Sul linguaggio della poesia, editoriale di Daniele Barbieri.
La poesia è fatta di parole, e poco altro comunque alle parole strettamente collegato: intonazioni se il linguaggio è orale, sonoro, disposizioni grafiche se scritto. Eppure la poesia costituisce la prova vivente che il modo in cui tipicamente concepiamo il linguaggio è ampiamente inadeguato.
Nella vulgata, la parola è uno strumento per trasmettere concetti, e in quanto tale il suo ruolo si esaurisce in questo, la sua funzione è tutta qui. Non esistono parole in natura, cioè senza che qualcuno le abbia prodotte, come strumenti per trasmettere un’idea. Esistono invece immagini, e quando il pittore produce artificialmente le proprie, anche se non abbiamo difficoltà a considerarle come discorso (e quindi a loro volta strumenti per trasmettere idee) accettiamo pure senza grandi difficoltà che esse non si risolvano in quel discorso, mantenendo anche quel valore visivo che possederebbero comunque al di fuori del loro uso strumentale. Che la bellezza di una Madonna di Raffaello debba essere intesa come un omaggio alla santità è in generale probabile, storicamente e criticamente accettabile, ma questo non impedisce allo spettatore di vedere una bella donna nell’immagine, che continuerebbe a essere vista anche se non riconoscessimo il soggetto dell’opera, e fossimo quindi nell’impossibilità di dar senso al discorso dell’autore.
Facciamo molta più fatica a considerare le cose in questo modo quando l’universo di riferimento è sonoro anziché visivo. Siamo abituati a organizzare l’universo visivo per cose, e le cose sono quanto di più facile concettualizzazione esiste, per noi; è molto più difficile riconoscere cose nel mondo del sonoro, e cogliere ritmi, andamenti, regolarità di processi è certamente per noi qualcosa di molto meno concettuale: quando va bene diciamo che li sentiamo, li percepiamo. Non a caso tuttavia i ritmi, gli andamenti, le regolarità di processi raramente possiedono un nome, qualcosa che li identifichi così nettamente come un gatto soriano, un prato, una gamba, Socrate. Quando lo possiedono, o siamo comunque nell’ambito di un lessico elevato, specialistico (come nel caso di endecasillabo), oppure c’è di mezzo un passaggio attraverso la dimensione visiva (come di nuovo nel caso di endecasillabo).
La stessa natura cosale delle parole (intese dunque come quelle cose che udiamo o leggiamo, o pronunciamo o scriviamo) è probabilmente legata alla loro distintività visiva quando sono scritte. Il discorso orale fluisce, senza definire confini…
Prosegue qui, su Versante ripido
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