Letteratura a fumetti? Tra una settimana il mio nuovo titolo in libreria

Tra una settimana in libreria. Letteratura a fumetti? Le impreviste avventure del racconto. Un percorso, che riguarda il fumetto, tra il mito, la serialità, la pittura e la scrittura, e – ovviamente – il racconto. Le impreviste connessioni tra mondi che il fumetto ha riportato vicini.

Da fine marzo il libro è disponibile in libreria. Si può acquistare on line sul sito di Comicout (meglio) oppure su Amazon.

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Del saper guardare le parole, o di Marco Ficarra

Pogo, di Walt Kelly

Pogo, di Walt Kelly

Raramente guardiamo le parole. Tutto il processo di scrittura è mirato a far sì che le leggiamo, non che le guardiamo. E leggere vuol dire passare oltre, cioè passare direttamente dalla parola scritta al suo suono o, ancora più spesso, da otto o nove secoli a questa parte, al suo senso.

La forma grafica della parola è quindi presente, ma apparentemente ignorata, perché l’attenzione del lettore è concentrata altrove, sul senso, o al massimo (ma già raramente) sul suono evocato. Eppure, proprio per questo, quella forma grafica può agire indisturbata sul lettore, trasmettendogli una gran quantità di senso senza che la sua attenzione, concentrata altrove, possa valutare o filtrare. Non si tratta solo (ma certo anche) di maggiore o minore facilità di lettura (in termini cioè di leggibilità ottica); però anche questo ha il suo peso: rendere, per esempio, otticamente faticosa la lettura di un testo verbale significa associare a quella lettura un senso di fatica e fastidio – e non è detto che il lettore sia capace di dissociare questo senso da quelli trasmessi dalle parole. Al di là della leggibilità, poi, la scelta del carattere, tipografico o calligrafico, è qualcosa che caratterizza inevitabilmente il testo scritto, anche al di là della convenzionale irrilevanza che gli attribuiamo, abituati come siamo a vedere le medesime parole potenzialmente stampate in forme editoriali diverse.

Quando dalla scrittura autonoma si passa alla problematica della scrittura all’interno del fumetto, la questione diventa evidentemente ancora più rilevante. Ho avuto occasione di sostenere che i fumetti, nel loro complesso, si leggono (cioè, non si guardano), tuttavia ho anche sempre spiegato che questa lettura (che è tale, perché il fumetto è un linguaggio sequenziale, che mira a raccontare una storia) non si può basare sull’oblio del guardare, come quella del romanzo puramente verbale, perché si tratta di una lettura che ha alla sua base proprio il guardare, e le sue regole. In altre parole, il lettore di fumetti, a differenza di quello di sequenze verbali, non può mai trascurare le forme grafiche, perché la base del racconto è esattamente quella, e il processo di interpretazione di base è sin dall’inizio più complesso di quello, convenzionalizzato, della parola.

Saper guardare i fumetti, per poterli leggere, vuol dire non limitarsi a vedere le immagini come riproduzioni di scene del mondo reale, ma a capire la loro natura specifica di forme grafiche, cioè forme disegnate.

Tra queste forme disegnate ci sono quelle del lettering, figura tra le altre in un contesto che chiede di essere guardato. Per questo motivo, la questione del lettering del fumetto è più diretta, più facilmente comprensibile, più immediata per il pubblico, della questione del lettering in generale, cioè delle scelte tipografiche della stampa.

Marco Ficarra, Manuale di lettering, TunuéHo apprezzato moltissimo l’approccio di Marco Ficarra, sin da quando sono stato un fortunato beta reader di questo suo Manuale di lettering. Le parole disegnate nel fumetto (Tunuè 2012). Ficarra inizia il suo libro con una breve storia della scrittura, dalle origini alla romanità, e poi dalla romanità ai giorni nostri, sino alla tipografia e calligrafia novecentesche. In questo modo, la questione del lettering nel fumetto si trova ben inquadrata in una storia dove la scrittura mostra il proprio primitivo rapporto con l’immagine, e la sua mai completa separazione da quella dimensione.

Il titolo non deve trarre troppo in inganno. Delle circa 200 pagine che compongono il volume, le seconde 100 sono davvero un prezioso manuale per chi voglia cimentarsi con il lettering del fumetto, sia a mano che informatizzato, con i vantaggi e gli svantaggi, le possibilità e le difficoltà dell’uno e dell’altro approccio. Ma le prime 100 sono di grande interesse anche per chi desideri soltanto comprendere un aspetto così importante e così marginalizzato del fumetto.

Avete mai pensato, per esempio, all’importanza della posizione del balloon rispetto alle figure in una vignetta e nella sequenza di una tavola? O alla forma di balloon e didascalie? O all’importanza dell’ingombro del testo scritto all’interno del balloon? Sembrano questioni da tecnici, ma quando Ficarra ve le spiega, e ve ne mostra lì le diverse possibilità, capite immediatamente non solo che ci sono forme corrette ed errori, ma anche che, nell’ambito di ciò che è di principio giusto, ci sono anche  forme più o meno adatte a quello specifico contesto grafico, e non esiste una correttezza a priori, perché posizione e forma del lettering qualificano ciò che vedete non meno delle figure che le accompagnano.

Se non avete ambizioni di letterista, le prime 100 pagine del libro sono comunque una ragione sufficiente per leggerlo (fosse solo per la grande abbondanza di esempi analizzati). Tuttavia, una scorsa veloce alle successive 100 permette anche di capire che informatizzazione del lettering non vuol dire necessariamente prodotti più uniformati e meno curati. Certo, il computer e i suoi programmi ci aiutano a risparmiare lavoro, e questo non è poco. Tuttavia, quando si fanno le cose per bene, ci permettono anche di ottenere risultati che a mano sarebbe difficile ottenere, mantenendo la varietà e l’efficacia necessarie.

In altre parole, la puntigliosità didattica (e chiarezza esplicativa) di Ficarra ci fa capire che il computer non è che uno strumento, e che la qualità del risultato dipende da come lo utilizziamo. Con il computer possiamo utilizzare l’orrido Comic Sans, e distruggere la qualità visiva di qualsiasi fumetto; ma possiamo anche ottenere i raffinati risultati di Manuele Fior o di David Mazzucchelli. Dipende solo da noi.

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Dell’asemic writing, e del leggere o guardare


Asemic Magazine 3 (Tramite Marco Giovenale / Slowforward)

Una buona descrizione di che cosa sia l’asemic writing si trova su Wikipedia. È una voce che non nasconde il fatto di essere stata scritta da appassionati di questa pratica, ma è comunque precisa, concisa, e cita pure un commento di Bruce Sterling che riassume le perplessità che è lecito sollevare sul tema.

Queste perplessità non riguardano la pratica in sé o i suoi risultati. Come si può vedere sfogliando le pagine riportate qui sopra, ci sono cose che si guardano volentieri e altre meno, ma nel complesso l’oggetto è interessante. La perplessità riguarda semmai la definizione di questa pratica, e il suo campo più generale di appartenza. Oppure, in termini leggermente diversi, se queste opere possano essere oggetto di un semplice guardare (tenendo presente che anche il più semplice guardare rivolto a un prodotto comunicativo umano ha comunque in sé delle componenti che derivano dalle pratiche del leggere) oppure se abbia senso parlare anche di un leggere, nei loro confronti.

Tim Gaze on asemic writing (da Wikipedia)

Tim Gaze on asemic writing (da Wikipedia)

In altre parole, considerare l’asemic writing come una specie del genere arte astratta è qualcosa di abbastanza pacifico: un dipinto (o disegno) astratto ha comunque bisogno di alludere in qualche modo a forme del mondo (senza davvero raffigurarle – sennò sarebbe arte figurativa), e, da questo punto di vista, l’asemic writing è un’arte astratta che prende come riferimento le forme della scrittura (senza davvero raffigurarle – sennò sarebbe scrittura, perché una scrittura raffigurata è ugualmente scrittura).

Il problema nasce quando si teorizza la possibilità di un continuum tra immagine e scrittura, come fa Tim Gaze nello schema qui di fianco, oppure si parla decisamente di asemic poetry, come fa spesso Marco Giovenale sul suo blog Slowforward e come rivendica chiaramente in un’intervista su 3:AM Magazine.

Ora, io capisco benissimo che chi pratica una disciplina inconsueta, all’interno di un piccolo cerchio (benché di diffusione internazionale), cerchi di evitare come il diavolo l’acqua santa i vincoli e la retorica del mondo delle arti visive, dove tutto si trova schiacciato, in fin dei conti, sulla possibilità delle gallerie di vendere delle opere, e sul giudizio dei critici. Per questo si può tentare di dialogare non con l’arte visiva, benché essa sia evidentemente il primo riferimento concettuale di un’operazione visiva come questa, bensì con il mondo della poesia, più piccolo, più competente, in generale piuttosto estraneo alle operazioni commerciali, e dotato di alcuni precedenti illustri e già storicizzati – quindi citabili come appoggio.

Sul valore della poesia concreta ho già espresso le mie perplessità. E tuttavia la poesia concreta rimane legata alla presenza della parola e della scrittura. Persino gli Zeroglifici di Adriano Spatola, pur essendo ormai composizioni primariamente visive, cioè da guardare, sono composti di frammenti di parole o di lettere riconoscibili. Quando si perde anche questo estremo legame con la scrittura, le mie perplessità diventano certezze.

Potrei contestare il fatto che l’asemic writing sia ancora writing, cioè scrittura. Per quanto ampia si voglia prendere la definizione di scrittura (e vedi su questo i bei libri di Roy Harris) quello che cambia è il modo in cui essa può essere semica (modo alfabetico, ideografico, pittografico, logografico…), ma l’idea di una scrittura asemica assomiglia a quella di un quadrato rotondo, o degli angoli del cerchio. La parola inglese writing è tuttavia suscettibile di un’altra traduzione, ovvero scrivere; e se mettiamo l’accento sull’idea di uno scrivere asemico (piuttosto che di una scrittura asemica) la cosa riacquista senso: è, appunto, una pratica che è più simile, gestualmente, a quella dello scrivere che a quella del dipingere o disegnare, ma che non persegue alcuno scopo simbolico (nel senso del simbolo peirceano), proprio come il dipingere o disegnare, se non attraverso la mediazione della forma complessiva. Insomma, un’arte astratta che ha come metafora di riferimento quella della scrittura anziché quella del mondo.

Ok sullo scrivere asemico, dunque. Ma se invece di asemic writing, io pretendo di parlare di asemic poetry, quest’ancora di salvataggio non funziona più. Forse se potessi trasformarlo in una sorta di asemic poetring, un far poesia asemico, potrei illudermi almeno che la mia pratica possa condurre a un’arte astratta che abbia come metafora di riferimento quella della poesia anziché quella del mondo. Ma questa non sarebbe ugualmente poesia – a prescindere dalla sua qualità visiva.

C’è spesso qualcosa di millenaristico nei tentativi delle avanguardie di portare la poesia a estremi vicini all’asemantismo. Per arrivare a queste posizioni, bisogna ritenere che, nel nostro mondo, la funzione tradizionale della poesia si sia esaurita, e quindi il suo discorso in termini tradizionali sia ormai inutile o impraticabile; è così che diventano accettabili idee come quelle del transmentalismo di Velimir Chlebnikov o del lettrismo di Isidore Isou. L’idea della necessità di un grado zero della scrittura, poiché i gradi superiori sono tutti contaminati dal predominio dell’industria culturale e delle sue falsificazioni alienanti, sta dietro a tanta parte del lavoro della Neoavanguardia italiana, e in particolare agli Zeroglifici di Spatola. Ancora senza arrivare a questi estremi, in campo musicale c’è una famosa conferenza di Anton Webern, del 1932 (quella del 15 gennaio), in cui si sosteneva che la musica tonale aveva esaurito le sue possibilità storiche di espressione, e che quindi quella della Nuova Musica dodecafonica era ormai l’unica strada percorribile da parte di un’arte che volesse essere autentica (non sono le parole di Webern, ma mi pare che – anche attraverso Adorno – le si possa leggere così). Sappiamo come nel clima esistenzialista del dopoguerra queste parole di Webern siano state a fondamento del serialismo di Pierre Boulez e di tutta l’avanguardia uscita dalla scuola di Darmstadt. Eppure Webern si sbagliava. Si sbagliava persino sulla musica tonale, perché in quei medesimi anni, costretto dalle condizioni politiche del suo paese, un musicista come Dimitri Shostakovich riusciva ancora a comporre dei capolavori nell’ambito della tonalità tradizionale. Ma soprattutto si sbagliava quando pensava che alla tonalità potessero succedere solo la dodecafonia e le sue conseguenze, come se la storia fosse guidata da un destino ineluttabile di progresso, e in una sola direzione. Da Tedesco ed Europeo troppo orgoglioso della propria tradizione, Webern trascurava l’esistenza di altre tradizioni (nella conferenza del 20 febbraio 1933 ammette esplicitamente di non saperne quasi nulla), e quindi quella di potenzialità che con la tonalità non avevano mai avuto a che fare, ma che non per questo erano vicine alla dodecafonia.

Questo millenarismo percorre anche l’idea di asemic poetry, ovvero l’idea che la poesia sia diventata così impossibile nel mondo alienato di oggi da giustificare l’abbandono del senso ordinario della scrittura, ormai contaminato dagli abusi della comunicazione di massa. Senza questo presupposto, quello che si presenta come asemic poetry è in verità semplice asemic writing, cioè un’arte visiva che tenta di stare fuori dalle grinfie del mondo dell’arte, e comunque un’arte da guardare e non da leggere – anche se la sua forma visiva è metaforica di quella del leggere; anche se propone al fruitore uno sguardo sequenziale e non zigzagante come quello dell’arte visiva. Però, appunto, lo propone, proprio come fa la pittura; e non lo può imporre, come fa invece la scrittura vera e propria.

Quello che mi indispettisce è che, per salvare una pratica, che ha i suoi pregi, dal ricadere nel campo a cui semioticamente spetterebbe, si debba compromettere il senso di una parola, poesia, allargando surrettiziamente il suo campo sino a inglobare qualcosa che, semioticamente, non dovrebbe stare lì. Certo che le nozioni e il senso delle parole cambiano, nella storia; ma queste trasformazioni non sono mai indenni da problemi. Visto che qui (e in vari luoghi del Novecento) questa trasformazione viene proposta, la mia domanda è: ne vale davvero la pena? Sinché transmentalismo e lettrismo ci appaiono come curiosità, il danno non è grande; ma se si cerca di fare entrare davvero la asemicità in una pratica che è fatta di parole, come la poesia, con l’intero loro portato visivo, sonoro e anche simbolico, non stiamo in verità distruggendo la nozione? Capisco che per chi sostiene e difende la asemic poetry questo possa essere un prezzo accettabile, ma per me non lo è.

Concludo con un’osservazione a margine sui precedenti storici dell’asemic writing. Vedo che nella pagina di Wikipedia si cita Zhang Xu, con i suoi illeggibili corsivi selvaggi, in qualità di anticipatore dell’asemic writing. Chi frequenta questo blog (o ha seguito le mie lezioni) conosce la mia passione per Zhang Xu. Ora, io credo che quello della voce di Wikipedia sia un errore. A quanto ne so, Zhang Xu eseguiva i suoi esperimenti di corsivo selvaggio prendendo come oggetto dei testi poetici noti al suo pubblico. La sua scrittura risulta illeggibile solo se non si sa già quello che c’è scritto – e in questo senso certo non è adatta a trasmettere la parola. Ma il lettore (cinese) che conosca già il testo, è in grado di riconoscere i caratteri pur nella deformazione espressiva a cui sono sottoposti. Immaginate un esperimento di calligrafia espressiva estrema sull’Infinito di Leopardi: se già conosco il testo, riconoscerò anche lettere estremamente deformate. Per questo quella di Zhang Xu non è in nessun modo asemic writing; semmai, come tutta la calligrafia espressiva, è ipersemic writing, cioè l’arte di aggiungere al senso delle parole quello del loro aspetto grafico. Non è nemmeno quella che viene definita “relative” asemic writing, ovvero una scrittura che può essere letta da qualcuno ma non da tutti – strana definizione, che prende dentro tutte le scritture del mondo. Ogni scrittura che sia davvero tale è infatti leggibile da qualcuno ma non da tutti; cioè da chi ne possiede il codice, e non dagli altri. Per possedere il codice dello scrivere di Zhang Xu, oltre a conoscere il cinese, bisogna già sapere quello che c’è scritto; ma questo era dato per scontato (a volte, per fugare ogni dubbio, sul retro del foglio la poesia era persino trascritta in caratteri leggibili).

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Di Jackson Pollock e Zhang Xu, o dell’improvvisazione e del progetto

Zhang Xu, VIII secolo, esempio di Kuang Cao, o corsivo selvaggio

Zhang Xu, VIII secolo, esempio di Kuang Cao, o corsivo selvaggio

Mi domanda uno studente se non ci sia qualche relazione tra l’action painting di Jackson Pollock (cui ho già dedicato in questi giorni due post, qui e qui) e la calligrafia cinese. Gli rispondo che non ho notizie precise in merito, ma la cosa mi sembra ugualmente piuttosto probabile, soprattutto pensando a Zhang Xu, un calligrafo dell’VIII secolo, perché queste cose girano da tempo in Occidente – e senza arrivare a questo estremo di precisione, basta considerare l’importanza del giapponismo e la presenza costante dell’immaginario visivo giapponese, calligrafia artistica compresa (il Giappone non è la Cina, certo, ma le loro tradizioni calligrafiche sono molto vicine).

Poi faccio una ricerca rapida sul Web e trovo qua e là dei riferimenti non documentati, secondo i quali Pollock si sarebbe ispirato a Huai Su (il discepolo di Zhang Xu) e avrebbe dichiarato pubblicamente i propri debiti nei confronti della calligrafia cinese. Da nessuna parte mi viene fornito un riferimento preciso, per cui le propongo per come le ho trovate, mettendoci davanti un bel “è possibile che…”, “è plausibile che…”.

Non mi interessa in verità approfondire di più, dal punto di vista storico. Che Pollock sia arrivato alla propria procedura su ispirazione dalla calligrafia cinese (o giapponese) oppure che ci sia arrivato per altre vie, comunque la somiglianza formale tra le due procedure e i loro risultati esiste. Quello che mi colpisce è che mentre in Occidente questo modo di procedere appare come una novità del XX secolo, in Cina è invece una procedura antica e tradizionale, oggetto di innumerevoli aneddoti (come la storiella del pittore, dell’imperatore e del granchio riportata da Calvino nella sezione “Rapidità” delle sue Lezioni Americane). E in ogni caso, anche se davvero Pollock si è ispirato alla procedura cinese, bisognava che lui stesso e l’ambiente che lo riceveva fossero pronti ad accogliere un approccio davvero diverso da quello normale per noi.

Huai Su (725-dopo il 777) Esempio di Kuang Cao, o corsivo selvaggio

Huai Su (725-dopo il 777) Esempio di Kuang Cao, o corsivo selvaggio

La novità di Pollock in Occidente non sta tanto nella priorità data alla fluidità e continuità del gesto, quanto nel fatto che l’opera, il dipinto, propone di essere visto più come un indizio della danza creativa che l’autore ha effettuato nel comporlo, che non come una composizione plastica. Naturalmente non è che la composizione nei suoi dipinti sia irrilevante, così come non era irrilevante, per la pittura occidentale prima di Pollock, la natura indiziale dei tratti di colore per ricostruire la manualità del pittore. Quello che cambia, con Pollock, è il maggiore o minore rilievo da attribuirsi all’una o all’altra: quando guardiamo un dipinto, poniamo, di Kandinsky, è certamente molto più importante comprenderne la composizione, che non analizzare le pennellate per vedere come l’autore si sia mosso nel realizzarla. In Pollock succede invece il contrario, e nel corsivo selvaggio dei calligrafi cinesi pure.

Questa differenza evidente ne sottende una più profonda, che riguarda il senso stesso della comunicazione espressiva: la potremmo descrivere come una differenza tra progettazione e improvvisazione. Questa opposizione, in Occidente, ci è tradizionalmente familiare in un contesto piuttosto piccolo, che contiene sostanzialmente la musica e il teatro, ed è dunque soltanto lì che possiamo facilmente analizzarla nel dettaglio. Tutte le altre arti, infatti, si basano su un supporto statico (o realizzano opere statiche, come la scultura o l’architettura); mentre la musica si manifesta soltanto nel divenire dell’esecuzione e dell’ascolto, e il teatro nel divenire della performance. Ma il teatro ha praticamente da sempre una sua versione scritta, e da oltre mille anni pure la musica può essere registrata su un supporto statico.

Jackson Pollock, Red Painting 1, 1950

Jackson Pollock, Red Painting 1, 1950

È per questo che la dialettica tra progetto e improvvisazione caratterizza in maniera sostanziale queste due arti, per le quali il supporto statico è soltanto un espediente mnemonico (e progettuale), ma che vivono sostanzialmente della propria natura dinamica nell’atto stesso del proprio realizzarsi di fronte al pubblico.

Prendiamo la musica, nella sua versione colta. L’a solo improvvisato (o cadenza) è una costante dei concerti per strumento e orchestra dal Settecento in poi, almeno sino a quando il fossilizzarsi della tradizione non lo trasforma a sua volta in un pezzo scritto, spesso da parte dell’autore medesimo del concerto; così che la libertà dell’esecutore si riduce alla scelta di una cadenza piuttosto che di un’altra. La musica colta occidentale è dunque nel corso della storia sempre più scritta, più progettata a monte. È solo nel momento in cui il jazz assume i caratteri della musica colta che il momento dell’improvvisazione torna in gioco, e ritorna legittimo nell’ascolto la comprensione della musica come tramite di uno stato del momento.

Per quanto la scrittura permetta alla musica di raggiungere livelli di complessità impensabili in sua assenza, configurando la partitura come progetto preciso di un’esecuzione, c’è qualcosa di cruciale che viene perduto in questo. L’idea della musica come progetto si basa su, e insieme sostiene, una concezione formalistica, plastica, del flusso musicale, mettendo in secondo piano gli elementi di compresenza, compartecipazione, consonanza tra i partecipanti – quegli stessi elementi che vengono invece enfatizzati dalle performance improvvisative.

Jackson Pollock, Collage and Oil, 1951

Jackson Pollock, Collage and Oil, 1951

Ma poiché la musica comunque non si risolve nella sua dimensione scritta, e comunque richiede di essere eseguita, essa non è mai del tutto riducibile alla propria costruzione formale, e le componenti gestuali, dirette, del momento, che caratterizzano l’esecuzione, non smettono mai di avere importanza.

In questa prospettiva di carattere optocentrico, è chiaro come invece la comunicazione visiva possa davvero interamente risolversi nella costruzione formale – poiché non c’è necessità di alcuna trasformazione successiva, che possa metterla in discussione. Ciò che Pollock e i calligrafi cinesi hanno in comune è dunque proprio una certa riduzione dell’optocentrismo, a vantaggio di una valutazione del segno grafico che ha aspetti di tipo musicale, poiché mette (tendenzialmente) in sintonia il gesto del fruitore (che segue l’andamento) col gesto dell’autore (che lo ha creato).

Jackson Pollock, Number 23, 1948

Jackson Pollock, Number 23, 1948

Dovremmo assumere, in questa prospettiva, che la cultura cinese sia tradizionalmente meno optocentrica della nostra, visto che mentre da noi si tende a una concezione visiva anche del sonoro, in essa vi sono tracce di una concezione di carattere musicale anche del visivo. Da noi, la valorizzazione dell’improvvisazione al di fuori del campo musicale (e teatrale) si fonda sulle conseguenze di una concezione romantica dell’arte come espressione dell’io, o della sua variante surrealista dove al posto dell’io viene messo l’inconscio. Ma è difficile postulare qualcosa di simile per la Cina dell’ottavo secolo – tanto più che questa concezione non è affatto necessaria per valorizzare l’improvvisazione.

Magari è solo perché i Cinesi non hanno avuto Platone, e la scrittura è rimasta manifestazione della parola senza che la parola dovesse identificarsi col pensiero razionale, o logos. In principio c’era altro, evidentemente, là.

Zhang Xu - Four poem calligraphy copybook

Zhang Xu - Four poem calligraphy copybook

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Del ritmo nel visivo, e di un poster di Armin Hofmann

Armin Hofmann, poster "Giselle", 1959

Armin Hofmann, poster "Giselle", 1959

Questo è un manifesto importante per la storia della comunicazione visiva. È stato realizzato negli anni d’oro della grafica svizzera, quella grafica da cui sarebbe derivato il cosiddetto international style, un modo di pensare la comunicazione visiva che continua a restare influentissimo anche oggi, ed è comunque alla base di qualunque ragionamento grafico, anche quelli che le si sono (anche molto sensatamente) contrapposti. In altre parole, nella Svizzera di quegli anni si gettavano le basi di un discorso visivo e della sua grammatica; queste basi possono essere anche state negate, in seguito, ma non dimenticate. Come dire che la comunicazione visiva ha percorso, da allora, anche strade molto diverse da quelle proposte dai grafici svizzeri, ma inevitabilmente confrontandosi con la loro lezione.

Questo manifesto è stato prodotto a Basilea, però, e non a Zurigo, ovvero in una situazione culturale già leggermente dissidente, leggermente eretica rispetto alle direttive che, dall’anno prima, si trovavano espresse sulle pagine rigorose di Neue Grafik / New Graphic Design, la rivista di tendenza, quella che stava facendo la storia del graphic design in quel momento. Anche per questo, non voglio percorrere il manifesto di Hofmann come esempio di uno stile, ma interrogarmi piuttosto sulle ragioni della sua efficacia – non molto diversa, in effetti, oggi da allora; segno che questo tipo di impostazione comunicativa ha ancora largo spazio nel nostro presente.

Il poster pubblicizza un balletto, Giselle, il cui titolo è anche il nome della protagonista della vicenda. È nero, come il contesto, notturno, in cui si suppone avrà luogo lo spettacolo. Da questo nero emergono due figure verticali, a destra la foto mossa di una ballerina in tutù, nel corso di un movimento rotatorio, presa piuttosto da vicino, in modo che restino tagliati fuori sia il piede basso che la testa; a sinistra le scritte, quelle piccole in alto con i dettagli, e quella grande, verticale, con il titolo.

È impossibile non associare tra loro le due figure, che, oltre a essere piuttosto analoghe visivamente, sono legate semanticamente tra loro in almeno due modi: “Giselle” è infatti il nome dello spettacolo di cui vediamo a destra un dettaglio, ma è anche il nome della protagonista dello spettacolo, che stiamo qui vedendo danzare. Dal punto di vista visivo, Hofmann ha rafforzato l’analogia con molta sottigliezza, giocando su alcune caratteristiche del carattere scelto, l’Akzidenz Grotesk (il must della grafica svizzera di quegli anni, in seguito sostituito dal similissimo Helvetica). Se si guarda la lettera G, per esempio, è facile vederla anche come un vettore circolare, con tanto di freccia a un’estremità, e dunque rappresentazione schematica del medesimo movimento che caratterizza la figura della ballerina.

Ma Hofmann ha anche alterato lo spazio tra i caratteri di questo titolo, riducendolo al minimo possibile per non confondere le lettere, o addirittura annullandolo, quando possibile. Questo fornisce alla scritta verticale una compattezza complessiva che la rende formalmente molto simile alla figura danzante alla destra, caratterizzata da una sottile struttura verticale centrale con le due emergenze laterali delle braccia e del tutù – qui corrispondenti alle emergenze della “i” e della doppia “l”.

Infine, il puntino della “i”, che dovrebbe essere quadrato e vicino alla stanghetta verticale (come si può osservare nelle scritte piccole in alto), è stato sostituito da un cerchio piuttosto lontano, sospeso nello spazio nero proprio come quella macchia di luce ovale a cui è ridotto il braccio rotante della ballerina poco più in alto. E persino la scritta piccola in alto, con la sua forte irregolarità sul lato destro, sembra rinviare all’irregolarità e all’aspetto sfrangiato della figura mossa della ballerina.

Insomma, il parallelismo è così forte e insistito da apparire immediatamente evidente, mettendo a sua volta in evidenza le diversità: a sinistra la geometria, nitida, immobile e schematica, a cui il vettore insito nella G fornisce un accenno di movimento, ma ugualmente suggerito e simbolico; a destra il corpo, sfumato, mobile e dalle forme poco riconducibili a schemi semplici, a cui però il movimento dona una certa geometricità, quella del cerchio; a sinistra la parola, che rinvia simbolicamente alla realtà, attraverso una mediazione razionale; a destra l’immagine, che rinvia analogicamente alla realtà, attraverso una mediazione percettiva. Nitido e sfumato, geometrico e naturale, fermo e in movimento, simbolico e analogico, nominato e mostrato, primo piano e secondo piano: tutti gli elementi di queste opposizioni si trovano a essere messi in scena, e in qualche misura identificati.

Sono separati, certo, perché i primi elementi di ogni coppia sono relativi alla forma di sinistra, mentre i secondi sono relativi a quella di destra. Ma le due forme hanno il medesimo riferimento, sono due modi di rimandare alla stessa cosa; e l’analogia tra le loro forme visive ne rafforza il senso di identità.

Quello che succede dunque, a chi guarda questo manifesto, è che l’attenzione passa continuamente dalla forma di sinistra a quella di destra, e da quella di destra a quella di sinistra, e poi ancora da sinistra a destra, e così via, senza potersi risolvere, se non per stanchezza. Ma quando si smette, è già stato innestato un meccanismo ritmico, in cui in primo piano passa nel secondo e il secondo nel primo, il nitido passa nello sfumato e lo sfumato nel nitido, il geometrico nel naturale e il naturale nel geometrico, l’immobile nel mobile e viceversa, il simbolico nell’analogico e viceversa, il nominato nel mostrato e il mostrato nel nominato. L’immagine complessiva ha acquisto durata, e ritmo; ci ha preso con sé e ci ha fatto per qualche attimo danzare. E poiché i ritmi sono virtualmente senza fine, e rimandano al loro proseguimento all’infinito, pure questa immagine rimanda a un’eternità di danza anche sulla base di pochi secondi di fruizione.

Non è il suo significato a renderla indimenticabile: in fondo non è che la pubblicità di uno spettacolo! È piuttosto quello che essa ci induce a fare; è piuttosto questa danza dell’attenzione in cui ci trascina, portandoci a vedere oggetti fermi come mobili e oggetti simbolici come analogici e così via e anche viceversa.

Alludendo all’infinita varietà del senso, e alla sua continua trasmutabilità, Hofmann ci rende protagonisti di un’azione trascinante, per quanto breve, un atto di interpretazione che non può aver fine, una danza dell’identità e della differenza, in cui il non essere capaci di risolversi in un senso o nell’altro ci costringe a continuare, virtualmente senza smettere mai. Un po’ come quando danziamo per davvero, e smettiamo solo per stanchezza, o perché è tardi – non, certo, perché la cosa in sé abbia esaurito il suo piacere.

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Della letteratura geroglifica e della letteratura a fumetti

Maria Carmela Betrò, Geroglifici: il segno lucertola

Maria Carmela Betrò, Geroglifici: il segno lucertola

Se ho capito bene come funziona la scrittura dell’antico Egitto, i segni che vi compaiono (nella figura qui sopra un esempio in versione geroglifica, seguita dalle varianti in ieratico e demotico) possono avere valore logografico/ideografico e valore fonetico, talvolta uno solo di loro, talvolta entrambi, come qui sopra.

I segni di carattere logografico a loro volta possono essere autonomi, esprimendo una parola o un concetto, oppure possono essere dei determinativi, vale a dire dei segni che vanno associati a una sequenza fonetica per specificarne l’ambito di significato. A quanto ci dice Maria Carmela Betrò (Geroglifici. 500 segni per capire l’antico Egitto, Mondadori 1995 – ma vedi anche la pagina relativa dell’utilissimo sito omniglot.com), la scrittura egizia sarebbe stata in buona parte fonetica (ovvero i segni esprimevano suoni, più o meno semplici, come semplici lettere o intere parole), ma la costante presenza dei determinativi ci mostra che gli egiziani non potevano fare a meno di trascrivere il senso, insieme al suono delle parole.

Sappiamo come poi è andata in seguito: partendo da un sistema un po’ diverso da questo (ma non così tanto), i Fenici sono arrivati a costruire una scrittura fatta solo di suoni semplici, escludendo i segni di parole (logogrammi) e i riferimenti diretti al senso (ideogrammi e determinativi). Non c’è dubbio che l’invenzione dei Fenici sia stata cruciale, visto che noi ne siamo i figli – ma facciamo fatica oggi a capire lo sforzo di astrazione che dev’essere a suo tempo costata. Abituati come siamo al principio alfabetico e alla sua economia, fatichiamo a concepire un sistema di scrittura in cui l’economia di segni non fosse considerata un valore. Anzi, poiché comunque la classe degli scribi doveva poter mantenere le sue prerogative, l’economia era piuttosto un disvalore, e le era preferibile un sistema cui si potesse, alla bisogna, aggiungere qualche segno.

In ogni caso, la semplificazione alfabetica, come qualsiasi semplificazione, ha un costo espressivo. Per esempio, inventando l’alfabeto i fenici si condannano a una maggiore ambiguità potenziale delle parole. Poiché le vocali non vengono scritte, molte parole che sono diverse solo per suoni vocalici si scrivono allo stesso modo. La presenza di un determinativo aveva permesso immediatamente agli Egizi di risolvere l’ambiguità. Ma l’invenzione posteriore dei segni alfabetici per le vocali (i puntini dell’ebraico, e le vocali del greco) era già un’altra soluzione – non esaustiva ma sufficiente per l’uso.

L’Occidente pagò l’adozione dell’invenzione dei Fenici con quasi due millenni di lettura esclusivamente ad alta voce: se la scrittura serviva per registrare il suono e non il senso, era naturale che essa dovesse produrre il suono, e questo a sua volta avrebbe prodotto il senso. Anche qui, l’invenzione moderna della lettura silenziosa è qualcosa di tutt’altro che ovvio.

Ma gli Egiziani, per quanto ne sappiamo, potevano benissimo leggere in silenzio. La loro idea di scrittura era di un sistema di registrazione che prima di tutto trasmettesse il senso. Poi, certo, visto che esiste pure una lingua orale, può far comodo appoggiarsi a quella, e registrare anche il suono: ma non è il suono la componente fondamentale che deve essere colta dalla lettura!

Ideogrammi e determinativi, nella scrittura egiziana, definiscono l’ambito concettuale in cui ci stiamo muovendo, senza necessario riferimento al suono. Solo a questo punto i suoni specificano il discorso, attraverso le singole parole sonore. Ma queste, in qualche caso, possono anche mancare, mentre quelli no.

La natura fortemente figurativa della scrittura egiziana non è stata probabilmente estranea a questo tipo di evoluzione. Alla fine, le sue diverse varietà si sono estinte, cancellate dal Greco e dal suo principio alfabetico. Tuttavia, sinché sono durate (e parliamo di migliaia di anni), hanno mantenuto un rapporto molto stretto con le immagini, quelle delle pitture.

Ora prendiamo in considerazione il fumetto. Certo, il fumetto non è davvero immediatamente simile ai geroglifici, però mi colpiscono alcune analogie. Anche nel fumetto troviamo una serie di segni che rimandano (visivamente) al proprio significato in maniera diretta, non mediata dal suono: si tratta delle figure presenti nelle vignette. Questi segni definiscono l’ambito concettuale e narrativo in cui si inseriscono poi i segni alfabetici delle parole (dei balloon e delle didascalie). I segni di suoni (quelli alfabetici) qualche volta possono pure mancare, mentre i segni di immagine non possono mancare mai. Una storia a fumetti può essere fatta anche di sole immagini, ma non può essere fatta di sole parole – pena lo smettere di essere una storia a fumetti.

Ho la sensazione che il tipo di concettualizzazione discorsiva e narrativa che un antico Egizio derivava dalla lettura della sua scrittura fosse più simile a quella che un moderno ricava dalla lettura di un discorso a fumetti che non a quella di una normale lettura alfabetica. In questo senso il fumetto è una forma di scrittura aperta, come erano (in misura minore) anche i geroglifici, dove si può sempre introdurre un segno nuovo alla bisogna, e dove anche il modo in cui i segni vengono resi è fortemente significativo.

Certo che, vista in questo modo, la parola scrittura cambia abbastanza senso. Il legame con la parola orale resta importante, ma non è più determinante. Se si possono scrivere direttamente le figure e le idee, senza necessariamente passare attraverso le corrispondenti parole, la scrittura diventa un sistema di comunicazione più rapido e potente, e relativamente svincolato dal linguaggio verbale.

Si potrà sostenere che, in fin dei conti, non si fa che sostituire un codice a un altro. Eppure nemmeno il linguaggio verbale si basa soltanto su codici. Se cambiamo il sostrato materiale, non solo il codice sarà diverso, ma anche tutte le componenti non codificate che l’accompagnano, e il loro specifico funzionamento. Le differenze radicali tra percezione sonora e percezione visiva rendono la scrittura del fumetto (e insieme a lei quella geroglifica) ben lontane dalla scrittura alfabetica – anche rispetto a quello che si può dire, a quello che si può esprimere.

Maria Carmela Betrò, Geroglifici: segni di animali

Maria Carmela Betrò, Geroglifici: segni di animali

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Di “Guardare e leggere”, che non è solo un blog

Guardare e leggere. La copertina

Guardare e leggere. La copertina

Be’, sì, è in libreria. L’altro giorno, quando ho detto a un mio amico che stava per uscire, lui mi ha chiesto: “E il blog l’hai fatto?”. Ho avuto un momento di perplessità. Ovviamente lui si riferiva al fatto che ormai quando si pubblica un libro si crea anche il blog per riparlare ed espandere i suoi temi. Ma io il blog ce l’ho già. Anzi è venuto al mondo un anno prima del libro. Un blog ha però una gestazione breve, mentre un libro ce l’ha decisamente più lunga. Il libro in verità esisteva già prima del blog, e il nome che a suo tempo ho dato al blog era anche augurale per il libro. Quindi, in fin dei conti, al mio amico ho risposto “Sì”.

Il libro è più specifico del blog, come è giusto. Se volete sbirciare indice e introduzione potete andare qui.

Mi sento un po’ come quelli che dal romanzo è uscito il film, o dal film il fumetto, o dal fumetto il romanzo. Il blog non cambierà, ma se qualcuno mi propone qualche tema di cui nel libro si parla, può essere una buona occasione per tornarci sopra.

Per adesso, ne parlo pubblicamente in un incontro nell’ambito del festival del fumetto Bilbolbul, sabato mattina 5 marzo alle 11.30 alla libreria Irnerio (via Irnerio 27) a Bologna, con Luca Raffaelli. Spero di vedervi tutti.

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Dei rumori grafici

C’è un ambito, nel fumetto, che riguarda la scrittura ma non il lettering in senso stretto, ed è quello dei rumori. I rumori appaiono sotto forma di segni di scrittura dalla forte caratterizzazione grafica, con una grande varietà di forme.

Il rumore non è un oggetto del mondo rappresentato, e la natura semiotica della sua espressione nel fumetto è complessa. Un rumore viene tipicamente rappresentato attraverso una sequenza di lettere che, pur essendo di carattere onomatopeico, appare comunque come una parola – magari inventata. In quanto parola, implica la presenza di un senso (che magari può anche semplicemente essere: rumore forte) e soprattutto del suono che la sequenza di lettere evoca, un suono che (a parte quando si tratta di grida) non può davvero corrispondere a quello letteralmente espresso dalle lettere. Il suono espresso dalla parola brakabrakabraka, per esempio, che vediamo qui sotto in una tavola di Frank Miller, sarà dunque interpretato come il suono della mitragliatrice mostrata dall’immagine, un suono caratterizzato – proprio come la sequenza fonetica rinviata dalle nostre lettere – dalla ripetitività di suoni secchi, meccanici ed esplosivi.

Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985

Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985

La parola brakabrakabraka rinvia perciò a una serie di suoni che sono un corrispondente analogico di quelli emessi dalla mitragliatrice. L’analogia messa in scena a livello del suono trova poi riscontro in un’altra costruzione analogica a livello della forma grafica, alla quale è demandato di dare energia alla figura del suono. Così, nei diversi esempi visivi che abbiamo raccolto qui si vede chiaramente come i rumori siano costruiti graficamente in modo da rendere, per analogia, la qualità dei loro corrispondenti sonori evocati.

Ma il rumore forte visivizzato nel fumetto gode di un’altra caratteristica. Il rumore è un elemento di per sé estraneo alla natura visiva del mondo rappresentato (e deve comunque avere, nel fumetto, una rappresentazione visiva), e si tratta di qualcosa che deve caratterizzare un eccesso, poiché il rumore stesso (quando vale la pena di rappresentarlo nel fumetto) è frutto di un eccesso. Per questa sua estraneità alla dimensione figurativa e per questa sua natura eccessiva, il rumore finisce per apparire come un elemento cruciale di caratterizzazione stilistica: ci sono infiniti modi possibili di essere eccessivi nell’inventare la forma visiva di qualcosa che in sé non ha nulla di visivo; e di conseguenza il modo scelto è cruciale per l’individuazione del contesto grafico di riferimento.

Guy Peellaert, Pravda La Survireuse, 1967

Guy Peellaert, Pravda La Survireuse, 1967

Così, i rumori di Peellaert sono coloratissimi e bombati come nella visività psichedelica degli anni Sessanta, e quelli di Bodé sporchi e irregolari; mentre Crepax deve giocare sulla poca deformazione di un carattere lineare bold di ascendenza pubblicitaria, e Scozzari non si allontata dal modello underground di Bodé se non per una molto maggiore ricchezza di espressioni. Miller, infine, fa dei rumori visivi uno dei punti di forza della propria poetica della spettacolarità a tutti i costi, con una continua folgorante serie di invenzioni fonetiche e grafiche, dove non di rado il rumore investe la totalità del campo, ed è l’oggetto che si impone principalmente all’attenzione.

Vaughn Bodé, War Lizards, circa 1970

Vaughn Bodé, War Lizards, circa 1970

Guido Crepax, L'uomo di Harlem, 1978

Guido Crepax, L'uomo di Harlem, 1978

Filippo Scozzari, Nekator Superfly, 1974

Filippo Scozzari, Nekator Superfly, 1974

Frank Miller, Ronin, 1983

Frank Miller, Ronin, 1983

Il racconto – da questi esempi è chiaro – si è mangiato l’immagine: là dove la rappresentazione di un rumore può diventare la totalità di ciò che si vede, è ovvio che si guarda (e si deve guardare, e anche con attenzione) per leggere la storia. Solo nel leggerli come rumori degli eventi della storia i rumori visivi del fumetto ricevono un senso dal proprio essere guardati. Tuttavia, al tempo stesso, essi restano anche delle pure caratterizzazioni grafiche astratte, con una figuratività, perciò, del tutto diversa da quella delle figure del mondo che li attorniano.

Se ignorassimo, o mettessimo sullo sfondo il racconto, certo, allora il rumore grafico si trasformerebbe in uno straordinario oggetto visivo, spesso da godere tramite un puro guardare. Ma non verrebbe più, in tal caso, inteso come un rumore. Eppure, anche se il racconto costituisce il fumetto, sappiamo bene che non lo esaurisce affatto. I rumori grafici sono certo prima di tutto rumori, ma un po’ sono anche favolosi oggetti grafici sospesi nello spazio.

Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985

Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985

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Di sinsemia e mappe neuronali

Giusto un’osservazione veloce (quasi un commento) al post di Roberta Buzzacchino su Sinsemia, perché a mio parere dà credito a un errore concettuale troppo diffuso. Dice la Buzzacchino:

Una mappa mentale è la rappresentazione grafica del pensiero attraverso parole e immagini secondo una struttura gerarchico-associativa che si sviluppa in senso radiale. Essa si basa sulla capacità naturale della mente umana di associare idee e pensieri in maniera non lineare e permette di sfruttare al meglio le potenzialità latenti dell’emisfero destro del nostro cervello, cioè quello che elabora le informazioni in modo globale, creativo, intuitivo, emotivo e farlo lavorare in sinergia con l’emisfero sinistro che invece è logico, razionale. Per questo la mappa mentale può essere considerata come la “traduzione biologica” delle idee.

Ho segnato in rosso le asserzioni che mi interessano (i grassetti invece sono suoi).

Così, in primo luogo non capisco perché il pensiero debba svilupparsi in senso radiale secondo una struttura gerarchico-associativa ad albero. Se anche accettiamo l’idea che sfrutti al meglio le potenzialità latenti dell’emisfero destro (idea che non contesto in sé qui, ma che è comunque discutibile), una struttura ad albero è già una forma piuttosto forte di ordinamento (per quanto non totale), mentre una struttura di carattere associativo dovrebbe piuttosto essere espressa, molto più genericamente, da una rete.

Guarda caso, l’idea della rete come migliore espressione della natura associativa del pensiero ricorreva associata al secondo (e assai più grave) errore già nelle teorizzazioni degli entusiasti dell’ipertesto degli anni Ottanta e primi Novanta. Il secondo errore è infatti quello di fondare la validità delle relazioni non lineari sulla non linearità delle relazioni del nostro cervello: là era la rete ipertestuale, qui è la mappa mentale ad albero, ma entrambi vengono presentati come “traduzione biologica” delle idee.

Ora, non si capisce perché il “tracciare una struttura analoga a quella dei neuroni” dovrebbe fornirci una comunicazione più efficace. E allora perché non anche il “tracciare una struttura analoga a quella degli organi intracellulari”, o a quella delle catene molecolari, o a quella degli atomi o dei nuclei o delle relazioni quantiche all’interno dei protoni? Tra il livello dell’organizzazione neuronale e quello dell’organizzazione del pensiero esiste una quantità di mediazioni spaventosa, che non permette di tracciare nessuna corrispondenza diretta tra loro – ma al massimo una qualche relazione metaforica, e questa potrà avere, a sua volta al massimo, un valore di suggestione; anche perché potrebbe essere legittimamente sostituita da qualsiasi altra metafora ugualmente suggestiva.

Se la sinsemia è utile non è certo per una qualsiasi corrispondenza diretta con il livello biologico. È tanto più semplice e sensato semmai trovare corrispondenze con la rete delle associazioni concettuali, che si sono accumulate nei secoli molto più nelle attività umane e nelle loro registrazioni, che non nella struttura neuronale degli individui. Quando poi il problema non è solo quello della trasmissione del significato, ma anche quello della persuasione e delle formazione culturale, le cose si fanno ulteriormente più complicate.

Anche ammettendo che il principio riduzionista sia valido, le neuroscienze devono ancora fare molta strada per poter ridurre il significato alla neurofisiologia (o, peggio, alla neuroanatomia) – e non sarà comunque, certamente, una relazione diretta.


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Dello sguardo e della parola (nelle meditazioni gesuite)

Jerónimo Nadal, Tavola sull’Annunciazione dalle “Adnotationes et meditationes in Evangelia”, 1594

Jerónimo Nadal, Tavola sull’Annunciazione dalle “Adnotationes et meditationes in Evangelia”, 1594

Tanto per restare sui temi di queste settimane, parlando di parola e immagine e dimensione spaziale e visiva, leggo un libro da poco uscito di Andrea Catellani (Lo sguardo e la parola. Saggio di analisi della letteratura spirituale illustrata, Franco Cesati Editore 2009). È un libro di impostazione semiotica, che ha per oggetto di analisi il particolare tipo di comunicazione impostato dal gesuita Jerónimo Nadal nel suo volume Adnotationes et meditationes in Evangelia, del 1594. Il volume di Nadal non contiene solo un’opera fortemente illustrata, ma è anche un’opera sostanzialmente basata sulle proprie illustrazioni. Non solo, infatti, come si può vedere dalla figura sopra riportata, le illustrazioni contengono dei puntatori in forma di lettere maiuscole, che rimandano alle didascalie sottostanti, ma anche il testo continuo delle pagine circostanti si propone come commento più ampio dell’immagine e dei suoi dettagli. Nel libro di Nadal, dunque, l’illustrazione non è solo un commento a un testo verbale altrimenti autonomo, ma anzi, al contrario, è il nodo stesso della comunicazione, del quale il testo verbale rappresenta il commento, la spiegazione, l’interpretazione. Se togliete da questo contesto le figure, le parole cessano di avere senso, perché ne scompare il riferimento; se invece togliete le parole, impoverite grandemente la comunicazione delle immagini, senza tuttavia ucciderla del tutto.

Catellani analizza dettagliatamente il meccanismo di senso del volume di Nadal e di molte delle sue immagini, anche per comparazione con gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, da cui questo libro deriva, e con i lavori di alcuni contemporanei e allievi di Nadal. Lo fa da numerosi punti di vista, perché la macchina comunicativa di Nadal è davvero complessa ed estremamente ricca, e sfrutta numerose potenzialità già note dell’immagine introducendone altre, sufficientemente intuitive da poter essere comprese con poco sforzo dal fruitore.

Lo scopo di queste immagini e dei testi (brevi e lunghi) che le accompagnano non è soltanto informativo-didattico, ma è anche di supporto alla meditazione. Per esempio, l’immagine che ho riportato qui sopra non è soltanto un’illustrazione dettagliata dell’evento dell’Annunciazione, con le sue premesse e conseguenze più importanti, ma anche un’icona dell’Annunciazione stessa, con le sue figure sacre (la Madonna, l’Arcangelo, Dio Padre, Cristo medesimo in croce), e quindi un oggetto che si presta alla devozione e alla preghiera.

Siamo ben lontani ormai dal furore delle discussioni tra iconoclasti e iconoduli che attraversano i secoli prima del Mille, centrate sul sospetto di idolatria che l’adorazione delle immagini sacre porta comunque con sé. È un dibattito che segna profondamente il destino delle immagini (sacre e profane) in Occidente, e si risolve nella decisione di considerare le immagini come rappresentazioni della natura mortale (per esempio) di Cristo, che a sua volta viene presa come simbolica di quella divina. Adorare le immagini viene riconosciuto dunque come lecito, purché si riconosca all’immagine questa natura di semplice e imperfetto tramite simbolico, attraverso il quale si può far riferimento al trascendente. Se pensiamo che l’Islam non arriverà mai a una conclusione di questo genere, e l’immagine sarà per sempre bandita dal suo universo, capiremo che cosa significhi questa decisione per la cultura europea.

Il Gesuita Nadal, molti secoli dopo, agisce in un contesto in cui questa natura imperfettamente simbolica dell’immagine è data ormai per scontata, ma sta probabilmente proprio in questa imperfezione la possibilità delle immagini di articolarsi in racconto, in spiegazione, in una moltitudine di varietà di tramiti nei confronti del divino.

Catellani ci fa osservare come, in una figura come quella dell’Annunciazione di Nadal (che vedete qui sopra), l’evento centrale dell’apparizione dell’Arcangelo Gabriele alla Madonna sia circondato da una serie significativa di altri dettagli ed eventi, e ciascuno viene identificato da una lettera, che a sua volta rimanda alla legenda sottostante. In questo modo la successione ordinata alfabetica rimanda a un percorso di lettura preferenziale dell’immagine, che parte (A) dall’incarico dato a Dio Padre all’Arcangelo, che continua (B) con la presa di costituzione materiale dell’Arcangelo al suo ingresso nel mondo e (C) con la discesa della luce divina su Maria, che focalizza (D) l’attenzione sulla casa di Maria subito prima di presentarci l’evento centrale dell’Annunciazione medesima (E), per poi passare alle premesse prime di tutto questo, cioè (F) la creazione di Adamo, e alle conseguenze (G) cioè la crocefissione, sino all’annuncio dell’incarnazione del Cristo (H) che l’angelo porta alle anime del limbo.

La precisione con cui la sequenza delle lettere conduce l’attenzione del fruitore ha carattere didascalico, e permette di leggere l’immagine come un percorso narrativo, una sorta di fumetto, dove il racconto (come in tante tavole di Sergio Toppi, per esempio) si trova non articolato per vignette (cioè per riquadri separati) ma per aree differenti dello stesso spazio in cui agiscono dei vettori impliciti che conducono lo sguardo e l’attenzione a trascorrere dall’una all’altra rivelando la successione degli eventi. Anche qui sono presenti dei vettori impliciti, ma la successione alfabetica li rinforza con la sua inequivocabilità.

Ecco dunque che l’Annunciazione non è più presentata come un semplice evento unitario, ma come l’evento focalizzato (in quanto degno di devozione anche in sé) all’interno di una catena narrativa assai ampia. Il gesuita che fa uso del libro di Nadal per le proprie devozioni non sta dunque adorando l’evento in sé, bensì quell’evento come segno di tutta la catena degli eventi che hanno portato Cristo in Terra a redimere l’umanità, una catena che rimanda comunque a Dio.

L’immagine, con le sue dimensioni spaziali, diventa il contesto a cui la parola gira intorno, e in cui la parola trova senso. Per quanto imperfetto, è l’immagine l’oggetto di adorazione e spiegazione, rispetto a cui la parola è un semplice ausilio. L’immagine è insieme un diagramma del racconto, su cui si inserisce il discorso verbale, e l’imperfetta ma decisiva rappresentazione del divino, ed è quindi insieme temporalità (umana) e intemporalità (divina).

Il resto del discorso lo lascio alla lettura del testo di Catellani, che spero di non aver tradito troppo, in questa mia (partigiana) rilettura di una piccola parte delle davvero tante prospettive da cui riesce a osservare queste intriganti figure.

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Dell’antica scrittura tamil

Iscrizione nel grande tempio di Tanjavur

Iscrizione nel grande tempio di Tanjavur

Tra le cose che ho trovato affascinati e degne di essere fotografate nel Tamil Nadu ci sono anche queste iscrizioni su pietra, entrambe realizzate intorno al X o XI secolo. Mi sembra di capire che la scrittura utilizzata nelle due iscrizioni è la stessa, ma è evidente la differenza di stile grafico tra le due. Inoltre, quella di Tanjavur è notevolmente più accurata e raffinata.

Da quel poco che riesco a capire, mi sembra anche che questa scrittura sia differente (benché parente: diversi segni, con un po’ di sforzo, sono alla fine riconoscibili) da quella utilizzata dai Tamil oggi. D’altra parte, all’occhio di qualcuno che non l’ha mai frequentata, anche la nostra scrittura può apparire mostruosamente trasformata dal Mille a oggi; quelle che a noi appaiono semplicemente come varianti stilistiche (tra, p.e. il gotico e gli alfabeti moderni) possono apparire da fuori come vere trasformazioni morfologiche.

Ho però ragione di pensare che la scrittura tamil si sia trasformata davvero nell’ultimo millennio. La scrittura brahmi da cui deriva veniva utilizzata poco prima di Cristo, e non è certo cambiata da un giorno all’altro.

D’altra parte anche noi mica utilizziamo la stessa scrittura degli antichi romani, a dispetto di quello che ci fanno credere a scuola. Il set di lettere che avete principalmente sotto gli occhi, cioè quelle minuscole, è interamente un’invenzione del medioevo. I Romani (come pure i Greci) usavano solo il maiuscolo.

Iscrizione nel Rock Fort Temple di Tiruchirapalli

Iscrizione nel Rock Fort Temple di Tiruchirapalli

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Di Pogo e Barnaby, o della parodia della tipografia

Pogo, di Walt Kelly

Pogo, di Walt Kelly

Pogo contiene stupendi esempi di parodie di tipografie espressive. Per esprimere l’eloquio fiorito (sempre in campagna elettorale) del politico locale Mr. Bridgeport, Kelly mette in scena un intero campionario di caratteri ottocenteschi, quelli dei manifesti americani del West, e rappresenta i suoi balloon come se fossero striscioni di propaganda. Tuttavia, per restare in tono con lo spirito disegnato della striscia, non usa questi caratteri nella loro versione naturale a stampa, ma li disegna a loro volta a mano.

L’effetto, oltre quello di parodiare ferocemente il politico americano medio (di destra), che parla per esclamazioni di giubilo e luoghi comuni, è quello di farci vedere come anche la tipografia faccia parte del panorama della parola, e connoti fortemente le epoche e i ruoli sociali. Analogamente, infatti, il canto un po’ ridicolo della tartaruga Churchy Lafemme viene reso da un carattere minuscolo di ascendenza medievale, forse non troppo dissimile da quelli che avrebbe usato un William Morris per stampare un’antica ballata.

Pogo, di Walt Kelly

All’estremo opposto di Pogo, da punto di vista del lettering, sta Barnaby, di Crockett Johnson. Allo stile estremamente lineare del disegno, privo di qualsiasi dettaglio che non sia essenziale, e ossessivamente riportato alle rotondità dell’infanzia, viene accostato un lineare tipografico freddo in alto-basso, appena appena riscaldato dall’essere in versione obliqua (un Futura Heavy italics, presumibilmente). Niente lettering disegnato dunque: mentre Kelly disegna persino i caratteri a stampa, Johnson opta per la tipografia là dove non la usa nessuno.

Non è una scelta dettata da principi di economia (come sarebbe successo poi per tanti altri fumetti, con risultati spesso degradanti), ma anche qui una scelta espressiva. Il carattere con cui sono scritti questi dialoghi è lineare e neutro quanto il disegno di Barnaby, e, proprio come per il disegno, la sua scarsa espressività serve a mettere in evidenza le infinite sfumature dei discorsi e delle situazioni di questo piccolo capolavoro della comic strip americana.

È la stessa strategia dell’understatement che adotterà vittoriosamente Charles M. Schulz qualche anno dopo: rendere neutri o insignificanti un sacco di fattori su cui normalmente nel fumetto si gioca, in modo da fare emergere più chiaramente altri fattori, che altrimenti non potrebbero essere notati.

Per la storia del fumetto di quegli anni, da questo punto di vista Pogo rappresenta magistralmente il passato, e Barnaby il futuro. (Certo che se poi si allarga la vista a tempi più ampli e ad altre considerazioni stilistiche, diventa assai più difficile decidere chi sia stato alla fine il più progressista dei due. Ma credo anche che, se si generalizza troppo, il problema smetta davvero di avere senso.)

L'annuncio pubblicitario di Barnaby, di Crockett Johnson, 19 Aprile 1942

L’annuncio pubblicitario di Barnaby, di Crockett Johnson, 19 Aprile 1942

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Della linearità della scrittura

Judgement in the Other World, from the Book of the Dead. 350 B.C.

Judgement in the Other World, from the Book of the Dead. 350 B.C.

Sinsemia è un nuovo blog dall’aria molto promettente, il cui tema è la disposizione delle parole nello spazio allo scopo di comunicare, oltre che con le parole stesse, anche con le loro relazioni spaziali e grafiche e le immagini circostanti. Se volete capire più concretamente di che cosa si tratta, dateci un’occhiata, se avete fretta magari solo alle immagini, che sono sufficientemente esplicite da sé. La sinsemia non è una novità. Vi sono esempi storici come quello di Robert Fludd (1619) o quello di Gioacchino da Fiore (sec. XIII), analizzato da Luciano Perondi e Leonardo Romei (gli stessi autori del blog) su Nova 24, supplemento del Sole 24 Ore, il 28 ottobre.

Il post del 26 novembre, sul Codex Mendoza e la scrittura azteca mi fornisce un’occasione per riflettere sulla linearità della scrittura. In altre parole, se gli aztechi (e non solo loro) potevano fare uso di una scrittura non lineare, come mai noi siamo talmente vincolati alla dimensione lineare e sequenziale della scrittura da fare persino fatica a concepire qualcosa che sia insieme scrittura e comunicazione non lineare? Benché vi siano tracce di sinsemia sia nel passato che nel presente, non percepiamo certo questo modo di organizzare la scrittura come normale. Per esempio non lo si insegna a scuola – anzi tutto il nostro insegnamento e l’attività che ne consegue è basato sulla linearità della scrittura; sino a creare delle abitudini totalizzanti: io medesimo, nello scrivere queste righe a difesa della sinsemia, non sono capace di farne davvero uso, e il mio pensiero scrittorio si sviluppa sequenzialmente in un normale (per noi) testo lineare.

Credo che la questione debba essere fatta risalire a due fattori antichi, che sono l’invenzione dell’alfabeto e le ragioni della sua adozione in Grecia. L’alfabeto porta a compimento un processo di fonetizzazione della scrittura che dura millenni. Il suo vantaggio è quello di basarsi su un piccolissimo numero (molto arbitrario) di unità fonetiche consonantiche, con la scommessa che siano sufficienti a trascrivere tutte le parole. Quando l’alfabeto viene inventato, la scrittura dell’area mediorientale era già in larga misura fonetica; ma in quei sistemi di scrittura vi erano comunque moltissimi segni, che facevano riferimento a unità fonetiche a volte semplici come le nostre, ma spesso anche molto più complesse: intere sillabe e oltre.

Di questo tipo erano anche le scritture dell’antico Egitto (geroglifico, ieratico, demotico). Ma non tutti i segni che queste scritture utilizzavano andavano interpretati foneticamente: c’erano anche dei segni, detti determinativi, che rimandavano direttamente all’ambito di significato della parola. Insomma se “lira” fosse stata una parola dell’antico Egitto, ne avrebbe fatto parte o il determinativo per gli strumenti musicali oppure quello per le monete – e avremmo due parole diverse anziché una. Le scritture antiche, dunque, trascrivevano non soltanto il suono, ma anche il senso; e questo permetteva loro di essere lette molto più facilmente con i soli occhi, senza articolare la voce. Anche per questo, l’accostamento alle immagini appariva agli Egizi molto naturale, e le sinsemie sulle pareti delle tombe sono la norma, non l’eccezione.

L’invezione dell’alfabeto, dunque, taglia fuori il senso dalla scrittura diretta. Da quel momento, la parola scritta rinvia esclusivamente a quella orale, la quale a sua volta rinvia al senso. Ed è radicalmente secondo questa modalità che i Greci assumono la scrittura, copiandola dai Fenici, ma adattandola alle proprie esigenze fonetiche: per esempio, aggiungendo le vocali. L’adozione della scrittura in Grecia, intorno al IX-VIII secolo, sembra essere dovuta alla possibilità che essa offriva di memorizzare stabilmente il kleos, ovvero la celebrazione poetica degli eroi, quel genere cruciale per loro (e sino a quel giorno esclusivamente orale) che aveva il suo apice nei poemi omerici (vedi il libro di Jesper Svenbro, Storia della lettura nella Grecia antica, Laterza 1991).

E siccome i Greci scrivevano soltanto per memorizzare meglio quello che essi vivevano esclusivamente attraverso la parola orale, concepirono sempre la scrittura come semplice supporto mnemonico della voce – e mai come un sistema di significazione autonomo. Per questo, nell’antica Grecia, la lettura era un’attività che si svolgeva esclusivamente ad alta voce.

I Romani impararono tutto dai Greci, almeno in questo campo, e la consuetudine della lettura ad alta voce proseguì ininterrotta sino ai primi secoli dopo il Mille. C’è un bel libro di Ivan Illich (Nella vigna del testo. Per un’etologia della lettura, Raffaello Cortina 1994) dove si racconta come la diffusione della filosofia scolastica sconvolse le modalità di lettura (e anche di scrittura), rendendo necessaria una più rapida scansione dei testi, incompatibile con la vocalizzazione. Nasce così la lettura moderna, interiore, quella in cui tutti noi siamo ormai abilissimi.

Nella lettura visiva, le parole non vengono tradotte in suoni nemmeno dentro di noi, se non occasionalmente. Le cogliamo con gli occhi, nella loro interezza e successione; e con gli occhi ne riconsciamo immediatamente anche il senso.

Da questo punto di vista, se le parole sono virtualmente pronte oggi a essere trattate come oggetti visivi, allora anche noi siamo virtualmente pronti ad affrontare i testi sinsemici con la stessa facilità con cui affrontiamo quelli lineari tradizionali. E di fatto è proprio così, oggi – almeno dal punto di vista della fruizione.

Veniamo però da una tradizione che, nel momento in cui la parola ha incominciato a diventare visiva, aveva già alle spalle una determinante letteratura sequenziale, legata alla enunciazione orale della parola. E qualsiasi nuova letteratura non può mai fare a meno di confrontarsi con la vecchia.

Insomma, siamo legati alla scrittura lineare perché ci siamo nati dentro, e perché le nostre stesse radici culturali ci sono nate dentro. Non è quindi colpa della stampa, nonostante essa abbia certamente contribuito, a suo tempo, a separare le parole dalle figure, visto che era diverso il procedimento tecnico per metterle sulla pagina. Figure come quelle di Gioacchino da Fiore erano nella loro epoca dei pezzi unici, irriproducibili se non a rischio di alterarne il senso. In epoca di amanuensi, la scrittura alfabetica rappresentava l’unico strumento di trasmissione del sapere che garantisse una accettabile correttezza di riproduzione. Solo con l’invenzione della stampa diventò dunque facile riprodurre testi che contenessero anche le immagini (come quello di Fludd).

Insomma, la questione è intricata. Ma anche appassionante. Credo che avremo modo di tornarci sopra.

Per il momento, ancora solo un’osservazione di passaggio. C’è almeno un sistema di tipo sinsemico che è diventato recentemente comunicazione normale, in ambito narrativo, nelle culture basate sull’alfabeto. Ed è, ovviamente, il fumetto. Il fumetto, infatti, per esistere, ha bisogno non solo della stampa, ma anche di un sistema molto avanzato di produzione e consumo a stampa.

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Della varietà tipografica Tamil

Varietà tipografica sulle strade del Tamil Nadu

Varietà tipografica sulle strade del Tamil Nadu

Questa settimana, visto che siamo in tema di caratteri, niente foto indiana. Mi sono invece divertito a realizzare questo collage di caratteri tipografici della scrittura tamil, presi per le strade del paese (insegne e manifesti).

Al di là di un gusto per il colore forte che caratterizza tanto i caratteri tipografici quanto le figure in generale, ci sono poche altre osservazioni da fare per un’immagine che si commenta da sé. Giusto due parole sulla scrittura tamil, che è una delle tante scritture derivate dal brahmi (l’antica scrittura del sanscrito, dell’epoca precedente alla nascita di Cristo), tra le quali la più nota è il devanāgari, con cui si scrive l’indi e altre lingue indiane del nord. Sono tutte scritture a base sillabica, in cui i caratteri principali, nella loro forma di base esprimono ciascuno una consonante seguita dalla vocale a. Se si vuole indicare una vocale diversa, il carattere cambia leggermente forma, a seconda della vocale da esprimere. Se la consonante va pronunciata da sola, viene sormontata da un punto. Per le vocali da sole esistono invece altri segni.

Non sarebbe un sistema in sé particolarmente complesso, se non fosse che l’uso ha imposto la presenza di molte legature (coppie di caratteri frequentemente accostate, che si fondono graficamente, dando vita a un nuovo carattere, come succede in Occidente con il segno &, cioè “et”). Queste legature, in tamil sono alcune decine, mentre in altre scritture indiane possono essere addirittura centinaia, e rappresentano il principale ostacolo all’apprendimento rapido da parte di un Europeo.

Comunque, nelle poche settimane in cui sono stato lì ero riuscito a imparare a leggere un sufficiente numero di caratteri da distinguere le destinazioni dei bus, che spesso non venivano scritte anche in caratteri occidentali; e per scoprire che i nomi delle città potevano a volte suonare piuttosto differenti per i locali rispetto alla loro versione occidentale (es. Puduccherri per Pondicherry, che va pronunciata alla francese, perché era, appunto, una colonia francese).

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Del lettering nel fumetto

Dino Battaglia, Maupassant, Due amici, p.4

Dino Battaglia, Maupassant, Due amici, p.4

Questa settimana parlo solo di caratteri, e il tema è di grande importanza anche per il fumetto. La leggibilità di un carattere è un requisito necessario, ma quando il carattere è usato per testi brevi una parte della sua leggibilità può essere anche sacrificata alla sua (chiamiamola così) espressività visiva (o espressività grafica): se per il corpo del testo di un romanzo o di un saggio la scelta del carattere va fatta tra quelli che garantiscono la massima leggibilità (poiché mentre si legge il carattere deve diventare trasparente, garantendo la totale attenzione al flusso delle parole), viceversa in un titolo o in una insegna o in una comunicazione pubblicitaria, la componente espressiva visiva del carattere può manifestarsi di più, sino a diventare predominante.

Poiché il fumetto comunica visivamente ancora prima che narrativamente (cioè per leggere il racconto è necessario aver guardato le immagini), la componente espressiva visiva dei caratteri ha comunque una grande importanza. Ce l’ha anche quando siamo vicini al livello qualitativamente più basso: persino il lettering più neutro e banale, per esempio, si fa per convenzione in maiuscolo – e il maiuscolo è notoriamente meno leggibile del minuscolo. Anche il lettering più neutro e banale, dunque, manifesta una qual continuità stilistica visiva con le linee del disegno circostante. Come minimo, insomma, queste lettere disegnate a mano (almeno in apparenza, spesso) manifestano la propria appartenenza al medesimo mondo grafico delle figure rappresentate vicino a loro.

Guarda caso, il passaggio dalla narrazione per immagini ottocentesca al fumetto vero e proprio negli USA di fine secolo è caratterizzato anche dalla nascita di un lettering disegnato – ben diverso da quello a stampa delle didascalie. Il carattere a stampa, evidentemente, dichiara pure in maniera grafica la propria appartenenza a un mondo diverso da quello delle figure disegnate: è un commento esterno, a cui corrisponde una finestra visiva. Nel fumetto, viceversa, noi siamo già, leggendo, nel mondo dietro a quella finestra, e il lettering manuale ci mostra di far parte pure lui di quel medesimo mondo.

Dino Battaglia script

Dino Battaglia script

Se passiamo dall’uso elementare del lettering a usi più raffinati, ci possiamo accorgere di quanto grande possa essere il contributo della forma delle lettere all’effetto visivo complessivo. Immaginate di sostituire questo lettering molto particolare di Dino Battaglia con uno più standard, anche se sempre disegnato. Se lo facessimo, ci accorgeremmo immediatamente di come ne risulterebbe stravolto l’equilibrio compositivo della pagina (qui riprodotta all’inizio del post).

Le lettere di Battaglia hanno lo stesso stile “graffiato” delle sue figure, ottenuto attraverso l’uso di un pennino sottile a punta dura. Un lettering più morbido metterebbe i testi scritti (balloon e didascalie) nettamente in evidenza sul resto della pagina, a causa della loro diversità. Anche se risulterebbe magari più leggibile finirebbe per essere messo troppo in evidenza.

Anzi, si ritroverebbe a essere in evidenza due volte: una, come già detto, per la sua diversità dal grosso dell’immagine; l’altra perché la sua maggiore leggibilità inviterebbe il lettore a privilegiare il testo rispetto alle figure, ma non è questo che l’autore vuole. A queste figure bellissime ma di decifrabilità non immediata deve corrispondere per forza un font che richiede qualche (piccolo) sforzo di lettura: comunque questa è una storia a fumetti, cioè una storia in cui è l’immagine a dover avere un peso determinante.

Andrea Pazienza, The Legend of Italianino Liberatore 2, p.8

Andrea Pazienza, The Legend of Italianino Liberatore 2, p.8

I medesimi principi di fondo sortiscono un effetto tutto diverso nel lavoro di Andrea Pazienza, che disegna con la punta morbida di un pennello o pennarello, giocando su bruschi cambiamenti di tonalità, e masse di bianco e di nero. Il lettering di Pazienza è una componente essenziale del suo disegno, praticamente inseparabile, composto di linee che sono esattamente le medesime linee, con i medesimi andamenti grafici, delle linee delle figure, e persino delle linee di contorno dei balloon.

La leggibilità è forse ancora più bassa che nel caso di Battaglia, ma l’espressività è straordinaria, ed è questa riduzione della dimensione verbale alla dimensione visiva del disegno a dare al lavoro di Pazienza una coerenza e un’efficiacia ineguagliabili. Sostituite questo lettering con uno più standard e non avrete ridotto, ma distrutto il lavoro di Pazienza.

Andrea Pazienza script

Andrea Pazienza script

D’altra parte, lui stesso è acutamente consapevole della necessità di alternare momenti in cui il lettering è sostanzialmente regolare a momenti in cui esso esplode graficamente. Tuttavia, anche dove il lettering di Pazienza è regolare esso esprime una notevole attenzione espressiva: la sua fattura manuale è sempre ostentata; sembra cioè che sempre esca direttamente dall’animo ironico del suo autore. Ed è per questo che la sua enfatizzazione, quando avviene, appare così naturale.

Leggendo Pazienza, paradossalmente, è come se seguissimo la voce di un narratore, che esprime le emozioni con i toni mentre racconta i fatti con le parole. Solo che la voce di Pazienza è il segno grafico, e questo segno si manifesta esattamente al medesimo modo nelle figure e nel lettering, tramite le quali, al contempo, ci mostra i fatti. Dunque, non c’è scampo: per leggere le storie di Pazienza le dobbiamo soltanto attentamente guardare.

Paolo Bacilieri, La magnifica desolazione 2007 p.59

Paolo Bacilieri, La magnifica desolazione 2007 p.59

Paolo Bacilieri ha senz’altro imparato molto da Pazienza, penso di più e meglio di chiunque altro. Il suo lettering esprime finemente il sarcasmo che pervade, narrativamente e graficamente, le sue storie, ed è graficamente coerente con quello che gli sta vicino. Osservate questo “bold” di forme quadrateggianti, e confrontatelo con le linee spesse del contorno delle figure e con la continua presenza di forme simili a rettangoli dagli angoli bombati – non solo nei balloon ma anche nei profili dei personaggi e dei loro dettagli.

Paolo Bacilieri script

Paolo Bacilieri script

Magari Bacilieri non ha il virtuosismo grafico di Pazienza (e chi ce l’ha?), ma è bravissimo nel costruire la (sardonicamente desolante) coerenza del proprio mondo. Il lettering ne è – se vogliamo dire così – il basso ostinato, lo swing, il groove.

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Del carattere di un carattere, lineare con grazie

Il Copperplate di Frederic Goudy (1901)

Il Copperplate di Frederic Goudy (1901)

A proposito di caratteri progettati per titoli e insegne, è notevole la diffusione negli ultimi anni di un carattere di oltre un secolo fa, il Copperplate, di Frederic Goudy (vedi Wikipedia, o ancora meglio, la pagina di Identifont). Non tanto per i titoli, ma se vi guardate attorno per le strade, o se sfogliate le pagine pubblicitarie delle riviste, non sarà difficile accorgervi del rinnovato successo di questo carattere.

Vorrei cercare di coglierne le ragioni, o almeno di fare qualche ipotesi.

Intanto, trattandosi di un carattere per titoli e insegne, la sua leggibilità è certamente meno rilevante che quando si parla di caratteri per il corpo del testo. Naturalmente, il carattere deve restare leggibile, ma è fatto per applicarsi a testi così brevi che le ragioni del guardare possono prevalere su quelle del leggere (prevalere non vuol dire soverchiare: se la leggibilità si perde, si perde il senso stesso della scrittura). In questo senso, il carattere inteso come figura trasmette più senso del carattere inteso come componente del testo verbale. Poiché un’insegna contiene tipicamente un nome proprio, o un nome comune che chiede di essere qualificato, la figura del carattere è esattamente ciò che fornisce la qualifica, ciò che dà senso (visivamente) a un testo verbale in sé abbastanza neutro.

Copperplate è un carattere elegante. Ostenta questa eleganza attraverso due caratteristiche volutamente notevoli (in quanto opposte alla forma normale dei caratteri): l’accostamento delle grazie con linee dal tratto non modulato (cioè di spessore costante – tipico dei caratteri senza grazie), e l’allargamento dei glifi sino a ottenere, nelle forme tondeggianti, degli ovali più larghi che alti (in quanto opposte alle forme tonde o più alte che larghe che costituiscono la norma). L’allontanamento dalla norma, ovvero da come sono di solito fatti i caratteri, viene qui ostentato, e poiché il carattere risulta per questi aspetti troppo particolare (troppo attirante l’attenzione su di sé anziché sul testo che ne fa uso), è chiaro che sono ragioni estetiche a motivarlo.

A differenza di altri caratteri di Goudy, tuttavia, il riferimento all’epoca (e agli stili) nel cui contesto è stato prodotto è molto leggero. Persino un lineare come il Goudy Sans, più “normale” e leggibile, tradisce gli anni in cui è stato disegnato più di quanto non faccia il Copperplate. Anzi, forse l’immaginario visivo di Goudy nel 1930 è rimasto leggermente indietro rispetto alle forme di quegli anni. Ma non tutti i font si costruiscono per esprimere lo spirito del presente.

Il Goudy Sans di Frederic Goudy (1930)

Il Goudy Sans di Frederic Goudy (1930)

Il Goudy Sans ha questa grazia da vecchie scrivanie dai cassetti bombati, con borchie in ferro battuto, e questa vocazione ancora molto liberty alle curve che cambiano frequentemente raggio. È un carattere assai raffinato, forse ancora più elegante del Copperplate, ma porta con sé quella sfumatura di estenuatezza che associamo costantemente alle forme dominanti all’inizio del secolo.

Il Copperplate è molto più ambiguo, da questo punto di vista. Contiene anche lui, per noi, mi pare, un riferimento all’inizio del secolo, ma non alle forme estenuate del liberty, dell’art nouveau, dello jugendstil. Il riferimento è semmai a una certa qual solidità industriale, relativa però a un momento in cui l’industria è nascente, e ha ancora forti legami con l’artigianato e con le gestioni famigliari.

È forse questo, allora, il segreto del Copperplate: dichiarare una natura industriale (che non si potrebbe comunque nascondere) alludendo alla sua matrice artigianale, e alla cura manuale che essa implica. In un mondo come il nostro, dove il “fatto a mano” rappresenta il non plus ultra, ma l’industria è comunque inevitabile, i suggerimenti del Copperplate sembrano l’ideale per connotare negozi e prodotti – almeno sino a quando non avranno saturato la nostra vista, e non ne potremo più di vederli per ogni dove. La saturazione, quando alla fine si dà, rivela la natura dell’inganno: non ci possono essere tanti negozi e prodotti connotati al medesimo modo, e quello finisce per diventare, di conseguenza, un modo che puzza di falso.

C’è un altro carattere creato da Goudy che mi ha sempre divertito molto, ed è il Goudy Stout (cioè il Goudy robusto), con la sua eccessività e (anche qui) ostentata manualità. Ultimamente, me lo sono ritrovato davanti in più occasioni, ma non come carattere da insegne: si trova, in questi giorni, su due fogli A4 stampati al computer che fanno bella vista di sé sugli ingressi dei bagni della stazione di Pesaro (“Bagno uomini” e “Bagno donne”); e l’ho visto anche su un foglio, sempre di produzione artigianale, davanti a un bar, e la scritta era “Panini al prosciutto”.

Dovrei provarmi a decifrare quindi le misteriose ragioni per queste scelte (scelte chiaramente più estemporanee e meno riflettute di quelle che si fanno per una costosa e stabile insegna). Una ragione è facile: il Goudy Stout è evidentemente un font scherzoso, e mille volte meglio dell’insopportabile Comics Sans. Ma ce n’è una, che ipotizzo, ancora più facile: il Goudy Stout dev’essere entrato nel repertorio dei font standard, quelli che sono presenti per default su tanti computer, pronti all’uso per tutti i grafici improvvisati del mondo.

Ma questa disincantata riflessione mi getta di colpo una strana luce anche sulle ragioni vere del revival del Copperplate. Non che le ragioni eviscerate sopra non restino valide, ma non si può certo escludere che abbiano fatto la loro parte pure la diffusione in elettronica del font, e la pubblicità con cui sarà stato accompagnato presso gli studi grafici.

 

Il Goudy Stout di Frederic Goudy (1930)

Il Goudy Stout di Frederic Goudy (1930)

Un’ultima nota. Per chi ne vuole sapere di più sui font di caratteri, c’è l’ottimo sito Identifont che può rispondere a molte domande (tra cui aiutarvi a dare nome a un font che avete sotto gli occhi e non sapete cos’è) e da cui sono state tratte le immagini di questo post. Se invece volete una veloce ma consigliabile scorsa, secondo il sistema di classificazione dei caratteri Vox, potete consultare questa pagina dell’ottimo blog di grafica Misstypo.

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Dei caratteri lineari e del razionalismo in tipografia

Da tempo volevo riprendere un tema che ritengo importante, quello del carattere tipografico, che avevo già aperto qualche mese fa in un post intitolato Del carattere lineare e del sublime nell’arte. È un tema importante perché di difficile definizione, e perché si trova ai confini del senso. Sono difficili da definire anche, singolarmente, i due corni stessi del problema, che potremmo denominare come la questione della leggibilità e quella dello stile. Parlare di leggibilità significa escludere che il carattere tipografico debba trasmettere autonomamente del senso: tra le sue proprietà vi sarà infatti anche quella di veicolare al meglio le parole scritte, alle quali spetta interamente la costruzione del significato, senza interferenze e distrazioni. Parlare di stile significa invece riconoscere al carattere tipografico una componente di senso, che andrà ad aggiungersi o combinarsi con quelle più propriamente verbali, anche a costo di togliere al lettore una qualche componente di attenzione.
Sono proprio questi i termini del dibattito che, nella Svizzera degli anni Cinquanta, patria di una rivoluzione nel campo della grafica, contrappongono Jan Tschichold a Max Bill e Emil Ruder. Tschichold era stato negli anni Trenta uno dei più attivi sostenitori del rinnovamento grafico ispirato dal Bauhaus, ma aveva poi assunto posizioni più umanistiche, a partire dalle quali aveva già avuto uno scontro molto duro con Bill, a sua volta allievo del Bauhaus, e fiero assertore di un design razionalistico. Ruder era a sua volta uno dei principali rappresentanti della nuova grafica svizzera, ispirata dalle posizioni di Bill.
Per Tschichold il carattere tipografico non deve esprimere nulla, tantomeno lo spirito del tempo, come vorrebbero invece i nuovi grafici svizzeri; deve piuttosto preoccuparsi di “essere adatto ai nostri occhi e al loro benessere”. Tschichold, proprio per questo, sostiene la migliore qualità dei caratteri aggraziati, mentre le scelte della nuova tipografia (comprese le sue stesse del passato) sono coerenti con una civiltà delle macchine sostanzialmente alienante – e, al limite, legate alla medesima radice oppressiva da cui è sorto il nazismo.
Trovo la posizione di Tschichold per molti versi condivisibile e per qualcuno un po’ eccessiva, anche se la verve polemica del momento probabilmente la giustifica un po’ di più di quanto non possa essere evidente oltre sessant’anni dopo. Voglio dedicare questo post a ripercorrere brevissimamente la storia di alcuni caratteri lineari di impostazione razionalista particolarmente significativi, e il loro uso.

 

Paul Renner Futura 1927

Paul Renner, il carattere Futura, 1927

 

Testo composto in Futura

Testo composto in Futura

 

Helvetica - Studio Haas 1953

Helvetica - Studio Haas 1953

Testo composto in Helvetica

Testo composto in Helvetica

Testo composto in Akzidenz Grotesk

Testo composto in Akzidenz Grotesk

È lo stesso difetto che ha portato, sui nostri computer, a sostituire l’Arial (pressoché identico all’Helvetica) con il Verdana, che è più largo e meno sensibile quindi alla concentrazione di linee verticali. (testo composto in Arial)

 

Univers di Adrian Frutiger 1954-57

Univers di Adrian Frutiger 1954-57

Testo composto in Univers

Testo composto in Univers

Frutiger - Adrian Frutiger 1973

Frutiger - Adrian Frutiger 1973

Testo composto in Frutiger

Testo composto in Frutiger

Testo composto in Gill Sans

Testo composto in Gill Sans

Insomma, non c’è nessuna sublime semplicità in loro, e non possono essere utilizzati come manifesto di una qualche posizione. La loro complessità deriva da un intelligente ripensamento della tradizione, con tutta la sua – a sua volta – complessità. Io credo che nessuna semplicità razionale, per quanto sublimemente razionale o progressista che sia, possa corrispondere a una natura complessa come quella umana, specie quando c’è di mezzo quel mondo ancora più complesso che è quello del significato.

P.S. Ho cercato, nelle figure e nei testi, di dare un’idea il più precisa possibile dei vari caratteri e del loro effetto nei blocchi di testo. Bisogna sempre tener presente, comunque, che l’effetto di un carattere a schermo dipende sempre non solo dalla sua invenzione originale,ma anche da come quella è stata poi resa nella versione del font digitale. Inoltre, per ragioni varie tra cui certamente anche la differente risoluzione, la resa a schermo dei caratteri è sempre differente di quella a stampa.

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Di quel leggere che è anche guardare

Infografica da feltron.com

Infografica da feltron.com

 

L’argomento di questo post mi si è per così dire imposto, come succede quando troppe coincidenze spingono negli stessi giorni sul medesimo tema. Proprio, infatti, mentre mi è ricapitato sotto mano La lettera uccide di Giovanni Lussu (il quale è a sua volta citato nel primissimo post di questo blog, intitolato appunto Guardare e leggere – esattamente come il libro che uscirà a gennaio da Carocci, e che era stato da me pensato in prima istanza per una collana diretta dallo stesso Lussu), leggo nel blog di Luisa Carrada una segnalazione di un altro post di Antonio Larizza intitolato Riscrivere la lettura, post che inizia citando Ivan Illich nel suo libro che mi è più caro (Nella vigna del testo). E mi accorgo poi che il primo degli articoli (suoi), collegati al tema, che la Carrada linka nel suo post è una specie di recensione del libro di Lussu; e il cerchio si chiude. Ed eccomi qui.

Il tema è la scrittura, ma non quella alfabetica. Chi conosce il lavoro della Schmandt-Besserat (di cui abbiamo parlato in questo post), sa che per diversi millenni il mondo antico ha utilizzato forme di scrittura senza associarle necessariamente alla parola, e sa di conseguenza che la scrittura alfabetica non è la scrittura tout court, ma solo un sistema che noi troviamo particolarmente comodo – ma anche il nostro giudizio è influenzato dal fatto che le nostre stesse attività grafico-scrittorie sono state condizionate a loro volta dalla scelta alfabetica, per cui c’è qualcosa di lapalissiano nel fatto che troviamo comodo un sistema di scrittura che ci permette di fare più facilmente quello che ci siamo abituati a fare attraverso quel medesimo sistema di scrittura! Proprio nel libro di Lussu, mi pare, ho ritrovato un’informazione che avevo già incontrato altrove, sul fatto che, a parità di anni di studio, i bambini inglesi imparano l’ortografia di un numero di parole inferiore a quello dei bambini cinesi. Se dunque il primato della scrittura alfabetica sta nella presunta semplicità di apprendimento, questo non vale davvero per tutte le lingue che ne fanno uso: inglesi e francesi ne sanno qualcosa.

Ma il punto sollevato da Larizza non è questo. È piuttosto che ci stiamo avviando (e sempre di più con le nuove tecnologie informatiche, iPad in prima linea) verso una scrittura visiva di tipo grafico, destinata ad accompagnare la scrittura alfabetica con la sua maggiore immediatezza e precisione (almeno per certi scopi). È il tema dell’infografica, cioè di come trasmettere l’informazione attraverso schemi, diagrammi e tabelle, grafici, grafi, o comunque figure facilmente e correttamente interpretabili, che siano anche nel contempo attraenti e interessanti alla vista.

Non c’è dubbio che la direzione sottolineata da Larizza sia corretta, anche se mi sembra eccessivo l’accento che (da giornalista) lui mette sulla novità della cosa. L’infografica (o i suoi predecessori) esiste in verità da quando esiste la comunicazione visiva – cioè da prima della scrittura. Ed è vero (come lui stesso ci ricorda) che le limitazioni dovute alla tecnica della stampa a caratteri mobili l’hanno portata, da Gutenberg in poi, un po’ in secondo piano – ma non l’hanno mai esclusa del tutto (basterebbe guardare cosa facevano i gesuiti tra Cinque e Seicento nei loro libri educativi – come ci spiega bene Andrea Catellani in un libro di cui parlerò prossimamente, Lo sguardo e la parola. Saggio di analisi della letteratura spirituale illustrata). Le condizioni di fruizione erano diverse (pochi e scelti lettori, lunga vita culturale della pubblicazione), ma questo non mi sembra così rilevante.

Il problema, secondo me, non sta tanto dalla parte della fruizione, bensì da quella della produzione. Una buona infografica, anche accompagnata da pochissime didascalie, è spesso più informativa e più immediatamente comprensibile delle parole che servirebbero per descrivere i medesimi dati. Certo, non qualsiasi discorso si presta alla visualizzazione grafica (e ci sono discorsi che si prestano benissimo a visualizzazioni che non sono infografiche – basta pensare ai fumetti), però indubbiamente se è opportuno usarla e ne abbiamo le capacità, dovremmo sentirci moralmente obbligati a farne uso; proprio come è moralmente giusto scrivere nella  maniera più semplice e comprensibile possibile, rispetto a quello che vogliamo esprimere.

Ma il punto sta proprio in questa capacità di fare uso della grafica. Gli esempi che porta Larizza (“i designer-giornalisti Andrew Vande Moere (www.infosthetics.com), Nicholas Feltron (http://feltron.com) e David McCandless (www.davidmccandless.com“) sono giornalisti che sono pure grafici di qualità, o che hanno il sostegno di grafici di qualità. Se l’argomento del discorso è la scrittura giornalistica, allora tutti dovrebbero fare come loro, ogni volta che sia opportuno.

Ma la scrittura investe ben altro universo, oltre al giornalismo. La sua corrispondenza (più convenzionale di quanto non si creda) con la lingua parlata può crearmi un’illusione di presenza rispetto alla voce di chi scrive, che rivela la sua efficacia, per esempio, nella posta, anche elettronica. Mi domando se i parlanti (e scriventi) cinesi percepiscano lo stesso effetto: in buona misura certamente sì, perché la scrittura cinese ha comunque una forte componente fonetica. Ma forse, in qualche altra misura, di meno, specie quando si sa che lo scrivente parla un dialetto differente dal nostro.

Ma lasciamo perdere anche i contesti in cui il legame della scrittura con la voce sono rilevanti. Possiamo immaginare, per sempio, una corrispondenza commerciale che accompagni a qualche formula verbale di cortesia e inquadramento del tema una serie di infografiche documentative o esplicative. Non c’è bisogno di aspettare il futuro o l’iPad per questo: già si fa.

Tuttavia, chi scrive una lettera commerciale di questo tipo non può sperare di avere a disposizione un grafico di qualità, se già non lo è lui stesso. Il problema diventa allora quello di poter disporre di strumenti grafici sufficientemente standard, facili da utilizzare e versatili nell’applicazione, così che il nostro scrivente se li ritrovi già nella propria competenza (avendoli comunque imparati a utilizzare, ma con lo stesso tipo di diligenza con cui si impara a scrivere).

Il vantaggio della scrittura non sta solo nella sua potenza espressiva, ma anche nella meccanicità (e quindi facilità) della sua applicazione. Scrivere bene è difficile, e anche produrre infografica di qualità lo è; ma così come per la stragrande maggioranza delle applicazioni quotidiane è sufficiente saper scrivere, bene o meno bene che sia, anche per la stragrande maggioranza delle applicazioni quotidiane di infografica dovrebbe essere sufficiente saper usare correttamente degli strumenti standard, di chiara comprensibilità.

Solo se questi strumenti standard esistono, ci si può riferire a loro con l’espressione “scrittura”, perché la scrittura è tale soltanto se si basa su una convenzione sufficientemente diffusa, e sulla quale si va a stagliare (magari per modificarla) qualsiasi novità si cerchi di introdurre.

Questi strumenti, nell’era informatica, esistono già in qualche misura. Il problema di chi li propone dovrebbe essere quello di pensarli all’origine come strumenti di qualità, efficienti e comprensibili, definendo anche una serie di varianti stilistiche comunicativamente equipotenti (proprio come i diversi font in cui è possibile scrivere i medesimi caratteri di scrittura).

Il grafico che inventa modalità nuove di comunicazione infografica per scopi informativi specifici è necessario e continuerà a esserlo – ma è ancora più importante che queste innovazioni si possano catacresizzare quando lo meritano e diventare a tutti gli effetti linguaggio, scrittura. Anche questo riconoscimento e diffusione di standard è un lavoro da grafico. Dalla sua qualità dipende l’universo visivo della scrittura di domani.

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Dello spazio bianco e del suo senso

Dino Battaglia, La caduta della casa degli Usher (da Poe), 1969

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Gli antichi, greci e romani, non conoscevano lo spazio bianco. Non conoscevano neanche la minuscola, né la punteggiatura. COSIITESTISCRITTIAPPARIVANOALOR OINQUESTOMODOELEGGERENONERAAFFATTOUNCOMPITOSEMPLICECOMESIPUOF ACILMENTECAPIREDAQUESTERIGHE. I romani, che avevano uno spirito più pratico dei greci, a volte (non sempre) inserivano un puntino per separare le parole. Ma si capisce bene perché la lettura interiore, senza la voce, fosse prerogativa di pochissimi intellettuali. Se provate a leggere ad alta voce, vi accorgerete che il testo continuo acquista più facilmente senso.

L’invenzione (medievale) dello spazio bianco rende distinguibili le parole al colpo d’occhio, e permette, col tempo, lo sviluppo della cosiddetta lectio spiritualis, ovvero la lettura interiore, fatta solo con gli occhi, quella che noi pratichiamo normalmente. Lo sviluppo della punteggiatura migliorerà ulteriormente questa situazione.

Senza lo spazio bianco il fumetto non potrebbe esistere. Lo spazio bianco è ciò che ci permette di distinguere non le singole parole del fumetto, ma quelle unità narrativo-ritmiche che sono le vignette. In effetti, non è necessario che di uno spazio bianco si tratti. Tutto sommato, anche il puntino separava abbastanza bene le parole, però lo spazio bianco si è imposto perché mediamente più efficiente. Nel fumetto, la situazione è analoga: al posto dello spazio bianco possiamo avere uno spazio di un altro colore, o una semplice linea, o un semplice palese cambio di sfondo (come in tante pagine del secondo Eisner). Però il fatto che nella maggior parte dei fumetti il separatore sia lo spazio bianco è un forte indizio della sua maggiore efficienza media (maggiore efficienza media non vuol dire che sia sempre meglio – c’è sempre qualche caso in cui può essere migliore una scelta diversa – ma vuol dire che è la scelta migliore nella maggior parte dei casi).

Lo spazio bianco funziona bene perché è un vuoto, un’assenza, uno iato, un non-essere; lo si guarda senza vederlo, senza che l’attenzione gli si rivolga mai. Ma se lo si elimina non c’è più il racconto, non c’è più la sequenza; oppure, nella migliore delle ipotesi c’è una sequenza continua e confusa da sbrogliare come succede nell’esempio verbale in tutto maiuscolo fatto sopra. Qualcosa, insomma, che richiede uno sforzo intellettuale notevole, e che deve garantire al lettore una soddisfazione fruitiva per lo meno equivalente (una ricetta insomma dal successo poco probabile).

Questa natura neutra dello spazio bianco lo rende un buon candidato per dei raffinati giochi di senso, in cui il bianco come confine tra le immagini si mescola e confonde con il bianco di sfondo, e le figure emergono al tempo stesso dal nulla del loro sfondo spaziale e dal nulla del tempo sospeso tra un evento e l’altro (tra una vignetta e l’altra, tra un battito e l’altro del racconto).

Anche Eisner ha fatto spesso uso di questa ambivalenza del bianco, ma il maestro di questi giochi è stato sicuramente Dino Battaglia, ai cui spazi bianchi ho dedicato, nella mia vita, diverse pagine in diverse occasioni, e che non finisco mai di apprezzare.

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Aggiungo qui due brevi segnalazioni, di tema differente.

La prima, se leggete il francese, è quella di questo bellissimo post su
Science-fiction et bande dessinée : années 1960, dedicato sostanzialmente a Jean-Claude Forest e ai suoi indimenticabili Barbarella e Les Naufragés du temps (con Paul Gillon). Il post compare sul blog Phylacterium, dove gli scritti interessanti e competenti sono tutt’altro che rari.

Forest è indubbiamente uno degli autori francesi di fumetti più importanti del Novecento, e uno che mi ha fatto molte volte sognare, anche proprio con quelle stesse serie di cui si parla qui.

La seconda segnalazione è che domani 1 luglio su questo blog non appariranno post, ovvero questo blog tacerà, in adesione alla manifestazione indetta dalla Federazione Nazionale della Stampa, contro la legge bavaglio.

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Della poesia e della voce

Voglio fare qualche riflessione sul rapporto tra scrittura e voce in poesia. L’occasione me la dà questo post di Rosaria Lo Russo su Absoluteville, e il dialogo che ne è scaturito. Il tema è se sia possibile un’autenticità del performer che legge poesia; e di conseguenza se ci siano sostanziali differenze tra l’attore che interpreta e il lettore-performer in senso stretto, sino al caso esemplare in cui il lettore-performer coincide con l’autore stesso. Qualche accenno su questo tema c’era già nel mio post del 22 febbraio (Della poesia e della sua materia (sonora e grafica)), ma credo di avere ora diverse altre cose da dire.

Intanto, sul caso estremo dell’autore che recita se stesso, ho ancora in mente l’effetto penoso che ho ricavato un paio di anni fa dalla voce viva di Milo De Angelis, poeta che, quando me lo leggo per conto mio, io amo molto – ma che non appare assolutamente capace di rendere se stesso vocalmente. Per fortuna, dopo di lui qualcun altro lesse per lui in quell’occasione, e l’effetto fu decisamente migliore. Il punto è che, paradossalmente, la voce di De Angelis tradiva il suo stesso testo. Lo tradiva, ovviamente, non per cattiva volontà, ma per semplice incapacità.

Com’è possibile, verrebbe da dire, che un poeta, che ha scritto i propri versi recitandoseli mentalmente, che ha la propria voce nella propria stessa parola poetica, arrivi a non saperla dire, rendendo persino banali o incomprensibili le proprie sequenze di parole? Stupisce meno, certo, che ci sia invece qualcun altro che è capace di leggere fedelmente quegli stessi versi, rendendocene un senso e un piacere. Eppure anche questo secondo (e assai migliore) lettore non mi stava rendendo pienamente la poesia di De Angelis. Non posso davvero dire che la tradisse: non c’era nessuna di quelle eccessive drammatizzazioni che la Lo Russo (giustamente) paventa, e l’autore era pure presente e approvante. Ma ovviamente la interpretava, perché non è possibile fare altrimenti, e la sua interpretazione non era la mia: era probabilmente interessante anche per questo.

Ma nel fluire e fuggire dell’oralità non c’è spazio per una pluralità delle interpretazioni, se non sulla base della memoria o del riascolto (non sempre possibile). Questo rende la poesia oralizzata inevitabilmente diversa da quella scritta, che invece rimane, si fa vedere, e resta stabile sotto gli occhi, prestandosi alla rilettura e al ripensamento.

Nell’idea che Rosaria Lo Russo esprime della possibilità di una lettura-performance autentica credo stia nascosta l’idea, inevitabile, che l’essenza della poesia stia nel testo scritto, e che la voce la debba in qualche modo tirar fuori. In fin dei conti, quello che ogni buon lettore di poesia interiormente fa è di dar vita a questa voce interiore che dice i versi. Questo ancora distingue, io credo, la lettura (intesa come lettura personale, interiore) della poesia da quella della prosa: leggiamo ormai la prosa solo con gli occhi, ed è ben raro che essa risuoni come voce interiore; se siamo davvero lettori di poesia, invece, siamo anche abituati alla presenza di questa voce. Il lettore-perfomer, dunque, non dovrebbe fare altro che trasformare questa voce virtuale in voce reale.

E qui incominciano i problemi. Il fatto è che questa voce virtuale è, appunto, virtuale; è cioè una voce a cui mancano una serie di attributi di quella reale, e che funziona anche grazie a questa mancanza. È una voce astratta, irreale, proiezione tanto di me quanto delle parole scritte sulla carta.

Dietro all’idea che la voce virtuale possa essere trasformata in voce reale dal lettore-performer si nasconde poi, credo, ancora un’altra idea: quella che la scrittura non sia che trascrizione della parola orale, un modo economico per memorizzare delle parole che vivono la loro vera vita solo quando sono pronunciate. In effetti, gli antichi la pensavano così, e ha continuato a essere così fino ai primi secoli dopo il Mille, quando ha finalmente iniziato a imporsi la lectio spiritualis, ovvero la lettura silenziosa che è quella che tutti noi attuiamo quotidianamente. Ma la separazione della scrittura dalla voce che è avvenuta in quel periodo non è stata senza conseguenze. La scrittura si è proprio per questo fatta più astratta e sempre più lontana dal sonoro e dalle declinazioni e modulazioni della voce.

È questa separazione infatti a permettere a Jacopo da Lentini e ai suoi colleghi siciliani di pensare la poesia separatamente dalla sua esecuzione vocale. Che Jacopo fosse “sociologicamente un burocrate”, come suggerisce Lello Voce, rappresenta solo l’occasione favorevole per un processo che era ormai comunque nell’aria – altrimenti sarebbe rimasto solo un fatto isolato, e non sarebbe diventato la norma della “poesia alta” italiana. Sappiamo bene come la metrica si sclerotizzi proprio in questo momento nel suo sistema di regole: un poeta-performer (come erano i trovatori) può sempre aggiustare a voce un verso leggermente eccedente; ma se la poesia è sostanzialmente scritta, e la voce che la declama è virtuale e generica, essa non può contemplare questa abilità.

Dove voglio arrivare? Credo, in sostanza, che l’unica poesia che possa essere resa da una voce in modo autentico sia quella poesia la cui scrittura è una semplice notazione mnemonica per un fatto sonoro-vocale; e in questo caso davvero il suo migliore performer sarà il suo autore. Ma questo autore è tale perché pensa se stesso e pensa le proprie parole già in funzione di quella performance. E in questo senso, questa poesia è profondamente teatro, il teatro inoltre, credo, più intenso e diretto che si possa immaginare.

Ma gran parte della poesia che si è prodotta in Italia da Jacopo da Lentini in poi è stata prodotta principalmente per essere letta con gli occhi, e recitata dal lettore con la sua voce interiore e virtuale, tramite aristocratico tra l’intellettuale scrittura e la popolana oralità. E pure Milo De Angelis agisce in questo medesimo ambito.

A questo punto, abbiamo tutti i diritti di rivendicare una poesia neo-orale: lo sviluppo della registrazione e diffusione del sonoro e dell’audiovisivo lo permette, evitando che rimanga un fenomeno di provincia o di campagna. Ma non possiamo dimenticare otto secoli di poesia che ha percorso una strada diversa, e che non può essere spacciata per una versione scritta dell’oralità.

Non possiamo insomma illuderci di trasmettere l’oralità attraverso la scrittura. La scrittura è ciò che la lingua diventa quando l’oralità (e la vocalità) si perde. Lingua scritta e lingua parlata sono di fatto due lingue differenti. Per certi scopi queste differenza sono poco rilevanti. Per altri scopi queste differenze sono enormi. Credo che la poesia appartenga a questo secondo dominio.

Quando si dà voce alla poesia scritta, insomma, si fa una traduzione. Tradurre è interpretare. Esagerando un po’, tradurre è tradire.

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di Daniele Barbieri

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