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Esiste la poesia civile?

Ho partecipato ieri sera a uno degli incontri quasi settimanali che si tengono il giovedì presso l’osteria Vamolà, a Bologna, “I giovedì di/versi” (info qui). Ieri sera il tema dell’incontro era la poesia civile, con presentazione di alcune esperienze e dibattito aperto in seguito. Si tratta di una situazione semiinformale, con i pro e i contro del caso. Più strutturata la parte di presentazioni, più selvaggio il dibattito, attorno a un lungo tavolo di osteria (una trentina i partecipanti), con una gestione un po’ anarchica di molte voci desiderose di dire la propria – e, purtroppo, molto rumore di fondo. Ma anche così, il dibattito è stato acceso e fecondo.

Ho finito per non prendervi parte, un po’ subissato dal rumore di fondo che non favoriva la concentrazione, un po’ perché altri hanno detto una parte delle cose che avevo in mente, e un po’ perché non mi era del tutto chiaro quello che mi si è venuto poi chiarendo in seguito, e che voglio provare a esprimere qui. Della conversazione mi sono rimaste due voci (altre dicevano con meno chiarezza cose simili, ad altre ancora non ho avuto accesso acustico, per via del rumore di fondo). Mi perdonino le autrici degli interventi se sarò parziale; e mi perdonino maggiormente se farò loro dire qualcosa che non hanno detto: questo è quello che ho capito e che mi ricordo. Quindi me ne prendo tutta la responsabilità.

Marinella Polidori ha esposto, con molta verve, due tesi che faccio fatica a far stare insieme. In primo luogo quella, che almeno in parte condivido, secondo cui tutta la poesia è civile, purché si sottragga alla logica neoliberista del successo, del farsi vedere, del vendere – che ha ormai assoggettato quasi interamente la narrativa. Poi però, pressata dall’obiezione che così si perderebbe un po’ il senso dell’espressione poesia civile Polidori ha insistito sull’idea di cercare di salvare la parola “civile”, che per lei resta una parola nobile; e la poesia sarebbe civile, dunque, se collegata a un impegno di carattere sociale. A questa seconda versione, non del tutto compatibile con la prima, mi opporrò tra poco, e in parte anche alla prima.

Francesca Del Moro ha obiettato alla prima posizione che esiste anche un legittimo desiderio di riconoscimento e di successo da parte del poeta, e non lo si può ridurre a un asservimento al sistema. Ma soprattutto (su sollecitazione di qualcun altro) ha parlato del proprio recente volume Gli obbedienti,  il cui tema è la vita in ufficio con le sue vessazioni. Riflessione sulla vita o denuncia civile?

Ora, io capisco e mi piacerebbe approvare l’idea che tutta la poesia che non si sporchi le mani con il sistema delle vendite è di fatto civile, ma capisco bene che così facendo si vanifica il senso di “civile”, perché non esisterebbe poesia che non sia civile. La poesia, in quanto tale, ha già scelto la strada della marginalizzazione rispetto alla grande editoria. Se voglio recuperarle un senso, legando la poesia civile all’impegno sociale, finisco per dire che non è così, perché anche tra i poeti non compromessi con l’industria ci sarà chi non si distingue per impegno sociale.

D’altra parte, anche la tesi secondo cui la poesia è civile se non si sporca le mani con il neoliberismo è difficile da sostenere. Supponiamo che un poeta che, come tutti, vive la sua situazione di marginalità culturale ed editoriale, diventi improvvisamente famoso, e i suoi libri inizino a vendere moltissime copie, creando un caso letterario. La stessa poesia sarebbe dunque civile prima e non civile dopo?

Proviamo a guardare le cose in un altro modo. Che cosa è azione civile nel campo della comunicazione? Io direi che è cercare di informare e convincere il maggior numero di persone rispetto a fatti e opinioni che consideriamo politicamente/civilmente rilevanti. In questo senso una graphic novel come Kobane Calling di Zerocalcare è certamente una riuscita operazione di letteratura civile. E’ fatta molto bene, fornisce informazioni e un modo intelligente e originale di vedere le cose sulla cultura dei Curdi e sul loro ruolo di combattenti nella guerra in Medio Oriente. E raggiungerà molta gente, compresi tanti che non si erano mai posti il problema, e che ora saranno magari più sensibili a questi temi.

Se vogliamo sensibilizzare il maggior numero di persone rispetto a una causa come quella del popolo curdo, la graphic novel può essere un ottimo canale, e lo è proprio in quanto inserito in quel sistema dell’editoria di successo cui la poesia è estranea. Tant’è vero che un buon servizio televisivo trasmesso nell’orario giusto potrebbe fare ancora di più (ed è infatti significativo che non lo si faccia). A quanto pare, per la massima efficacia di un’azione (comunicativa) civile la visibilità è essenziale, e quindi l’inserimento nel sistema (neoliberista) dei media.

Se vediamo le cose in questi termini, fare azione (comunicativa) civile attraverso la poesia appare davvero come tempo sprecato, in termini di sfruttamento delle risorse: tempo buttato. La poesia, come di solito accade, sarà letta solo dagli addetti ai lavori, di solito già sensibili ai temi in oggetto – e comunque davvero pochi. Insomma, se quello che ci interessa è fare azione civile, la poesia civile appare come una sorta di fallimento se non di truffa: se l’azione civile ci interessasse davvero utilizzeremmo altri mezzi. L’obiezione che farlo attraverso la poesia nobilita comunque il tema, cosa a cui forse qualcuno crederà ancora, non sposta le carte in tavole: si tratta di una nobiltà che interessa solo ai poeti. E io la trovo anche un po’ demodé, per non dire falsificatoria a sua volta.

E Pasolini, allora, non faceva poesia civile? Pasolini è un buon esempio: a mano a mano che si è reso conto che la poesia non era lo strumento davvero efficace per fare azione civile, la sua poesia si è disfatta in una sorta di prosa argomentativa in versi, che sceglieva contesti di pubblicazione, come i quotidiani, molto adatti all’azione civile e molto poco alla poesia. Alla fine sembra che della poesia gli importasse ben poco. Del resto, il cinema si prestava molto meglio a raggiungere un grande pubblico con temi civili.

Il libro di Francesca Del Moro che abbiamo citato sopra non sarebbe poesia civile, dunque. Io, per chiarezza, abolirei la nozione, che fa pensare che esista un genere specifico, nobilitato particolarmente dalla sua missione civile. Volendola conservare a tutti i costi, la nozione, ne propongo qui di seguito una versione minimale, ma dotata – almeno per me – di qualche senso (e che permette di conservare a Gli obbedienti la qualifica di poesia civile).

Proporsi di fare poesia civile, intesa come modo di usare la poesia per fare azione civile, è una falsificazione; un modo per lavarsi la coscienza, potendo dire di aver agito – mentre si è evitato di agire. Tuttavia fare poesia ha comunque un senso civile, che non è quello dell’azione civile, perché – come diceva inizialmente Polidori – è l’azione stessa di fare poesia anziché qualcos’altro di più compromesso con il potere a essere in sé civile. Proprio questo, secondo me, dovrebbe avere in mente il poeta: essere sincero con se stesso, non darsi fini di persuasione o propaganda (anche in senso positivo, come quella pro-Curdi di Zerocalcare). Potrà poi capitare, a posteriori, che una poesia scritta sinceramente possa essere riconosciuta da qualcuno come un intervento civile. E questo va bene; e questo potrà essere chiamato poesia civile.

Ma si tratta di una valutazione a posteriori, che non aggiunge (né certamente toglie) valore alla poesia. Insomma, la poesia civile potrebbe essere quella poesia  che per qualcuno fa anche azione (comunicativa) civile, e che è buona o cattiva poesia in maniera del tutto indipendente da questo. Troppo spesso, l’entusiasmo per una causa condivisa ci porta a introdurre (se siamo autori) o a perdonare (se siamo lettori) eccessi di retorica che altrimenti eviteremmo. In questo senso, il civile fa frequentemente molto male alla poesia.

Ma ci sono stati grandi poeti nei cui versi echeggiano temi civili: poeti civili, dunque. Credo che la loro influenza sull’opinione pubblica sia stata comunque irrilevante. La poesia è di solito un discorso in cui ci si riconosce, e in cui si trova conferma. Per convincere chi ha opinioni diverse, la prosa argomentativa è già enormemente più efficace; ma anche la narrativa, verbale, filmica, fumettistica, teatrale che sia, funziona molto meglio. Diciamo che è bello incontrare buona poesia in cui scorrono idee civili in cui ci riconosciamo: questo è il massimo che all’idea di poesia civile posso concedere.

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22 comments to Esiste la poesia civile?

  • Un grande poeta americano diceva: “il problema della poesia civile è che parla solo a quelli che la pensano come te” – Io penso che in termini di ‘persuasione’ o anche solo di ‘chiamata’ la poesia civile non è più tollerabile; ha però vissuto una grande stagione, quindi è esistita, immagino possa esistere, ma non ora, non qui. Tendo più alla versione in senso largo: la poesia è civile quando è pensiero critico di un presente condiviso. Il crinale, così, è molto più ampio, ma non ha il problema di distinguere tra mondo poetico e mondo dell’azione pura o della affermazione morale

  • Interessante e lucida analisi. Dato che vengo spesso citata, mi permetto di rispondere. Non credo di aver mai pronunciato la parola “successo” in riferimento alla poesia, esprimevo soltanto insofferenza verso quel senso di colpa che chi fa poesia tende a portarsi dietro, per il fatto di richiamare magari l’attenzione di sei persone e di esserne felice. Nonché di essere affezionato al proprio percorso, di trovarvi un senso del proprio agire e come tale volerlo mantenere come proprio, come parte della propria identità. Ma abbiamo il peccato originale dell’ombelicalità e di questo chiederemo scusa in eterno. Per quanto riguarda l’azione civile della poesia, etichetta che a dire il vero mi piace pochissimo come mi piacciono poco tutte le etichette, prima fra tutti la poesia femminile, io penso che valga sempre la pena scrivere quando si ha qualcosa da dire e si crede di aver trovato un modo per dirlo. Riguardo ai miei Obbedienti, io avevo dell’ottimo materiale sotto gli occhi che ho ritenuto emblematico dell’involuzione del mondo del lavoro e della disaffezione politica di oggi e ho pensato valesse la pena fotografarlo, con lo strumento che mi è familiare. Credo che chiunque lo legga e abbia una idea seppur vaga di dove è arrivato il mondo del lavoro oggi si renda conto che non parla della vita in generale ma di un contemporaneo abbrutimento dovuto a trasformazioni della società ben precise. Le due volte che l’ho presentato ne sono nati dibattiti in questo senso per fortuna. Pensare che non valga la pena raccontare le cose, dire la nostra sul nostro tempo, perché la poesia fatica a uscire dai suoi circoli (ed è vero), pensare che esprimere un “pensiero critico di un presente condiviso” (mi piace molto questa sintetica e completa definizione) con lo strumento della poesia non serva a nulla mi sembra veramente un gettare le armi. Che la poesia possa far cambiare idea a chi la pensa diversamente, è certo difficile, ed è la cosa che anche io ho chiesto la settimana prima all’ideatrice di “Or-dite”. Penso che comunque valga la pena tentare, perché non siamo noi a scegliere quale sia il nostro mezzo espressivo (avrei potuto scrivere un romanzo sull’obbedienza odierna ma purtroppo avrebbe fatto schifo), umilmente ma credendoci e magari sforzandoci di portare la nostra voce come contributo a determinate iniziative in senso politico/sociale. Ho già avuto esperienza di contesti in cui la poesia è arrivata forte e chiara ai non addetti ai lavori, e ho fiducia. Per me tutto quel poco che facciamo, anche se servisse a mettere in moto i pensieri di un paio di persone, conta.

  • Quattro note su la poesia civile.
    Non ero presente al dibattito, quindi mi scuso se partendo dalla mia interpretazione di quanto viene a sua volta riportato da altri, posso forzare/ falsare alcune opinioni.
    Ma fingiamo che io possa aver capito.

    Mi sembra che il dibattito abbia in un certo senso provato a dire che purché si sottragga alle logiche di mercato/successo tutta la poesia è civile. Quindi “tra noi” non esiste poesia non civile.
    Ma credo che il punto stia molto semplicemente qui (e scusate la stucchevole manichieistica assenza di sfumature): (assunto) tutti vorremmo fare poesia civile;
    =>fare poesia civile è difficile e nel 99,9 % delle volte che proviamo, riusciamo a scrivere banalità o versi pieni di retorica e sentito dire;
    => eppure di versi (diciamo) sappiamo scriverne, di non civili intendo =>allora si decide di valore di “civili” a versi che non lo sono, per consolarci;
    =>troviamo però a questo delle interessanti scuse ideologiche che affondano le radici nel nostro recente e personale passato pressappoco rivoluzionario, ricordandoci che da giovani abbiamo urlato “il personale è politico”;
    =>subito ci ricordiamo che è vero che il personale è politico e quindi vale che, se una poesia affronta aspetti personali, è politica e quindi civile (a patto che non si mescoli col mercato, si aggiunge).

    Ma è davvero così? Non è così: non so dove , ma abbiamo imbrogliato.
    Ovvero non è sempre così. Alcune poesie molto personali e molto politiche acquisiscono forza e valore politico dall’essere molto personali. Solo alcune però. Probabilmente accade quando si affronta un tema politico in modo personale ovvero passando dalla pancia, dal vero, da un’esperienza personale “vera”. Mi hanno insegnato, e sono fermamente convinta che sia così, che la poesia che prende valore è quella che è “vera”, che racconta qualcosa che è passato dal sé, l’esperienza: se questo è vero, allora ecco disciolto il nodo.
    Il poeta probabilmente riesce a scrivere poesia civile se è stato dentro alle problematiche di cui parla e ne scrive apparentemente dal suo punto di vista personale che personale non è , perché diventa politico.
    Ecco perché il libro di Francesca Del Moro “Gli Obbedienti “ funziona.
    Allora un poeta non può scrivere di cose civili che non ha vissuto? No. Secondo me no.
    Esiste però la possibilità per il poeta , come per l’attore di concentrarsi talmente tanto o “entrare dentro” o “immedesimarsi (?)” nel sentire o nella vita di altri che è possibile. Ma è davvero raro che l’esito sia degno. Raro che non diventi la narrazione di ciò che il poeta/attore crede che sia, e non di ciò che è. Quindi tutti i luoghi comuni in questo caso rischiano di prendere voce. La poesia ne muore. Se questo non accade evviva, siamo di fronte a un grande poeta. Come a un grande attore. Cioè qualcuno la cui esperienza è talmente grande da riuscire ad entrare dentro ad un personaggio nella sua verità, pur non avendo esperienza diretta di quel tipo di personaggio. Non è molto diverso per la poesia . Il rischio di banalità è altissimo.
    Come esercizio però si può continuare a fare.
    D’altra parte i grandi attori per interpretare personaggi particolari non sono forse andati a vivere in mezzo a gente simile ai personaggi che dovevano interpretare?
    Anche questo come esercizio si può fare.
    Quello che non si può fare (secondo me) è guardare la tv e mettersi a posto la coscienza scrivendo due cose o grandi poemi “politicamente corrette” su un argomento che brucia. E poi tornare a cena in famiglia.

    Certo però che un film parla a più gente. Ma io so fare cose con le parole. E poi per fare film ci vogliono mezzi. Per scrivere basta niente.
    Leila Falà

  • Sono perfettamente d’accordo con quello che dice Leila Falà, credo comunque che la poesia non funzioni diversamente dalle altre arti. Salgado non vive sulla propria pelle i conflitti, le migrazioni che ritrae, va sul posto, li conosce a fondo, li assorbe e li fotografa. E l’immagine è la stessa che potrei fotografare anche io, ma è perché la fotografa Salgado che assume tutta quella potenza. Ha dedicato la sua vita a quelle cose, non ha scritto un pensierino visivo sul fatto del giorno. Conoscenza e arte sono alla base dell’impatto. L’una non può stare senza l’altra, l’arte è un abbraccio di forma e contenuto, della forma vuota io personalmente non ne posso più e il contenuto non sorvegliato, non elaborato, ma schizzato dalla pancia non è diverso da uno sfogo al bar. Vale anche per Ken Loach. Ecco, io sogno una poesia che affronti i temi sociali come il cinema di Ken Loach, una narrazione asciutta, senza fronzoli, che penetra dentro il reale senza bisogno di sottolineature per veicolarlo in tutta la sua potenza. Per trasmettere consapevolezza e scatenare una reazione.

  • Renata Morresi, Francesca Del Moro, Leila Falà, la risposta ai vostri commenti si trova qui: https://www.guardareleggere.net/wordpress/2016/10/31/ancora-sulla-poesia-civile/

  • ho letto Daniele adesso penso, anche se penso pensieri già pensati, l’argomento è caldo. In prima battuta credo che qualsiasi dominazione di arte vada data solo ad uso funzionale, di catalogazione per neccità umana di non perdersi nella vastità dei fenomeni, compreso quello letterario, poi… le etichette non le mettono i degustatori, o meglio, più che etichette, orientamenti, ma è tutto molto arbitrario. Sul fatto di quello che ha detto del sottrarsi al neoliberismo e al successo, che concorderei ma allora dobbiamo rinunciare a quasi tutta l’arte del dopoguerra coltivata dagli stati uniti, ad pollok a Dalì che ha fatto i soldi in america con le pubblicità, qui ce ne sarebbe da parlare per giorni…

  • articolo che mi tocca, perché sto scrivendo cose che si potrebbero etichettare (lato sensu) come “civili”.
    mediterò…

  • comunque, visto che ci sono, ne approfitto per fare un po’ di pubblicità a un amico (anzi, a due: l’autore e l’editore), e anche a un libro veramente bello…
    http://www.pietreviveeditore.it/prodotto/ladatto-vocabolario-di-ogni-specie/

  • Ma sì che esiste la poesia civile. È che non è sempre possibile scriverla: “E come potevano noi cantare
    Con il piede straniero sopra il cuore,
    fra i morti abbandonati nelle piazze
    sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
    d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
    della madre che andava incontro al figlio
    crocifisso sul palo del telegrafo?
    Alle fronde dei salici, per voto,
    anche le nostre cetre erano appese,
    oscillavano lievi al triste vento.”

  • Ciao Daniele, vedo ora la replica, grazie; ora sono a zonzo e su cell, ti leggo bene al ritorno. Solo una cosa da notare: ci rendiamo conto che la poesia è tra le poche arti a porsi ancora il problema? (non ci giurerei ma temo che artisti visivi, scultori o danzatori ci badino assai meno). E perché? Perché la poesia si fa, nella maggior parte dei casi, con la lingua, che è cosa di tutti, quindi politica per eccellenza

    • Ci badano meno, forse è vero, ma qualcuno ci bada. In ogni caso condivido fortemente l’osservazione in fondo: la lingua è cosa di tutti, quindi politica per eccellenza. Questo, in una cultura che ha alle spalle i dibattiti politici nelle polis greche, da cui parte anche Platone per fondare la filosofia, è particolarmente vero. Ma la poesia non è la filosofia, e ha uno statuto particolare; ed è questo che solleva il vespaio, io credo, perché il ruolo della parola in poesia è molto diverso da quello che ha in filosofia e in politica. Il tema è importante e affascinante. Magari ci scrivo su un terzo post. Buona Toscana!

  • Fiamma

    I vostri interventi sembrano un puro esercizio retorico per autocompiacervi.
    Comunque fatevi meno pippe mentali. Saluti.

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