La tomba di Taide
Taide qui posta fu, la più perfetta
dispensiera de’ gusti al molle amante.
Lettor, s’ardi d’amor, fatti qui inante,
che stesa in questo letto ella t’aspetta.
Questa quartina fu pubblicata dal poeta marinista veronese Paolo Zazzaroni, nel suo Giardino di poesie del 1641. Mi perseguita da quando avevo sedici anni, incontrata la prima volta nell’antologia scolastica del liceo.
Per capirne il senso, saprete forse chi fosse Taide, figura mitica della cortigiana per eccellenza, rappresentata da Terenzio nell’Eunuco, e poi citata da Cicerone e da Dante. Immaginatevi questi versi scritti sulla sua tomba, a descrivere chi fu questa donna in vita, e a esortare chi legge a farsi avanti, che lei lo sta aspettando. Versi in apparenza fin troppo semplici per essere stati scritti da un marinista, ma certamente barocchi in questa sinistra coincidenza stretta di passione sensuale e di morte.
Versi semplici solo in apparenza, in verità calcolatissimi.
La quartina è formata da due distici, entrambi tutti di endecasillabi a majore (accento forte sulla sesta sillaba – ovvero schema settenario+quinario), ma in ambedue i distici il primo verso è dotato di cesura con effetto sospensivo (altrove ho definito composto questo tipo di endecasillabo) e il secondo no. I distici mostrano dunque l’effetto parallelo di una tensione prosodica impostata dal primo verso e risolta dal secondo: ma la seconda risoluzione (sul verso 4) è più forte della prima, perché il verso è interamente giambico, esibendo quindi un ritmo molto più uniforme e disteso dei precedenti.
I primi due versi presentano una semplice descrizione di Taide, fatta di una prima clausola sintattica breve (“Taide qui posta fu”) e da una seconda molto più lunga. Le due espressioni in fin di verso, quelle che sostengono la rima con i due versi successivi, hanno, nella parte rimale (dall’ultima vocale accentata in poi, cioè) ben tre suoni in comune su quattro: “etta” e “ante”. La t è nella medesima posizione, le vocali si trovano invece in posizione invertita. “Perfetta” ha suoni più duri di “amante” (con quella n sospensiva al centro), e l’amante è pure molle.
Il gioco si fa più duro nei due versi seguenti. “Lettor” anticipa la rima con “perfetta”, viene richiamato da “fatti”, e contiene interamente “letto”; inoltre fa rima con “d’amor”, che si trova a sua volta inserito in un’altro accrocchio fonetico nel gruppo “s’ardi d’amor”, dove ritornano a, d ed r, nonché l’effetto sospensivo dopo la r. Il terzo verso è interrotto ben due volte, e queste interruzioni permettono che per ben due volte due sillabe accentate si trovino vicine (addirittura giocando sulle medesime vocali): “Lettòr, s’àrdi”, e “d’amòr fàtti”. Le clausole “s’ardi d’amor” e “fatti qui inante” hanno inoltre la stessa quantità sillabica (sono quinari) e gli stessi accenti. In questo modo, il terzo verso ha un ritmo ondeggiante, fatto di accelerazioni e rallentamenti.
Ecco perciò che, sulla base di questo, l’andamento uniforme del quarto verso ottiene una fortissima valenza conclusiva. Ma l’uniformità del quarto verso non è soltanto prosodica: alla normale distribuzione delle diverse vocali sulle sillabe accentate, che caratterizza gli altri versi, il quarto sostituisce il ritorno ossessivo di una vocale sola, la e. E ci sono altri giochi: la somiglianza tra “stesa” e “questo” è parallela a quella tra “letto” e “aspetta”. Le uniche l del verso si trovano nelle due parole contigue “letto” ed “ella” (e l’ultima l precedente era quella di “lettor”, che partecipa dunque del gioco), suggerendo una qualche identità tra il luogo e la persona (per non dire dell’ingresso in campo del lettore stesso, in questo letto/ella). E poi, last but not least, la rima comunque attesa tra “t’aspetta” (con il suo cupo sapore di morte) e “perfetta” getta ora una strana luce sul tipo di quella perfezione.
Il ritmo giambico ostinato, la ripetizione ossessiva delle e, il ritornare delle t, delle s e delle l danno a questo ultimo verso, nel suo procedere, un senso di conquistata immobilità, specie se a inevitabile confronto con la mobilità ondeggiante del verso precedente. Il brivido che il lettore prova nel sentirsi invitato nel letto di morte della cortigiana dispensatrice di piaceri deriva anche dall’improvviso passaggio dalla danza del verso tre all’immobilità ossessiva del quattro. Insomma, qui la morte ci colpisce non perché descritta, me perché di colpo in qualche modo esperita, in questo passaggio dal movimento all’immobilità, dalla varietà all’uniformità, dall’ardere d’amore che ci spinge avanti all’aspettare stesi in un letto dove ella e il lettore sono congiunti persino nel suono che li evoca.
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