Di Peirce e Lacan, e del soggetto come costruzione

Ho partecipato, la scorsa settimana (2-4 ottobre) a un convegno su Charles Sanders Peirce, a Bologna, tenuto in occasione dei cento anni dalla morte. Peirce è stato un filosofo straordinario, non solo perché ha fondato la semiotica nei saggi intorno al 1868 (quando non aveva ancora trent’anni), e il pragmatismo (poi da lui ribattezzato pragmaticismo perché non gli piaceva la piega che aveva preso nella vulgata e in William James). Nei saggi di Peirce la semiotica nasce con una vena profondamente anticartesiana, in cui non solo perde ogni senso la distinzione tradizionale tra mente e natura (interno ed esterno della coscienza definita dal cogito), ma la mente stessa diventa un concetto naturale, costruita da un sistema di segni che è già nel mondo.

Recentemente ho letto molto Lacan, scoprendovi con sorpresa un sacco di nozioni familiari, anche se spesso chiamate con nomi non familiari. Andando a cercare, su questa base, tracce di Peirce in Lacan, con mia iniziale sorpresa ne ho trovate parecchie, di cui molte assolutamente esplicite, a partire dal Seminario del ’61-62. Facendo un po’ di conti, anche a partire dagli anni di pubblicazione dei Collected Papers, si può ipotizzare che Lacan abbia letto Peirce nei tardi anni Cinquanta, quando già diversi elementi essenziali della sua teoria erano assestati, ma altri ancora dovevano venire.

La teoria del soggetto diviso, dell’io (moi) come fenomeno di superficie, e dell’inconscio strutturato come linguaggio erano già state sviluppate prima dell’incontro con Peirce, ma nel momento in cui l’incontro avviene Lacan trova in Peirce tutte le premesse che gli mancavano, essendosi basato sino ad allora sulla semiologia saussuriana e sul suo sviluppo strutturalista. La famosa formulazione “Il significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante” è chiaramente un calco dalla definizione peirceana di segno, e rimane oscura sino a quando non si prova a costruirla graficamente in maniera analoga a come normalmente si costruisce la fuga degli interpretanti in Peirce.

Ecco qui a destra il diagramma per Peirce: Fuga degli interpretanti

Un representamen (cioè un segno) rimanda al suo oggetto solo attraverso la mediazione di un interpretante, il quale si trova a sua volta nella posizione del representamen iniziale e ha bisogno di un nuovo interpretante, per il quale vale la medesima necessità. Si genera in questo modo una fuga degli interpretanti, virtualmente infinita, ma che ha di fatto termine solo nella prassi (nel formarsi di un abito, ovvero di una disposizione al comportamento, dirà Peirce).

Ora, sostituiamo in questo diagramma i termini lacaniani a quelli peirceani, e scriviamo significante là dove c’è scritto representamen o interpretante, e scriviamo soggetto là dove c’è scritto oggetto. Così come in Peirce abbiamo l’immagine di un oggetto a cui di fatto la significazione non arriva, perché è sempre mediata dal passaggio a un altro interpretante, allo stesso modo avremmo in Lacan l’immagine di un soggetto a cui non si arriva (a cui l’analista non arriva) perché qualsiasi significante gli possa rimandare va comunque interpretato alla luce di un altro significante, e così via. Di fatto, il soggetto lacaniano è tutto costruito, per la sua determinante parte simbolica, da questa fuga dei significanti, e per Lacan il soggetto è l’inconscio, mentre l’autocoscienza è un ulteriore sovrastruttura, peraltro illusoria. Il reale lacaniano appare inoltre molto vicino al ground peirceano (per non dire di altro, su cui non scriverò qui).

Lacan è erede di una tradizione fenomenologica (quella husserliana-heideggeriana) diversa da quella peirceana, in cui il soggetto non si trova così dissolto. Lacan cresce tuttavia in una cornice anche hegeliana, in cui invece l’idea di un soggetto come epifenomeno è già presente. Anche Peirce ha un retaggio hegeliano, e sviluppa una propria fenomenologia (che lui chiamerà faneroscopia). Con presupposti simili, Lacan sviluppa quindi originalmente una serie di concetti che sono convergenti con quelli peirceani, sino a quando non incontra una fenomenologia diversa da quelle europee, in cui il soggetto è già implicitamente dissolto, e sono presenti da lungo tempo diverse delle sue scoperte (non tutte, certo).

Questo è parte di quello che ho raccontato al convegno di Bologna, con altre osservazioni sul Faust di Goethe (che su questo blog erano già comparse qui, e poi di nuovo qui, questa volta sviluppate in un discorso sulla poesia) e ancora altre su Gregory Bateson, che mostrano a loro volta come nemmeno l’idea peirceana che la semiosi sia già presente in natura sia una posizione metafisica, bensì a sua volta fenomenologica. Insomma, una fenomenologia senza soggetto, inquietante e affascinante.

 

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Della letteratura e del Reale

pLeggo un lungo intervento di Luca Somigli appena uscito su Nazione Indiana, in realtà la sua introduzione a un libro appena uscito, che raccoglie gli atti di un convegno. Il tema è il realismo, un po’ nei termini riportati in voga da Maurizio Ferraris, un po’ per quanto riguarda la letteratura. Non voglio entrare (per ora) nel merito del dibattito tra postmodernismo e nuovo realismo, che trovo un po’ strumentale e basato su un presupposto comune, da ambo le parti, che non riesco a condividere.

Piuttosto, mi interessa l’abbondante uscita che fa, nel saggio di Somigli, il termine lacaniano di Reale. Per come lo definisce Lacan, il Reale è cosa ben diversa dalla realtà. Per riprendere la definizione di Daniele Giglioli, citata da Somigli, il Reale “ha la natura dell’evento, non del senso, o meglio dell’evento senza senso, traumatico, in quanto non può essere elaborato, simbolizzato, reso nominabile”. Secondo la definizione del medesimo Lacan, “il reale è ciò che resiste al potere dell’interpretazione”. Si tratta quindi certamente del numinoso, dello spaventoso, del traumatico, del soverchiante; ma non soltanto di quello. Come ci ricorda Massimo Recalcati, sempre attraverso il saggio di Somigli, la nostra stessa vita quotidiana è intessuta di Reale: “L’apparizione di un nodulo che minaccia una malattia mortale, la perdita di un lavoro che mette improvvisamente a repentaglio la mia vita e quella della mia famiglia, la durezza insensata di una agonia, l’insistenza sorda di un comportamento sintomatico che danneggia la mia vita e che nessuna interpretazione e nessun farmaco riesce a far regredire, un innamoramento che travolge l’ordinarietà della mia esistenza, un’esperienza mistica, l’incontro con un’opera d’arte, un’invenzione scientifica, una conquista collettiva, la rivolta di una generazione che non accetta il decorso stabilito dalla crisi”.

E prosegue quindi lo stesso Somigli: “il Reale si manifesta nell’incontro del soggetto con un mondo materiale e sociale da esso incontrollabile (ivi compreso ciò che ribolle al di sotto della soglia della coscienza, e su cui il soggetto non ha alcun potere), ‘una esteriorità che non si lascia assimilare o governare in nessun  modo'”. La citazione nella citazione è di nuovo di Recalcati.

La letteratura, sembra cercare di dirci Somigli, dovrebbe cercare di rappresentare questo Reale, nei limiti del possibile: è l’incontro del soggetto con un mondo sociale e materiale incontrollabile, “piuttosto che una realtà esterna al soggetto ma perfettamente conoscibile e oggettivabile, che il realismo degli anni zero si propone di pensare attraverso lo strumento della scrittura”. E poi, poco sotto: “Scrivere di disoccupazione, crisi economica, immigrazione, corruzione, non significa, o almeno, non significa necessariamente, fare del contenutismo (e comunque non sarebbe male chiedersi perché sporcarsi le mani con il contenuto sia di per sé una cosa negativa), quanto piuttosto riconoscere nel trauma qualcosa che articola esperienza individuale ed esperienza collettiva.”

Benissimo. Non avrei problemi a intendere un realismo inteso in questo modo. Come dichiarazione d’intenti la potrei sottoscrivere appieno. Se non fosse per la clausola, appunto “nei limiti del possibile”. Poiché il Reale è esattamente ciò che resiste al potere dell’interpretazione, e la rappresentazione non è che un tipo particolare di interpretazione, allora il Reale è, per sua natura, irrappresentabile. Quello che si può rappresentare è, al massimo, il suo incontro con il soggetto, inevitabilmente traumatico.

Ma noi sappiamo che la letteratura fa di più, e che la letteratura sa essere a sua volta traumatica, nei casi migliori. In altre parole, in modi che è difficile dire, il Reale passa anche attraverso la letteratura. Ma se il Reale è irrappresentabile, come può passare attraverso una rappresentazione?

Ecco, questo mi sembra che sia il punto in cui si annodano i dibattiti tra postmodernismo e nuovo realismo: la letteratura come rappresentazione. Per il postmoderno sarà la rappresentazione di una rappresentazione, nella consapevolezza che non ha senso arrivare a rappresentare una realtà che si definisce solo nel rapporto con lei; per il realismo sarà rappresentazione della realtà, e nel caso ideale nei termini impostati da Somigli di rapporto con il Reale.

Tuttavia, se il Reale passa, e possiamo vivere il trauma attraverso un testo letterario, evidentemente il Reale non passa in quanto rappresentazione, e resta dell’ordine del vissuto, non del simbolizzato. Questo mi sembra il punto interessante, qualunque sia il modo in cui ci si arriva, realistico o postmoderno.

Proviamo a pensare alla letteratura come qualcosa che appartenga all’ordine del vissuto, piuttosto che a quello del rappresentato. Non tutto ciò che l’uomo produce è rappresentazione. Se faccio da mangiare per i miei amici, è comunque pasta e carne quello che loro mangeranno, anche se rivestita di elementi simbolici di ospitalità e buona cucina. Un racconto, una poesia, sono qualcosa che il lettore è chiamato a vivere, immedesimandosi nel loro flusso, e vivendo le emozioni che vengono messe in ballo.

Certo che in questo meccanismo la rappresentazione ha un ruolo, ma si tratta di un ruolo accessorio, funzionale. Sappiamo benissimo come una poesia che ci emoziona ci trasmetta la sensazione di portare in sé delle tracce di Reale esattamente come un evento materiale che ci emoziona; qualche volta persino di più. In altre parole, la capacità creativa dell’autore è quella di costruire attraverso la rappresentazione una struttura che viene vissuta quasi come se fosse materiale, un meccanismo che mette in evidenza – quando è riuscito – esattamente la cellula di Reale che porta con sé.

Ma questa cellula di Reale, pur restando tale e quale (inquietante, terribile, non accettabile), si trova ora inserita in un contesto gestito, umano, preparato proprio come la cena per i miei amici. Il potere della poesia, della narrativa, dell’arte in generale, non è quello di rappresentare il Reale o il rapporto con il Reale, bensì quello di metterlo in scena in un contesto che ci dà la sensazione di averlo fatto nostro, e quindi sostanzialmente di controllarlo almeno un poco. Le forme chiuse e perfette della tradizione volevano dare l’idea di un controllo più completo. Le forme aperte e contorte della modernità alludono alla problematicità di questo controllo. Ma l’idea del controllo è comunque presente. La letteratura, quando funziona, ci mette di fronte al Reale, permettendoci di accettarlo, non perché sia rappresentato ma perché si trova inquadrato in una struttura creata dall’uomo. Il Reale resta incomprensibile e traumatico, ma almeno è diventato nostro.

Se vediamo le cose in questi termini, il dibattito tra postmodernismo e realismo ci appare come un semplice conflitto tra correnti stilistiche, tra scuole accademiche. Si sta dibattendo se sia più efficace una modalità di rappresentazione piuttosto che un’altra, dimenticando che la rappresentazione non è il fulcro del discorso, ma solo una funzione. Non dovremmo piuttosto discutere di modalità stilistiche? Di come portare a galla in maniera dirompente la cellula di Reale? Non dovremmo piuttosto discutere, per riprendere l’esempio provocatorio di Cortellessa sempre citato da Somigli, di come giocare con la luce sulla scena, piuttosto che sul che cosa mettere in scena?

Che cos’è che porta a galla il Reale, che ce lo mette meglio di fronte?

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di Daniele Barbieri

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