’era un sacco di gente; aria da spiaggia, musica di sottofondo. A me non viene nemmeno voglia di fare il bagno, in posti così.

Siamo andati via presto. Sulla strada ho trovato e raccolto un sacco di origano. Abbiamo attraversato il nostro paese e siamo risaliti dall’altra parte, verso due baiette un km più in là, la prima rivolta verso il nostro golfo chiuso, l’altra di là, verso il mare aperto. Sono sceso alla prima. Non c’era nessuno, e ho fatto il bagno. Acqua immobile, limpidissima, ma niente pesci e molta poseidonia sul fondo. Il sole già basso, alle spalle.

Nella seconda baietta il mare era ovviamente mosso, ma c’era il sole che tramontava, e a destra le alte montagne della punta di Kalymnos. Spettacolare.

Siamo tornati a casa e abbiamo fatto la doccia. Siamo andati a mangiare qui vicino, in un posto dove sapevamo che fanno musica. Abbiamo mangiato bene, ma il conto era circa il doppio di quello che abbiamo speso le sere precedenti; e la musica non era gran che.

Insomma, giornata un po’ così. Domattina andiamo a prendere un motorino, per qualche giorno, così vediamo l’isola.

Kalinichta!

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Diario di Kalymnos. Terzo giorno: Telendos

Oggi giornata statica. Le punture delle api di ieri hanno gonfiato (un poco) il viso di Daniela e dato a entrambi una certa stanchezza. Effetti ritardati del veleno. Così, mi sono alzato alle 10, ho fatto colazione con calma, ho raggiunto Daniela a un tavolino sulla spiaggia (ben 50m da casa), ho ordinato un frapé, ho letto molte pagine del libro di Tagliaferri. Verso l’una ci siamo fatti da mangiare, e poi ho dormito un’oretta, o più; un altro po’ di lettura, e poi siamo finalmente usciti, con meta l’isolotto di Telendos.

Ma prima di raccontare di quello, devo finire le considerazioni fenomenologico/teologiche di ieri, ispirate dal libro di Tagliaferri. Ho due riflessioni da esporre, una ispirata direttamente dalle pagine del libro, e una indirettamente. Se non vi interessano, potete saltare direttamente agli ultimi paragrafi del post, dove racconto di Telendos.

La prima riflessione è legata all’idea del sacro come trascendentale, a-priori, e alle definizioni di Rudolf Otto come ganz andere, ovvero totalmente altro, ma anche numinoso, terribile (arreton). Guarda guarda, il sacro visto in questo modo assomiglia incredibilmente al sublime, del quale ugualmente si potrebbe sostenere la trascendentalità. Solo che il sublime, a differenza del sacro, non è legato all’idea di Dio; non che la escluda, ma di per sé non la implica. Il senso di soverchiante, di favoloso, di terribile, di totalmente altro che il sublime produce in noi può essere tranquillamente naturale, materiale; e non ha bisogno di rimandare al divino, se non, al più, metaforicamente (un “come se”). Il sublime, oltretutto, è un concetto non religioso, bensì estetico.

Se identifichiamo sacro e sublime non perdiamo l’alterità, la numinosità (ovvero il senso del divino) né la terribilità; perdiamo però il rimando a Dio, anche come trascendentale, e non abbiamo più un posto dove metterlo.

Ed ecco la seconda riflessione. E se questa idea del sacro (o del sublime) come a-priori non fosse che un effetto linguistico? Mi sto rifacendo ai lavori, interessantissimi, di François Juillen, che mettono a confronto la cultura occidentale con quella cinese, scoprendo in questo confronto, per esempio, che l’idea di essere non è affatto universale, ma è sostanzialmente un prodotto delle grammatiche occidentali, che permettono la sostantivazione del verbo. In cinese, viceversa, verbo e sostantivo non sono nemmeno categorie differenti, ma solo modi differenti di usare le medesime parole. Non si può sostantivare l’essere, in cinese, e di conseguenza non ci si può nemmeno porre il problema cruciale della filosofia occidentale, che è per l’appunto il problema dell’essere. Cade evidentemente, insieme con questo problema, anche la possibilità di definire Dio come l’essere assoluto.

Se ho capito bene le descrizioni di Juillen, la Cina non ha una religione nel senso in cui la intendiamo noi, con un dio, o delle divinità. La cosa che, per noi, più assomiglia alla religione, sono il Tao e il confucianesimo, entrambi piuttosto collezioni di principi morali, esposti con un linguaggio che per un Occidentale è al limite del paradossale, e che richiede una grande competenza sulla tradizione cinese per poter essere compreso davvero.

La cosa andrebbe verificata più approfonditamente (cosa che qui, ora, non ho modo di fare, ma che conto di fare, presto o tardi), ma se insieme a questa assenza di divinità, la cultura cinese mancasse pure del senso del sacro/sublime, allora sarebbe dura continuare a pensarlo come un vero trascendentale. Potrebbe continuare a essere precategoriale e antepredicativo, perché in parte il linguaggio agisce anche a quel livello; ma sarebbe comunque un effetto linguistico. Del resto, nel mondo le culture dove il misticismo si è sviluppato di più sono l’Europa e l’India, le due grandi aree dei linguaggi indoeuropei, dalla struttura comune.

Lo diceva anche Nietzsche (cito a memoria): “Non avremo ucciso Dio finché non ci sbarazzeremo della grammatica, quella vecchia donnaccola truffatrice!”

 

Finite le letture del pomeriggio, abbiamo raggiunto le nostre salvatrici di ieri e, in macchina con loro, siamo andati a Mirties, verso la metà dell’isola, ove si prende il traghettino per Telendos, che è un isolotto che sta proprio di fronte. Telemnos è praticamente una montagna (500m di altezza) piantata nel mare, con una penisoletta bassa, dove sta un paesotto. Ci sono diversi ristoranti e un sentiero che porta sull’altro lato della penisola, quello rivolto a Occidente, dove si può vedere il tramonto del sole.

Abbiamo camminato un po’, e siamo scesi per una lunga rampa di gradini bianchi a un chiesetta appena sopra il mare, tutta bianca e azzurra come usa qui. Poi siamo tornati un po’ su a guardare il sole che scendeva nel mare, sopra un gruppo di scogli lontani. A me veniva in mente, forse per l’associazione del tramonto, una poesia di Majakowsky, “La blusa di Bellimbusto”, che dice così (cito anche qui a memoria):

 

Io mi cucirò neri calzoni
del velluto della mia voce
e una gialla blusa
del colore del tramonto.

Per il Nevsky del mondo,
per le sue strisce levigate,
me ne andrò girellando
con il passo di don Giovanni e di Bellimbusto.

Donne che amate la mia carne
– e tu, ragazza, che mi guardi come un fratello –

coprite me, poeta, con i vostri sorrisi:

li cucirò come fiori sulla mia blusa di Bellimbusto!

La provavo tanti anni fa, quando facevo scuola di recitazione. Mi è sempre piaciuta moltissimo.

Dopo il tramonto (a destra del sole che scendeva c’era l’enorme massa frastagliata della montagna, a picco sull’acqua) siamo tornati in paese, e ci siamo fermati in un localino riparato per mangiare. Ancora moussakà, per quanto mi riguarda: per la mia deglutizione ancora incerta è ottima, ed è ottima pure come sapore. L’intera cena, con bevande e tutto, è costate ben 10 euro a testa.

Siamo tornati al traghettino, che, dopo qualche attesa, ha attraversato il nero del mare. Poi ci siamo fatti lasciare dalle nostre amiche a circa un km dal paese, per camminare un po’ al buio, e muovere le gambe. Avvicinandoci a Emboriòs abbiamo iniziato a sentire dei suoni, anzi delle note, anzi una musica, poi persino una voce che cantava.

Nella piazzetta del paese, dietro la spiaggia, stavano ballando, con due suonatori (organo/voce e buzuki). Non il massima della qualità, forse, ma ugualmente suggestivo, con questi ritmi greci un po’ storti, e queste armonie sospese tra oriente e occidente.

Adesso sono qui davanti a casa, che scrivo il mio diario tra i grilli.

Kalinichta!

 

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Diario di Kalymnos. Secondo giorno: Palionissos.

Oggi siamo andati qui, alla baia di Palionissos. Dieci km da Emborios, a piedi, con salita sino a 300m e relativa discesa di là. Ci siamo svegliati alle sei, per camminare col fresco. La salita non è stata faticosa, e il panorama era spettacolare: Kalymnos è un’isola molto frastagliata, e qui davanti è pieno di isolette. Quindi gran combinazione di coste, e aperture e chiusure sul mare aperto, a seconda della posizione e dell’altitudine. Davanti a noi, di là dalla baia, il roccione sporgente della penisoletta di Kastelli, che probabilmente deve il suo nome non tanto al fatto che ospitasse un castello, quanto – io credo – perché il roccione a torre sembra proprio un castello, enorme e favoloso.

Tutta la salita è stata all’ombra. La parete è rivolta a sud-ovest, mentre il sole era sorto a nord-est. Al passo siamo emersi nel sole, ed è anche piacevolmente iniziato un po’ di vento. Dopo un paio di curve si è aperta una veduta spettacolare di Leros, l’isola immediatamente a nord. Poi è passato un furgoncino, con dentro una specie di astronauta. Dopo un attimo di perplessità ho capito che si trattava di un apicultore, e mi sono domandato perché si proteggesse anche dentro l’abitacolo. Dopo un minuto ne è passato un altro, che ci ha fatto dei gran segni di coprirci, perché avevano appena preso il miele alle api, e queste erano un po’ arrabbiate.

Ci siamo un po’ coperti, ma c’è voluto un po’ per capire che stavamo andando diretti a metterci nei pasticci, insomma, avanzando spediti verso il pericolo. La prima ape mi è arrivata in faccia: mi ha punto la guancia in due punti ed è andata a strapparsi l’aculeo nella pelle della mia nuca. Ho affrettato il passo, ma non sapevo che mi stavo lanciando nella tana del lupo.

Dopo un centinaio di metri avevo sei o sette api che mi ronzavano attorno, con un’aria piuttosto aggressiva. Una mi ha punto ancora, su un braccio. E io ancora più veloce, sperando di superare in fretta il punto critico. Daniela si era coperta con l’asciugamano da spiaggia, bianco, ed era uscita dalla strada. Ogni tanto si dimenava imprecando e sbattendo l’asciugamano: ovviamente anche lei veniva punta. Mi sono accorto che da lì in poi le arnie aumentavano ancora. Allora mi sono fermato e sono tornato un po’ indietro. Mi sono messo sulla testa l’asciugamano bianco anch’io. Siamo stati fermi.

Ma immaginate di avere intorno a voi, al vostro viso, una piccola nube di api evidentemente piuttosto inferocite. Si cerca di non perdere la calma, ma non è facile, specie quando un’ape supera la rudimentale protezione del telo da bagno e vi va sull’occhio, o sulle labbra. La calma svanisce di colpo, allora, e tutto diventa frenesia di sbattimento dell’asciugamano, e agitare le mani per tenere le bestiole lontane dalle parti vitali.

Sono passate due moto. Le api intorno a me scompaiono di colpo. Che abbiano preferito seguire quelli in moto? Tiro un sospiro di sollievo, ma dopo qualche minuto la nube si torna a formare. Un’ape si lancia all’attacco, entra nella fessura e mi punge sul naso, sulla narice sinistra. Dopo un poco un’altra conquista la mia fronte. Chiudo l’asciugamano più che posso, ma ovviamente entrano da sotto. Quella che si posa sulla mia guancia riesco con la mano a buttarla a terra, e poi la pesto. E’ la mia unica vittoria.

Poi, finalmente, non so dopo quanto tempo, passano un furgoncino e una macchina. Ci buttiamo per fermarli, urlando “bees, bees”. Sulla macchina ci sono due ragazze italiane, a cui possiamo spiegarci; e ci fanno salire, sigillando poi i finestrini. Fine dell’avventura. Ora si scende senza difficoltà a Palionissos, in pochi minuti.

Le due ragazze discutono un attimo su come evitare Nicolas, il ristoratore che conosce tutti per nome e ferma tutti. Ma tanto noi vogliamo fermarci a bere un caffè, e quindi le ragazze concludono che possono farla franca a nostre spese. In effetti Nicolas ferma davvero tutti quelli che passano a piedi per lo stradello che porta al mare, a metà del quale sta la sua taverna, rivolgendosi a ciascuno nella sua lingua. Parla italiano, francese, inglese e tedesco abbastanza bene (l’ho sentito), e ha detto che parla pure svedese e sta studiando lo spagnolo e il turco. Tutto, ovviamente, per agganciare i turisti.

Nicolas ha fatto l’insegnante elementare per molti anni, poi si è trasferito a Palionissos. E’ riuscito a farsi costruire e asfaltare la strada, facendo arrivare sul luogo molta più gente. Così, per qualche anno la sua taverna è andata a gonfie vele. Anche troppo gonfie, così che altri hanno aperto altre due taverne, però direttamente sul mare, mentre la sua è almeno a 300m nell’interno. Due taverne una di qua e una di là dalla baia, con gran veduta e arietta fresca. Per questo motivo, Nicolas è ora costretto ad agganciare tutti quelli che passano, a raccontare la sua vita e mostrare le sue foto, in modo da stabilire un rapporto umano e implicitamente costringere i turisti a tornare lì, quando sarà ora di pranzo.

E così abbiamo fatto noi. Abbiamo mangiato bene, però la mussakà di ieri era migliore della sua di oggi, e forse le spugne marine che ci ha venduto non erano proprio a buon prezzo. Ma Nicolas è molto gentile, e sa farsi apprezzare.

La baia di Palionissos è bella e stretta, con attorno montagne alte e aspre, come sempre qui. Ci siamo sdraiati sotto un’opportuna tamerice, molto grande e ombrosa, vicino a una coppia di anatre che salivano e scendevano nello specchio d’acqua davanti a noi, un piccolo molo con una barca, prima del mare vero e proprio.

Sono passate alcune ore pigre, con un bagno nell’acqua molto limpida e la gita da Nicolas per il pranzo. Le punture delle api hanno smesso abbastanza rapidamente di bruciare (è adesso, molte ore dopo, che torno a sentire indolenziti alcuni di quei punti). Sono andato avanti nella lettura del primo dei libri che mi sono portato dietro: Sacrosanctum, di Roberto Tagliaferri. Un libro di teologia, o qualcosa del genere.

Dunque, perché io, che sono non credente dall’età di sedici anni, leggo libri di teologia? Dovrei dire, in realtà, leggo libri di Tagliaferri, perché sono soprattutto quelli il mio contatto con la teologia, ma in verità ce ne sono anche altri, specie sul tema del misticismo. Diciamo che trovo una convergenza interessante tra questi temi e quelli della fruizione estetica, e ci sono in certe posizioni teologiche delle idee molto fertili applicabili al senso dell’arte. Ho scoperto Tagliaferri perché si occupa di rito, che è un tema che ha iniziato a interessarmi perché è contiguo a quello del ritmo, di cui mi occupo da anni. E’ andata a finire, tra l’altro, che Tagliaferri sta anche pubblicando un libriccino sul ritmo, che avrà la mia Prefazione.

Tagliaferri non è solo un teologo, e professore di liturgia a Santa Giustina (Padova). E’ anche un prete. E ci sono alcune cose che non capisco. Non perché sia un prete esemplare: come prete è decisamente anomalo. Ma resta tale, e quindi evidentemente credente, e non ci sono dubbi su questo.

Il libro, Sacrosanctum, affronta il problema del sacro e del santo nel cristianesimo e nella cultura contemporanea. Inizia con alcune rassegne di posizioni sul tema: prima ci sono le posizioni dei teologi, che, con poche eccezioni, hanno screditato il sacro in quanto comune a tutte le religioni, specie le antiche, in nome di una diversità e novità del cristianesimo. Poi ci sono quelle dei fisicalisti, o scientisti: i filosofi o scienziati alla Dennett o alla Dawkins che sostengono l’assurdità della religione (e del sacro) in nome della posizione materialista, nella quale queste cose non trovano posto. Poi si prosegue con altri autori più vicini alla fenomenologia, come Gregory Bateson, che,  senza essere religiosi, danno un certo rilievo al tema del sacro, considerandolo come un apriori, o come Roy Rappaport, che vede nel rito l’origine del sacro, e nella coppia rito/sacro la base stessa della vita sociale (il suo librone su questo tema sarà la mia prossima lettura estiva). E poi si arriva ai fenomenologi veri e propri, in particolare Husserl, ma anche lo Heidegger giovane (1920) del saggio sulla religione, e il teologo Rudolf Otto. E la mia lettura si è, al momento, fermata qui.

Nel leggere la parte sugli scienziati fisicalisti (o naturalisti, come preferisce chiamarli Tagliaferri), non ho potuto fare a meno di portare avanti questa riflessione: c’è qualcosa che unisce strettamente la posizione scientista (fisicalista, naturalista) a quella del credente cristiano, a dispetto dell’ateismo della prima. Si tratta del problema dell’esistenza di Dio, negata o asserita che sia. La si asserisce in nome della fede (strana parola, in effetti), la si nega in nome della materia, in cui Dio non trova posto. Eppure anche l’ateismo costruito in questo modo si basa su una fede.

A metà del Settecento, David Hume dimostrò l’infondatezza dell’idea di causa, mostrando con chiara evidenza che non è possibile osservare la causa in natura, nella quale si osservano solo fenomeni in sequenza, magari in sequenza regolare, ma non direttamente cause ed effetti. Cinquant’anni dopo, Kant risolse genialmente il problema portando la causa all’interno del soggetto che comprende e interpreta: la causa sarebbe cioè per Kant un a-priori, un trascendentale, qualcosa che noi applichiamo in maniera automatica alla spiegazione dei fenomeni naturali, ma che non è in natura, bensì in noi, nel nostro modo di conoscere il mondo.

I fisicalisti scientisti sembrano aver dimenticato oggi Hume e Kant, e si comportano come se le cause esistessero in natura. La loro è una vera fede (nel senso cristiano) nell’esistenza della causa, perché non vi è modo di dimostrare la sua esistenza (o non esistenza) in natura. Bisogna credere che la causa esista materialmente per poter essere davvero materialisti in questo modo – un modo che a me appare davvero ingenuo, a questo punto.

La fede del materialista nell’esistenza della causa è strettamente speculare a quella del cristiano nell’esistenza di Dio. Materialista e cristiano parlano lo stesso linguaggio, condividono le medesime premesse, solo che uno ha fede nell’esistenza della causa, e l’altro ha fede nell’esistenza di Dio.

Una fede vale l’altra, verrebbe da dire. Eppure, se, insieme alla causa, considerassimo trascendentale non solo il sacro ma anche l’idea stessa di Dio? Questo vorrebbe dire che Dio non si trova nella natura, materialmente o spiritualmente, immanentemente o trascendentemente, bensì dentro di noi, nelle forme stesse della nostra conoscenza, ed esiste nel senso stesso in cui esiste la causa, ovvero come modalità di comprensione del mondo.

Penso che potrei accettare un’esistenza di Dio intesa in questo modo, tuttavia è evidente che un Dio trascendentale sarebbe qualcosa di ben diverso da un Dio trascendente! Sarebbe, prima di tutto, una forma del nostro rapporto con il mondo, dove l’espressione “nostro” andrebbe presumibilmente a comprendere non solo l’universo umano, bensì, batesonianamente, tutto l’universo del vivente, quello che lo stesso Bateson chiama la creatura.

Si potrebbe fondare il cristianesimo su un Dio trascendentale (ed eventualmente trascendente solo attraverso e all’interno del trascendentale)? Io ne dubito fortemente, anche se ho già trovato un’idea simile in un altro teologo singolare, Raimon Panikkar, che sostiene che la religione, o almeno la teologia, ha finalmente superato il problema dell’esistenza di Dio; e credo che Panikkar alludesse a posizioni simili a quella che sto descrivendo (il libro in cui ne parla è Mito, fede ed ermeneutica).

Bene, tornando a Tagliaferri, ecco che trovo nel suo libro, nelle pagine dedicate a Husserl, esattamente le conclusioni a cui ero arrivato poco prima, e l’esplicita descrizione di un “trascendente trascendentale”. Ora, se da un lato questo rafforza la mia convinzione che la posizione di Tagliaferri è davvero interessante, dall’altra mi conduce a domandarmi come possa essere questa la posizione di un cristiano, di un credente, di un prete. E’ davvero possibile negare il problema dell’esistenza di Dio (il problema stesso, non la sua risposta!) permanendo ugualmente all’interno di una Chiesa che ha fatto di tale esistenza il suo cardine per duemila anni? Era già stata la posizione di Rudolf Otto, autore, negli anni Dieci del Novecento, di un libro sul sacro che ebbe grande influenza sul pensiero di Husserl, e su varie scienze della religione dei decenni successivi sino a oggi. Non c’è dubbio che la religione regga benissimo queste posizioni, ma l’idea di Dio non va un po’ a ramengo quando la si riduce a trascendentale, ovvero quando ci si rende conto che non c’è altro modo di mantenerla, perché l’idea della sua esistenza nel mondo (materiale o trascendente) è insostenibile? Perché Rudolf Otto e don Roberto Tagliaferri possono continuare a ritenersi cristiani, mentre io, che sembro pensarla come loro, non mi sento cristiano e potrei definirmi soltanto agnostico?

Questa riflessione conclusiva (per ora) viene fatta verso le 23.30, sul tavolino davanti la mia stanza, in una bella serata né calda né fredda. Si sta semplicemente bene. Forse per via dello zampirone tra i miei piedi non sono stato nemmeno disturbato dalle zanzare. Domani giornata tranquilla, giri piccoli, mare, lettura.

Kalinikta.

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Diario di Kalymnos. Primo giorno

Poco meno di un anno è passato dalle ultime cose che ho scritto per questo blog, con qualche sparuta eccezione di occasione, e con l’eccezione costante delle poesie riportate dall’altro blog “Ancora un altro me”. Sopra un certo grado di gravità, la malattia ti toglie il tempo, e soprattutto l’energia, il desiderio di impegnarsi in attività di carattere pubblico, come la scrittura. Poi, piano piano, si guarisce, e allora la voglia torna, ma magari manca l’occasione, il motivo specifico per rimettersi a scrivere.

Ho chiuso il blog con un diario di viaggio dall’India, in una situazione in cui ancora non lo sapevo, ma ero già malato. La consapevolezza è scoppiata appena tornato a casa, ai primi di settembre. Le cure sono iniziate poco dopo. La mia testa era impegnata con problemi di sopravvivenza, di cui non mi andava di scrivere.

Le cure sono state pesanti. Ci vuole meno tempo a guarire da un cancro (quando si guarisce) che a guarire dalle cure per il cancro. La cura è durata due mesi; sono invece in “convalescenza” da otto, e non è ancora finita, perché, anche se ora sto bene, e riesco a fare quasi tutto, è il “quasi” a fare la differenza, e sarà la sua scomparsa a decretare il rientro completo nella normalità.

Ho dunque chiuso il blog con un diario di viaggio, e mi è piaciuta l’idea di riaprirlo ora con un altro diario. Questo sarà meno esotico e avventuroso, e magari mi si spegnerà tra le mani per l’insufficiente interesse… ma magari no. Staremo a vedere.

Sono a Kalymnos, esattamente qui, località Emboriò. Arrivato ieri sera, dopo un viaggio facile e fortunato. Siamo partiti a mezzogiorno da casa, trasportati da un amico troppo gentile, alle 13.55 l’aereo ha decollato per Kos, ed è atterrato in lieve ritardo alle 17.35 ora locale. Nonostante l’attesa per il bagaglio, il taxi è riuscito a portarci a Mastichari in tempo per un traghetto che sarebbe dovuto partire alle 18, e invece ha aspettato qualche minuto magari apposta per i passeggeri come noi. Così che io sono salito sul pontone delle auto mentre già incominciavano ad alzarlo. E qualche minuto dopo eravamo in mezzo al mare. E io facevo fatica a crederlo. Troppo poca la distanza temporale con le dimensioni familiari di casa e dell’aereo! Essere proiettati di colpo in un luogo quasi mitologico, che ancora la tua testa non è pronta, come scaraventato dentro la vacanza, il viaggio…

Abbiamo mangiato molto bene dai padroni di casa, Harry’s Paradise, in una taverna bella, tra le bouganville e gli ulivi, nonostante qualche zanzara. La camera è semplice ma comoda, al piano terra col mare a pochi metri in fondo alla discesa, dietro le tamerici.

Stamattina mi sono alzato tardi (Daniela era già uscita, fatto un giro, il bagno). Abbiamo sistemato i bagagli, mangiato yogurt con il miele (lo yogurt greco praticamente solido) e bevuto il caffè (ellenikì, con tanto zucchero perché ancora la mia lingua soffre molto l’amaro). Poi ci siamo armati di zainetto (con maschera e pinne) e bacchetti da comminata, e ci siamo avviati lungo la costa verso ovest, per arrivare qui, una spiaggia vista sulla mappa e su Google Maps. Non molto lontana, in verità, ma ancora non sono tornato in forze come prima, e devo dosare le distanze. Inoltre, era già mezzogiorno.

Nonostante il sole alto, non si sudava però. C’era una brezza gentile, gratificante soprattutto in salita, quando lo sforzo si fa sentire. Siamo arrivati in meno di un’ora. Lungo il percorso, altre tre spiagge notevoli, e due più piccole e difficilmente accessibili. Nelle tre maggiori, c’era sempre qualche albero a fornire rifugio. Nella nostra di destinazione non c’erano alberi, ma una funzionalissima caverna.

Abbiamo fatto il bagno. La spiaggia è però rivolta a ovest, la direzione da cui viene il vento. Quindi il mare è un po’ mosso e l’acqua un po’ torbida. Era meglio di là. Il luogo però è spettacoloso, e naturalmente non c’è nessuno, ma proprio nessuno, a parte le capre. Siamo rimasti, a oziare, leggere e fare qualche foto, per un due o tre ore. Poi siamo tornati.

Anche sulla via del ritorno, come all’andata, una delle cose che mi hanno colpito di più sono stati gli odori. Oltre a quello generale, di mare, del luogo, le piante, mosse dai miei bacchetti, ne liberavano altri. E ogni tanto mi chinavo a strappare una fogliolina. Cercavo l’origano, ma non l’ho trovato. C’era invece timo a perdita d’occhio, e altre piante aromatiche, di cui una simile a un piccolo rosmarino, dal profumo pungente di mentolo; e poi ancora altre, dai profumi più strani. Profumo di Grecia, profumo di Egeo (si è retorici quando si scrive, quando sei lì, sul luogo, è così e basta).

Ci siamo fermati alla psarotaverna in alto sopra la baia di Emboriò. Davanti il mare è una specie di lago circondato da montagne. Kalymons lo avvolge da tre lati, e sul quarto due isole finiscono di chiudere l’orizzonte. Qui le montagne sono spettacolari. Non a caso una buona percentuale dei turisti che vengono su quest’isola lo fanno per fare climbing, arrampicata. Ci sono un sacco di pareti, e le montagne salgono rapidamente sino a 650 metri. Potranno sembrare pochi, ma quando l’isola è larga 5km, non lo sono.

Domani prenderemo uno stradello che sale e svalica di là. Dovrebbe arrivare a un paesino sul mare con una taverna dove mangeremo. Partiremo alle 6, domattina, per evitare il calore. Ma non lo eviteremo al ritorno. Magari faremo un po’ di autostop. In Grecia speso funziona.

Alla psarotaverna io ho preso una mussakà, davvero enorme, così grande che, in combinazione con l’ora pomeridiana, ha ucciso la mia fame anche per la sera (ho chiuso il buchino rimasto con uno yogurt, poco fa). Poi siamo scesi alla spiaggia sotto. Qui il mare è quasi fermo, protetto com’è da tutti i lati, limpidissimo. Peccato che sul fondo ci sia solo poseidonia, l’erba sottomarina più frequente nel mediterraneo, noiosa e ondeggiante.

Bagno breve, riposo al sole già tendente al basso. Ritorno a casa, doccia e un po’ di lettura. E poi questo tentativo di rito di scrittura. Contatto col mondo. Contatto con la futura memoria. Condivisione con chi ha voglia di leggerlo. Sono seduto di nuovo tra le bouganville e gli ulivi, nel Paradiso di Harry. Intorno ci sono voci basse di turisti (non molti) in varie lingue, e dei padroni di casa in greco.

Kalinikta.

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Diario d’India. Da Delhi

Ok. Direi che questa e’ l’ultima puntata del diario. Stamattina sono arrivato a Delhi da Khajuraho con un viaggio meno massacrante del solito. Delhi mi vuole meno male dell’altra volta, ma solo perche’ mi e’ diventata piu’ indifferente. Una volta raggiunto il limite, tutto scorre su di noi come acqua.

Giornata di riposo e di shopping a Connaught Place. Mio figlio ha bisogno di scarpe sportive, e qui le stesse marche (Nike, per esempio) costano meno di un quarto che in Italia. Quindi si approfitta dei negozi fighi di qui, dove c’e’ il passeggio e lo struscio.

Abbiamo anche preso un caffe’ freddo in una sorta di caffetteria italiana, e una fetta di torta. La fetta di torta messa in vetrina come esempio era grande il doppio di quella che ci hanno portato, e il tutto ci e’ costato come un pranzo per due in un ristorante dai prezzi alti, 500 rupie (insomma 6 euro, poco meno di quello che avremmo speso da noi).

Infine, tuktuk per tornare. Sono distrutto. Domani ultimo giorno, e sono cosi’ sicuro che sara’ senza storia, dato l’approccio stanco con cui mi avvicino ormai all’India, che (salvo sorprese) il diario si conclude qui.

Non vedo l’ora di bere un caffe’ vero. Sono proprio italiano.

Namaste’.

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Diario d’India. Da Khajuraho

In attesa di abbandonare Khajuraho, con il treno per Delhi delle 18:20, qui piove, piove, piove, piove. Siamo arrivati ieri mattina verso le 6. Ci siamo sistemati in albergo. Abbiamo fatto colazione, e alle 8 eravamo gia’ a vedere i templi induisti piu’ belli del mondo. Cosi’ vengono presentati, e bisogna dire che la presentazione, eccessiva come tutte le presentazioni, non e’ pero’ molto lontana dal vero.

Effettivamente questi templi sono i piu’ belli che io abbia visto, persino piu’ belli di quelli straordinari del Tamil Nadu. La differenza e’ che la’ ce ne sono tanti, mentre qui nel nord ci sono solo questi. Il resto l’hanno distrutto gli invasori islamici intorno al XII secolo. Questi si sono salvati perche’ stanno fuori dal mondo, all’epoca in mezzo alla jungla, nella quale sono poi rimasti dimenticati sino al 1830, quando qualcuno del luogo ci ha portato un archeologo inglese.

Bellissimi come architetture, straordinarie le sculture. In tutto questo, le troppo celebrate sculture erotiche sono solo la ciliegina su una torta gia’ ricchissima.

Ci abbiamo passato sei ore, e io ci sarei rimasto ancora. Ma morivamo di fame. E poi, mangiando, ha iniziato a piovere, e non ha ancora smesso.

All’inizio ci siamo dimostrati impavidi: mantella impermeabile, e via. Tanto qui la pioggia raramente dura piu’ di mezz’ora. Abbiamo incontrato dei ragazzini, uno dei quali, incredibilmente, parlava un buon italiano; e questo ci ha proposto di visitare il villaggio vecchio, appena piu’ in la’.

Di mezz’ora in mezz’ora la pioggia non solo non smetteva, ma diventava sempre piu’ fitta. Le nostre mantelline si dimostravano molto buone, pero’ alla lunga, iniziavano anche loro a toccare i loro limiti.

Il ragazzino ci ha mostrato il quartiere degli intoccabili e il loro tempio (in campagna le caste sono ancora ben vive!), e poi quello dei commercianti, e poi le case piu’ ricche dei “guerrieri”, e infine quelle dei bramini. Il paese e’ diviso in aree, di vivibilita’ ben differente.

E ci ha portato alla scuola, un piccolo capolavoro di volontariato civile, autofinanziata (anche grazie ai turisti come noi portati li’ da ragazzini come lui), dove si vedevano diverse classi fitte fitte di ragazzi di varie eta’. Non che non esista anche la scuola pubblica, ma la scuola pubblica non ti da’ gli strumenti materiali (quaderni, penne, libri) e molti non hanno i soldi per comperarseli da se’. Per questo preferiscono la scuola dei volontari, dove queste cose ci sono. Li’, ci spiegava orgoglioso ill direttore, non ci sono differenze di casta o di religione o di ceto sociale.

E poi, via. Sotto il diluvio di nuovo, catinelle e catinelle, evitando le docce che scendevano dai tetti. Alla fine abbiamo dato qualche soldo anche al ragazzino e siamo tornati, fradici.

Ieri sera, mio figlio aveva un attacco di dissenteria di quelli da India. Stamattina (dopo anche le notte passata ad assisterlo) mi sono alzato col mal di schiena. E piove. E non abbiamo voglia di uscire da qui sotto l’acqua. Tra poco arriva il riscio’ che ci porta in stazione.

Peccato per il posto con i templi induisti piu’ belli del mondo. Non avevo ancora visto tanta acqua in India, specie da un monsone che virtualmente e’ gia’ finito.

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Diario d’India. Da Varanasi/Banaras (ancora ancora)

E infatti e’ piovuto. A scrosci da gran temporale, poi fino fino per un po’, e poi ancora a scrosci, e poi e’ calato in un gocciolamento sporadico che e’ proseguito tutto il giorno. La temperatura e’ scesa a un livello accettabile. Il livello di merda di vacca nelle stradine e’ salito perche’ l’acqua le ha gonfiate e semisciolte. Basta camminare due secondi ammirando la bella guglia di un tempietto li’ sopra, che il piede fa splosh nel bel mezzo di una grande merda di vacca. E allora le acque del Gange diventano salutari anche per noi occidentali schifiltosi, perche’ rispetto al resto sono davvero pulite e purificatrici. Anche ieri mattina lungo giro verso il centro citta’ evitando i vicoli inondati, poi un po’ di shopping, e due chiacchiere con una coppia di italiani che ci avverte che la Brown Bread Bakery segnalata dal Lonely Planet in cui abbiamo mangiato la sera prima (piuttosto deludente: il pollo tandoori mi ha girato nello stomaco tutta la notte) e’ un falso. La Brown Bread Bakery vera e’ 10 metri piu’ in la’.

Insomma, evidentemente qui non c’e’ una legge che protegge i nomi commerciali, e questi hanno aperto un locale con lo stesso nome, lo stesso avviso (“Segnalato dal Lonely Planet”) e financo lo stesso menu’ (salvo avvisare, per gran parte delle portate, che questo non c’e’, arriva domani, e’ finito), 10 metri prima, e drenando quindi gran parte dei turisti che arrivano da li’ (che e’ la direzione da cui si arriva piu’ spesso). Hanno addirittura copiato la vetrina in basso.

Siamo andati a mangiare alla vera Brown Bread Bakery, dove in effetti il cibo e’ molto migliore, e si sta in una terrazza all’ultimo piano, con gran veduta sul Gange, dentro una fitta gabbia. Intorno, infatti, vive un’agguerrita tribu’ di scimmie, che non darebbero pace a chi mangia se non fossero tagliate fuori. Quindi: umani in gabbia a mangiare, e scimmie fuori, a guardarci. (si paga anche molto di piu’, pero’ hanno persino il formaggio!)

Niente tramonto. Il cielo e’ stato uniformemente coperto tutto il giorno, e verso sera e’ semplicemente calata progressivamente la luce. Alle sette io ero cotto. Ho preso un riscio’ e mi sono fatto portare all’hotel. Alle otto dormivo gia’.

Non so che cose mi stanchi tanto in questa citta’. Tutto e’ molto forte. Abbiamo trovato, quasi per caso, un bellissimo tempio nepalese, sulla riva del fiume, tutto intagliato nel legno, con di fianco una scuola di sanscrito. Un monaco ci ha indicato un anziano signore alla finestra, dicendoci di fotografarlo, perche’ quello e’ uno swamiji, ovvero un santo, un saggio. Anche li’ c’erano un sacco di scimmie. A un certo punto una scimmia abbastanza giovane si e’ lanciata su un’anziana signora seduta e la ha abbracciata da dietro come se volesse aggrapparsi alla mamma. Grido di spavento della signora, e poi tutti a ridere – e i ragazzi a lanciare sassi alle scimmie.

Da li’ qualcuno ci ha portato al ghat dove cremano i morti, quello piu’ importante. Ci voleva anche far prendere una barca, per vedere piu’ da vicino. A me e’ bastato arrivare dove sono arrivato, sulla riva dove c’era la fila dei cadaveri sulla barella di legno, tutti ricoperti di lustrini. In questa atmosfera surreale, mentre guardavo verso il fiume, mi sono sentito leggermente urtare e, girandomi, avevo il viso, scoperto, di un nuovo cadavere in arrivo proprio a pochi centimetri dai miei occhi.

Questione di un attimo. Poi anche la sua barella e’ stata appoggiata per terra, a fare la fila. E io, via. Ho gia’ disturbato abbastanza i morti indiani e i riti dei vivi. Quasi mi meraviglio che tollerino la presenza di turisti. Basta cosi’.

E basta cosi’, oggi, anche con Banaras (qui la chiamano tutti cosi’). Stasera si prende il treno per Khajuraho, che speriamo sia un po’ piu’ ridente. Sono un po’ soverchiato da questa esperienza. Forse non sono nemmeno del tutto in salute. Mangio poco. Direi che sono decisamente dimagrito. Mi mancano i miei, di riti. Anche scrivere queste righe e’ qualcosa che mi riporta a un contesto familiare, normale.

Dopo magari mi manchera’ l’India. Per adesso mi manca casa.

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Diario d’India. Da Varanasi/Benares (ancora)

Qui la vacanza si avvia al termine, ma in crescendo. Il Gange e’ sempre un poco piu’ alto, e ieri sera, per raggiungere un ristorante un po’ lontano, siamo stati costretti a un’affascinante gimkana per vicoletti poco illuminati (sino a perderci), perche’ la via diretta era invasa dall’acqua del fiume, sino al ginocchio (e nei vicoletti l’acqua non e’ proprio quella del fiume: solo a immaginare il mefitico miscuglio la mia coscienza di occidentale rabbrividisce). Poi, il nostro maitre ha previsto che nel giro di due o tre giorni l’acqua arrivera’ alla main road, dove sta il nostro albergo. Andremo a prendere il treno in barca.

In compenso, minaccia di piovere e non piove. Il maitre ha detto che quest’anno qui e’ piovuto molto poco. Il monsone si e’ sfogato sulle montagne, provocando questa piena inconsueta del fiume (quarant’anni, o piu’, che non era cosi’ alto). Quindi, fa un caldo bestia.

Ieri, andando in un paese qui vicino di cui non riesco a tenere a mente il nome, visitando i luoghi in cui il Buddha fece la sua prima predicazione, il caldo era tale che mi scendevano le gocce di sudore dappertutto. Pero’, cacchio! (si puo’ dire cacchio?) eravamo li’, sotto un ficus religiosa cresciuto da un rametto di un albero che si trova a Sri Lanka (e che io vidi molti anni fa), a sua volta ricavato da un rametto del ficus sotto il quale Siddharta ebbe la sua prima illuminazione sul rapporto tra desiderio e dolore, in un luogo a pochi chilometri da qui. Siate buddisti o no (e io no) vi sfido a venore in un posto del genere senza che un brivido vi corra costantemente addosso. Siddharta e’ stato un uomo di una sottigliezza di pensiero ineguagliabile. Prima che Platone fondasse la filosofia occidentale, lui era arrivato a conclusioni che sotto certi aspetti non sono lontane da quelle della Dialettica Trascendentale di Kant. E, comunque la si pensi, quel primo discorso ai suoi discepoli ha fatto la storia.

Attorno ci sono templi e santuari costruiti da tutte le nazioni buddiste dell’Asia: ovviamente i tibetani, i tailandesi, i giapponesi, Sri Lanka… Il discorso del Buddha, attorno al luogo sacro, e’ riportato molte volte in ciascuna lingua (e relativa scrittura) di tutte le nazioni in cui il buddismo e’ presente. Uno spettacolo di forme di scrittura differenti! (io sono piuttosto sensibile al tema)

Poi ci sono le rovine dell’antica citta’, distrutta dagli invasori musulmani nel XII secolo (sempre loro), con tutti i monasteri e gli stupa. E poi il museo, dove sta il capitello con i leoni che e’ il simbolo dell’India, e sta sulle monete.

L’altro ieri, invece, siamo stati oggetto di una ridicola truffa. Siamo partiti, per vedere la parte meridionale della citta’, e dopo poco abbiamo conosciuto un simpatico tipo, che parlava bene inglese, e si e’ presentato come bengalese, e (stranamente) non ci chiedeva dei soldi. Ci ha raccontato delle cose del posto in cui eravamo, della sua vita, del suo mestiere. Poi quando gli abbiamo detto che stavamo andando in un certo posto, ha detto che ci stava andando anche lui, e che ci accompagnava.

In breve e’ diventato la nostra guida, e ci ha in effetti accompagnato in posti che non avremmo trovato senza di lui. Poi ci ha aiutato a prendere un riscio’ per arrivare al palazzo del maharaja di la’ dal fiume, contrattando sul prezzo, ci ha portato a mangiare, rifiutando l’offerta di mangiare con noi (perche’ aveva gia’ mangiato, e non voleva farci sperperare denaro), e alla fine, quando siamo andati a vedere un museo (che lui gia’ conosceva) si e’ offerto di andare lui a comperare un oggetto che sapeva che stavamo cercando, e che lui sapeva dove prendere a un costo piu’ basso.

Cosi’ gli abbiamo affidato una piccola cifra, 400 rupie (5 euro), non sospettando nulla, anche perche’ non ci sembrava plausibile essere truffati per quell’importo. Piu’ probabile – ci sembrava – che ci chiedesse qualcosa alla fine per tutti i servizi (e tra quello, e un po’ di commissioni chieste nei posti dove ci aveva portato, probabilmente avrebbe guadagnato di piu’).

E invece e’ scomparso. All’ora dell’appuntamento non si e’ visto. L’abbiamo aspettato mezz’ora e niente. Il taxista ci ha fatto una faccia come per dire: e’ ovvio! Potevate capirlo anche prima. Si’, va bene, siamo italiani, quindi anche un po’ napoletani: ma cinque ore di lavoro per truffare cinque euro e’ qualcosa a cui non potevamo credere. Troppo ridicolo per essere vero!

Un’ultima osservazione. I vicoletti di Varanasi sono affollati, ma la dimensione e’ ancora umana. Ma le strade, specie verso sera, sembrano una specie di succo vischioso fatto di persone, vacche, cani, bici e motociclette, che scorrono in una direzione o nell’altra con un flusso localmente schizofrenico ma nel complesso regolare. E tu ci sei dentro e ne sei parte. Non avevo mai visto tanta gente stabilmente ammassata insieme. Stabilmente: cioe’ non in occasione di un particolare evento, ma perche’ questa e’ la norma. Un Gange di gente (e mucche, e cani, e biciclette, e riscio’ a pedali, e moto, e clacson, e clacson, e clacson…)

Ah, i tori di Varanasi sono i piu’ grandi che abbia visto in India. Stanno li’, in mezzo alla strada, tranquilli ed enormi. Tutti li scansano. Sono sacri, e loro sanno benissimo di esserlo.

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Diario d’India. Da Benares/Varanasi

Siamo arrivati nella citta’ piu’ sacra dell’India ieri mattina, dopo una massacrante notte in treno, che faceva seguito a una giornata di automobile (10 ore filate) per fare i 250 km di strada tra Pithoraghar (media montagna himalayana) a Bareilly (pianura – ci passa il treno che porta da Delhi a Varanasi).

Dopo le giornate tranquille ad Almora, abbiamo cercato inutilmente un luogo diverso ma altrettanto fascinoso e rilassante. Pithoraghar sembrava il candidato giusto: all’incirca la stessa altitudine, ma un po’ piu’ vicino alle vette che da Almora non si riescono a vedere, causa nuvole (salvo qualche rarissimo momento, con qualche squarcio).

In realta’ Pithoraghar si trova in una conca, bella ma cieca. E la passeggiata che abbiamo fatto su una delle montagne attorno e’ stata molto bella, ma non ci ha mostrato le vette. In compenso ci siamo quasi persi. Dando fede alle asserzioni di due persone diverse e indipendenti tra loro, abbiamo preso uno stradello molto spettacolare che doveva portare a valle.

Dopo circa un’ora di cammino, abbiamo chiesto conferma a un vecchio pastore, dicendogli il nome del paese a cui pensavamo di arrivare, e lui si e’ sforzato in tutti i modi di farci capire che di li’ non ci si poteva arrivare. Molti dubbi; lui sembra molto convinto, ma capivamo bene quel che intendeva dirci? Avevamo due conferme contro una smentita.

Per fortuna e’ passata una jeep piena di sardine, e abbiamo chiesto al conducente, che ci ha confermato le parole del pastore. Ma don’t worry, five kilomters and I’m back. Fantastico! Almeno abbiamo il ritorno assicurato. E cosi’ e’ stato, in 17 sulla jeep, con anche due persone in piedi attaccate fuori.

Qui e’ ovviamente un altro mondo. Fa caldo, e il Gange e’ altissimo. I ghat, cioe’ le scalinate che scenderebbero al fiume, sono completamente sommersi. Qualche giovane ci dice che nella sua vita non ha mai visto il fiume cosi’ alto. Dall’acqua emergono le sommita’ dei lampioni che illuminano la passeggiata dei ghat. Bisogna andare per stradelli, ed emergere sul fiume ogni volta che si puo’. Qualche strada e’ del tutto sommersa, e ci arrivano le barche anziche’ le automobili. In un punto non possiamo che bagnarci i piedi sino alla caviglia per passare, in questo miscuglio di acqua del Gange (con tutte le sue virtu’) e acqua delle canalette cittadine (insomma, piccole fogne all’aperto).

Su quel che emerge dei ghat ci sono molte persone, specie vecchi, che si immergono. Molti anziani vengono ad abitare a Varanasi per morirci, perche’ morire qui facilita il superamento del samsara, ovvero del ciclo doloroso delle reincarnazioni.

Abbiamo visto anche le pire dove bruciano i morti, e una parte del rito funerario. C’e’ un ghat apposta. Ora e’ sommerso. Quindi tutto succede nel vicolo subito dietro. (solo uomini a operare ed assistere: le donne si commuovono troppo, e l’anima del defunto che gira li’ attorno sarebbe ostacolata al distacco definitivo, dal pianto di una persona cara).

Ci portano a vedere un negozio di sete. Facciamo acquisti. Troppo belle. Ci portano qui e ci portano la’. Qui il turista e’ come il maiale: non si butta via niente. Tutte le sue parti sono buone da sfruttare. Stamattina ci hanno portato all’alba (ore 5) a fare un giro in barca, per un prezzo che e’ solo il doppio di quello indicato dal Lonely Planet. Suggestivo, ma solo in parte, e per troppo poco tempo: non arriviamo nemmeno ai ghat principali.

E il Gange e’ altissimo. Oltre alle sommita’ dei fari di illuminazione, emergono le guglie dei tempietti sui ghat. E’ tutta un’altra cosa rispetto alla Varanasi delle foto turistiche, nelle quali, dal fiume, le case sopra sembrano quasi in collina. Qui il fiume stesso si trova all’altezza di quella collina. Mi immagino quello che sta sotto: siamo sospesi a mezz’aria, dieci metri sopra quello che si vede in quelle foto. La meraviglia e’ nascosta in quest’acqua bigia, che corre veloce portando via qualcosa ogni tanto (anche un cadavere abbiamo visto, ieri).

Ma, nel complesso, Benares non e’ affatto un inferno. Rispetto alle grandi citta’ rumorose dell’India sembra sporca non piu’ che altrettanto, e persino meno rumorosa. C’e’ una bella atmosfera. Si capisce che qui succedono anche cose interessanti. E’ la capitale della musica indiana, e c’e’ l’universita’ piu’ importante del paese.

L’esperienza davvero avvolgente la vivo in in tempio, durante un darshan, cioe’ una cerimonia, con il ritmo ossessionante delle campane al chiuso e fianco alle orecchie, e l’odore del fumo aromatico, e i gesti delle cerimonie, e il caldo, e le rondini che in tutto questo entrano ed escono dalla porta aperta verso il fiume.

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di Daniele Barbieri

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