Da “Scuola di fumetto” n.100, 2015: Lo spettacolo, il tragico e l’ironia nelle linee di Paolo Bacilieri

Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.

Paolo Bacilieri, Fun, pagina 70

Paolo Bacilieri, Fun, pagina 70

Paolo Bacilieri, Fun, pagina 71

Paolo Bacilieri, Fun, pagina 71

Guardiamo queste due pagine (70 e 71) di Fun, di Paolo Bacilieri (Coconino 2014). Soprattutto nella prima riconosciamo una tecnica molto usata in certi momenti da Frank Miller, quella della splash page che presenta la scena nel suo insieme, inquadrandola nel suo complesso spazialmente e temporalmente, su cui si appoggiano vignette piccole all’interno delle quali si sviluppa nel dettaglio la vicenda. Soprattutto nella seconda pagina riconosciamo invece una tecnica molto usata da Chris Ware, dove le piccole vignette si moltiplicano, con l’aggiunta di frecce e percorsi indicati o aree di fondo bianco lasciate intenzionalmente vuote.

Che cosa hanno in comune due autori così lontani tra loro come poetica, come Miller e Ware? Almeno due cose, direi. La prima è l’attenzione alla costruzione grafica della pagina in senso spettacolare – anche se la spettacolarità di Ware è antitetica come spirito a quella di Miller, essendo una spettacolarità dell’immobile e del raggelato, un esercizio raffinato di proporzioni in cui è sì necessario ricavarsi una dinamica della lettura (si tratta comunque di una storia a fumetti) ma tutto sembra remare contro; mentre in Miller la spettacolarità è momento culminante di un flusso che vuole essere travolgente proprio nel suo scorrere. La seconda è un forte senso della tragedia – di nuovo antiteticamente risolto: tragedia personale, interiore, inesprimibile se non indirettamente per Ware, conflitto di ideologie o di morali per Miller, mostrato come una guerra. Fatte salve le grandissime differenze tra le due impostazioni, sia Ware che Miller sembrano prendere molto sul serio la vita e il modo di raccontarla, premendo, ciascuno a modo suo, il pedale dell’acceleratore dei sentimenti, verso il freddo e il distacco, o verso il caldo e il coinvolgimento.

Ora, che cos’hanno in comune Ware e Miller con Paolo Bacilieri? Come si spiega l’innegabile convergenza grafica che si può notare in queste (e in molte altre) tavole? C’è spettacolarità grafica e c’è tragedia in Bacilieri? Be’, sì, ci sono – anche se non è proprio Fun il luogo della tragedia (Sweet Salgari sarebbe un altro paio di maniche); e tuttavia, se invece di tragedia parliamo di senso del tragico (definito da Thierry Groensteen qualche anno fa parlando di fumetti e in particolare proprio di Chris Ware) inteso come il senso della tragicità e ineluttabilità dei fatti della vita (come lotta inutile nei confronti del destino), ecco che lo troviamo anche nella seconda delle due nostre pagine, e non manca mai, in effetti, nei lavori di Bacilieri, anche quelli in apparenza più scanzonati.

Il fatto è che è pervasivo nel lavoro di Bacilieri, da quello che racconta al modo di raccontarlo sino al tratto del suo disegno, un senso dell’ironia, o forse dell’autosarcasmo, o forse di un distacco un poco sardonico, come un lieve darsi continuamente dello sfigato che, poiché poi né l’autore né il protagonista sono davvero tali, ci qualifica un po’ tutti come tali. Insomma, mentre in Miller c’è l’eroismo del fare, dell’azione, del risolvere, e in Ware c’è l’eroismo del resistere, del perdurare, dell’affrontare la vita di tutti i giorni, quello che viene ribadito qui è proprio un generale antieroismo, dove persino il tragico e la spettacolarità finiscono per essere oggetto di uno sguardo disilluso e un po’ distaccato. Guardate, nella seconda pagina, il modo in cui viene descritta la morte sul lavoro di Zattera: nelle immagini e persino nel lettering dei balloon tutto è quotidiano e ironico, come se si raccontasse un episodio buffo (guardate quei piedi che escono da sotto le lastre di marmo, che sembrano presi da una vignetta di Crumb, per esempio); però al tempo stesso la narrazione è secca e fredda, e dice i fatti nella loro agghiacciante semplicità, preparando il vuoto della seconda parte della terza striscia, e la ripetizione ossessiva del dramma dello zio Italo nelle vignette successive.

Persino le forme preferite da Bacilieri sembrano andare nella medesima direzione. Guardate (qui e altrove) come le forme rotondeggianti o quelle quadrateggianti tendano continuamente alla forma intermedia del rettangolo con gli angoli smussati. È così sempre per i balloon e le didascalie, è così per il lettering (componente importantissima del lavoro di Bacilieri), ed è spesso così anche per le teste, e talvolta persino per le vignette (non qui). Si tratta però di rettangoli irregolari, disegnati a mano con la voluta incertezza della mano libera – nella somiglianza e nell’opposizione con un procedimento non così dissimile seguito da Chris Ware, che però sfrutta geometrie pure e perfette. Magari è proprio in questa contrapposizione tra quelle geometrie, dove il tragico è freddo e distaccato, quasi una condizione esistenziale assoluta, e queste ricercate imprecisioni che si coglie l’antieroismo di Bacilieri, per cui il tragico c’è, certo che c’è, ma non c’è niente di assoluto in ciò, e la banalità della vita quotidiana (che comprende anche la nostra capacità di non prenderci troppo sul serio) è quello che conta davvero.

È questo che dà calore alle sequenze di Bacilieri, contrapponendolo definitivamente al gelo esistenziale di quelle di Ware: è come se Ware disegnasse storie come potrebbero essere viste dall’occhio di Dio, oggettivo e distaccato, mentre Bacilieri le disegna come potrebbero essere viste dal mio occhio, o dal suo, o da quello di uno qualsiasi di tutti gli sfigati di questo mondo (dei quali persino il nome del suo personaggio Zeno Porno è una fantastica, ironica ed efficacissima metafora).

Smontato così il tragico (senza però disfarsene), cosa ne è dello spettacolo? Be’, qui la soluzione è facile: mostrare in maniera spettacolare il quotidiano, nella sua palese antispettacolarità, è un classico della parodia, uno straniamento che ci costringe a guardarlo con occhi diversi, ben attenti a quello che si presenta di ridicolo. Siamo quindi ancora in linea con quello che abbiamo già osservato. Solo che pure in questo caso, proprio come con il senso del tragico, la spettacolarità non si dilegua affatto, rimane (e sappiamo bene come ci siano tavole, anche in questo stesso Fun, fortemente giocate sullo spettacolo grafico – per esempio tutta la sequenza iniziale su New York), anche se in forma un po’ dimessa (il bianco e nero, la bicromia, la normalità dei soggetti che riempiono i quadri…), continuando a suggerirci che è possibile uno sguardo non banale anche sul banale, e che da una vita da sfigato è possibile uscire, pure senza essere l’occhio di Dio, ma con un semplice occhio un poco distaccato, e magari pure un po’ affettuoso.

È il bianco di fondo così dominante, con questi canali bianchi così grossi tra le vignette, a fomentare il confronto con Chris Ware nella seconda pagina. Ma il gioco di irregolarità, pervasivo nei dettagli e diffuso nella struttura, rende la pagina di Bacilieri tanto affettuosa e partecipe quanto quelle di Ware sono fredde e distaccate. Persino questa piccola polifonia di balloon e didascalie diverse, creando quasi un effetto di confusione, alimenta la percezione di un calore affettivo diffuso, come se alla pianificazione grafica indubitalmente presente si sovrapponesse poi una spinta istintuale, un non poter fare a meno di aggiungere dettagli, piccole curve storte, piccole modulazioni dal tondo al grassetto (e ritorno) nel lettering.

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Di alcuni omaggi all’Isola dei Morti

Arnold Boecklin, Isola dei morti, terza versione, 1883

Arnold Boecklin, Isola dei morti, terza versione, 1883

Non ricordo più chi sia stato a segnalarmelo. Fatto sta che mi sono trovato nelle note del cellulare un riferimento alla Galleria Ielasi di Ischia, e non ricordavo perché me lo fossi segnato. Sono andato perciò a vedere sul Web, e ho trovato questa pagina di Facebook, dove, scendendo un po’, ho capito il motivo per cui mi ero segnato questo nome.

Non per la mostra su Francesca Ghermandi del luglio scorso (che sarebbe stato comunque già un buon motivo), ma per l’Omaggio a Böcklin esposto in autunno, con opere di numerosi autori, tra cui diversi fumettisti. Riporto qui quelle che ho trovato in giro sul Web, ricollegandomi a un discorso su Böcklin e sugli omaggi al suo più famoso dipinto che avevo già avviato in un post di questo inverno, al quale rimando. Qualcos’altro, di quella mostra, oltre a ciò che sto mostrando qui, si può intuire dalle foto nella pagina di Facebook.

Qui sotto c’è un Bacilieri tristemente dissacrante:

Paolo Bacilieri, Omaggio a Boecklin

Paolo Bacilieri, Omaggio a Boecklin

Segue un Tota popolar-onirico, che trovo, nella sua ironia, molto centrato:

Alessandro Tota, Omaggio a Boecklin

Alessandro Tota, Omaggio a Boecklin

Piero Macola ritrae non l’isola dei morti ma l’isola del Castello Aragonese, proprio vicino alla Galleria Ielasi, a cui pare che lo stesso Böcklin si fosse ispirato:

Piero Macola Boecklin Ischia

Piero Macola Boecklin Ischia

Poi c’è questa tavola di Manuele Fior che sembra ritornare all’origine di tutto (o almeno così si capisce dalla sua spiegazione):

Manuele Fior, Der Maler

Manuele Fior, Der Maler

Trovo inquietante anche questa versione subacquea di Luigi Critone:

Luigi Critone, "Omaggio a Boecklin"

Per concludere, ci metto un’altra immagine, che non c’entra con la mostra, ma è sempre un omaggio a Böcklin, di qualche anno prima, che salda l’immaginario del pittore simbolista con quello dell’Alex Raymond di Flash Gordon (ricollegandoci quindi in chiusura a quello che raccontavo nel mio post precedente):

Philippe Druillet, da "Gail", 1978

Philippe Druillet, da “Gail”, 1978

Da un punto di vista strettamente grafico, forse Druillet non è il più capace dei disegnatori qui riportati, ma è sicuramente quello i cui deliri inquietano di più – ed è perciò, almeno in questo, il più vicino a Böcklin.

 

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Di Paolo Bacilieri ed Emilio Salgari, attraverso lo specchio

Paolo Bacilieri, "Sweet Salgari" pagg. 5, 8-9, 11

Paolo Bacilieri, "Sweet Salgari" pagg. 5, 8-9, 11

C’è qualcosa che non mi convince sino in fondo in questo Sweet Salgari di Paolo Bacilieri. Voglio dire, che non mi convince sino in fondo per essere di Bacilieri. Cioè, dato chi è Bacilieri, e cosa ha fatto nella sua carriera, forse le mie aspettative nel leggerlo erano troppo elevate – o forse semplicemente mi sto sbagliando: con Bacilieri, del resto, mi è già capitato, in passato. La sua combinazione di sarcasmo e di tragedia è sempre particolare, ed è facile che possa apparire irritante, o persino superficiale (non qui, di sicuro); in ogni caso, bisogna entrarci in sintonia. Magari devo solo aspettare un po’ di tempo, e Sweet Salgari mi apparirà un capolavoro.

Per ora no (o non ancora). Ma questo non mi impedisce di apprezzare, qua e là, alcune scene magistrali, come quella con cui il volume si apre, sulle parole dello stesso Salgari, prese (direi, a memoria) dall’attacco de I misteri della jungla nera. Salgari ci descrive il Gange, mentre Bacilieri ci mostra il Po, a Torino. Alla visione fantastica dello scrittore viene fatta corrispondere la realtà della sua vita quotidiana.

Ma la corrispondenza non finisce qui. Il Po della prima vignetta, benché addomesticato e cittadino, è vasto e oscuro; e la cupola della Mole Antonelliana che vi si riflette ha davvero qualcosa di indiano. Poi, però, mentre la descrizione prosegue, ci appaiono le vie eleganti e monumentali di Torino, con i lampioni, e la Mole stessa sopra i tetti e i camini fumanti. Sembra che racconto visivo e racconto verbale stiano seguendo ormai due percorsi differenti; ma nel momento in cui Salgari descrive il suddividersi del fiume, ecco che pure le vignette si suddividono in una serie di volti, e poi ancora paesaggi del Po cittadino, e poi ancora volti. Si finisce la scena – mentre Salgari dice “nulla di più desolante, di più strano e di più spaventevole che la vista di qureste sunderbunds” – con una magnifica veduta a volo di uccello di un angolo popolare di Torino, povero ma non miserrimo.

Il procedimento di contrasto tra le parole e le immagini non è nuovo, ma Bacilieri lo conduce con particolare arguzia e delicatezza, introducendo al tempo stesso l’autore e la realtà in cui vive, ma anche la scollatura profonda tra loro, l’inadeguatezza dello scrittore alle banalità (e alle durezze) del quotidiano, che lo stanno portando, proprio ora, di qui a pochissimo, al suicidio. E pure il suicidio, nell’ambientazione familiare e tranquilla di un bosco, viene poi consumato con modalità esotiche, o decisamente fantasiose e bizzarre.

Ecco: qui, a questo punto, mi ritrovo a non capire davvero se apprezzare o meno l’insistenza di Bacilieri sui dettagli, decisamente macabri, dell’operazione. Sì, certo: quello che traspare continuamente è un’affettuosa ironia del fumettista verso lo scrittore, o, se vogliamo, un ironico affetto. Salgari appare buffo, ma tragicamente buffo, o buffamente tragico. Non sembra davvero che si stia dando la morte – e in che modo! Vicinanza (affettuosa) e distacco (ironico) nei confronti del protagonista sono costantemente giocati da Bacilieri per tutto il volume. Come lettori, non sappiamo se provare pietà e orrore, oppure ridere di quel buffo ometto. Finiamo per fare tutte due le cose, e così magari finiamo per farci noi un po’ orrore a noi stessi, per aver sorriso di una cosa così atroce.

Nel costruire questo effetto complesso, Baccilieri è bravissimo. Questo non lo si può negare. Ma io, lettore, rimango turbato. Su cos’è che si ironizza, qui? Non è il povero Salgari, in fin dei conti; non in maniera decisiva, almeno. È come se Bacilieri volesse buttare in vacca l’orrore stesso. Da un punto di vista retorico, ha ragione: in questo modo riesce a trasmettercelo con una forza ancora maggiore. Eppure potrebbe ottenere lo stesso straniamento in altri modi.

Quello che si intuisce qui, in Bacilieri, è semmai un pessimismo radicale, quella sorta di ridere della morte perché non riusciamo a distoglierci dalla sua immagine, quel fare ironia sul dolore perché il dolore è dentro di noi, o perché la morte il dolore e l’ironia stanno tutto sommato dalla stessa parte rispetto allo squallore della monotonia, o all’incubo del vivere delle proprie fantasie, senza più proficui contatti col mondo, dal quale si continua a fuggire. Insomma, sembra quasi che Paolo Bacilieri si sia riconosciuto, attraverso lo specchio, in Emilio Salgari, che si sia un po’ identificato in lui, e che, proprio per questo, e nonostante l’affetto nei suoi confronti che viene costantemente espresso, abbia dovuto metterlo in ridicolo perché in questo poteva mettere in ridicolo, specularmente, se stesso (non potendo mettersi in scena di persona, questa volta, in qualità di  Zeno Porno o di chi per lui).

Sarà questo che mi disturba e mi impedisce di apprezzare sino in fondo Sweet Salgari? Nel complesso, non credo, anche se la vena autodistruttiva di Bacilieri è sempre un poco ostica da digerire. Magari è piuttosto qualche rigidezza, qua e là nella costruzione: forse sono tutti questi salti temporali, per quanto narrativamente ben gestiti e comprensibili, che accostano presenti diversi della vita di Salgari, attraverso il ricordo. O magari è questa tristezza insormontabile, questa melanconia, questa vena di follia (che nella moglie dello scrittore è arrivata a esplodere, sino al manicomio). O è forse perché Bacilieri è troppo sincero, troppo vivo in quello che scrive e disegna, troppo vero.

Che sia un libro da leggere, non ci sono dubbi. Chi ne avrà voglia mi dirà che effetto ha prodotto su di lui (o su di lei). Qualunque sarà il giudizio, non si potrà davvero dire che Bacilieri manchi di originalità: questa rimarrebbe in ogni caso una certezza.

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Del lettering nel fumetto

Dino Battaglia, Maupassant, Due amici, p.4

Dino Battaglia, Maupassant, Due amici, p.4

Questa settimana parlo solo di caratteri, e il tema è di grande importanza anche per il fumetto. La leggibilità di un carattere è un requisito necessario, ma quando il carattere è usato per testi brevi una parte della sua leggibilità può essere anche sacrificata alla sua (chiamiamola così) espressività visiva (o espressività grafica): se per il corpo del testo di un romanzo o di un saggio la scelta del carattere va fatta tra quelli che garantiscono la massima leggibilità (poiché mentre si legge il carattere deve diventare trasparente, garantendo la totale attenzione al flusso delle parole), viceversa in un titolo o in una insegna o in una comunicazione pubblicitaria, la componente espressiva visiva del carattere può manifestarsi di più, sino a diventare predominante.

Poiché il fumetto comunica visivamente ancora prima che narrativamente (cioè per leggere il racconto è necessario aver guardato le immagini), la componente espressiva visiva dei caratteri ha comunque una grande importanza. Ce l’ha anche quando siamo vicini al livello qualitativamente più basso: persino il lettering più neutro e banale, per esempio, si fa per convenzione in maiuscolo – e il maiuscolo è notoriamente meno leggibile del minuscolo. Anche il lettering più neutro e banale, dunque, manifesta una qual continuità stilistica visiva con le linee del disegno circostante. Come minimo, insomma, queste lettere disegnate a mano (almeno in apparenza, spesso) manifestano la propria appartenenza al medesimo mondo grafico delle figure rappresentate vicino a loro.

Guarda caso, il passaggio dalla narrazione per immagini ottocentesca al fumetto vero e proprio negli USA di fine secolo è caratterizzato anche dalla nascita di un lettering disegnato – ben diverso da quello a stampa delle didascalie. Il carattere a stampa, evidentemente, dichiara pure in maniera grafica la propria appartenenza a un mondo diverso da quello delle figure disegnate: è un commento esterno, a cui corrisponde una finestra visiva. Nel fumetto, viceversa, noi siamo già, leggendo, nel mondo dietro a quella finestra, e il lettering manuale ci mostra di far parte pure lui di quel medesimo mondo.

Dino Battaglia script

Dino Battaglia script

Se passiamo dall’uso elementare del lettering a usi più raffinati, ci possiamo accorgere di quanto grande possa essere il contributo della forma delle lettere all’effetto visivo complessivo. Immaginate di sostituire questo lettering molto particolare di Dino Battaglia con uno più standard, anche se sempre disegnato. Se lo facessimo, ci accorgeremmo immediatamente di come ne risulterebbe stravolto l’equilibrio compositivo della pagina (qui riprodotta all’inizio del post).

Le lettere di Battaglia hanno lo stesso stile “graffiato” delle sue figure, ottenuto attraverso l’uso di un pennino sottile a punta dura. Un lettering più morbido metterebbe i testi scritti (balloon e didascalie) nettamente in evidenza sul resto della pagina, a causa della loro diversità. Anche se risulterebbe magari più leggibile finirebbe per essere messo troppo in evidenza.

Anzi, si ritroverebbe a essere in evidenza due volte: una, come già detto, per la sua diversità dal grosso dell’immagine; l’altra perché la sua maggiore leggibilità inviterebbe il lettore a privilegiare il testo rispetto alle figure, ma non è questo che l’autore vuole. A queste figure bellissime ma di decifrabilità non immediata deve corrispondere per forza un font che richiede qualche (piccolo) sforzo di lettura: comunque questa è una storia a fumetti, cioè una storia in cui è l’immagine a dover avere un peso determinante.

Andrea Pazienza, The Legend of Italianino Liberatore 2, p.8

Andrea Pazienza, The Legend of Italianino Liberatore 2, p.8

I medesimi principi di fondo sortiscono un effetto tutto diverso nel lavoro di Andrea Pazienza, che disegna con la punta morbida di un pennello o pennarello, giocando su bruschi cambiamenti di tonalità, e masse di bianco e di nero. Il lettering di Pazienza è una componente essenziale del suo disegno, praticamente inseparabile, composto di linee che sono esattamente le medesime linee, con i medesimi andamenti grafici, delle linee delle figure, e persino delle linee di contorno dei balloon.

La leggibilità è forse ancora più bassa che nel caso di Battaglia, ma l’espressività è straordinaria, ed è questa riduzione della dimensione verbale alla dimensione visiva del disegno a dare al lavoro di Pazienza una coerenza e un’efficiacia ineguagliabili. Sostituite questo lettering con uno più standard e non avrete ridotto, ma distrutto il lavoro di Pazienza.

Andrea Pazienza script

Andrea Pazienza script

D’altra parte, lui stesso è acutamente consapevole della necessità di alternare momenti in cui il lettering è sostanzialmente regolare a momenti in cui esso esplode graficamente. Tuttavia, anche dove il lettering di Pazienza è regolare esso esprime una notevole attenzione espressiva: la sua fattura manuale è sempre ostentata; sembra cioè che sempre esca direttamente dall’animo ironico del suo autore. Ed è per questo che la sua enfatizzazione, quando avviene, appare così naturale.

Leggendo Pazienza, paradossalmente, è come se seguissimo la voce di un narratore, che esprime le emozioni con i toni mentre racconta i fatti con le parole. Solo che la voce di Pazienza è il segno grafico, e questo segno si manifesta esattamente al medesimo modo nelle figure e nel lettering, tramite le quali, al contempo, ci mostra i fatti. Dunque, non c’è scampo: per leggere le storie di Pazienza le dobbiamo soltanto attentamente guardare.

Paolo Bacilieri, La magnifica desolazione 2007 p.59

Paolo Bacilieri, La magnifica desolazione 2007 p.59

Paolo Bacilieri ha senz’altro imparato molto da Pazienza, penso di più e meglio di chiunque altro. Il suo lettering esprime finemente il sarcasmo che pervade, narrativamente e graficamente, le sue storie, ed è graficamente coerente con quello che gli sta vicino. Osservate questo “bold” di forme quadrateggianti, e confrontatelo con le linee spesse del contorno delle figure e con la continua presenza di forme simili a rettangoli dagli angoli bombati – non solo nei balloon ma anche nei profili dei personaggi e dei loro dettagli.

Paolo Bacilieri script

Paolo Bacilieri script

Magari Bacilieri non ha il virtuosismo grafico di Pazienza (e chi ce l’ha?), ma è bravissimo nel costruire la (sardonicamente desolante) coerenza del proprio mondo. Il lettering ne è – se vogliamo dire così – il basso ostinato, lo swing, il groove.

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Del freddo e del caldo, o di Chris Ware e Paolo Bacilieri

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 1 e 2

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 1 e 2

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 3 e 4

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 3 e 4

Tempi di Chris Ware. Tra poco, a Roma, anche giorni di Chris Ware. Sottile, acuto, innovatore, tragico (secondo l’analisi che ne fece Thierry Groensteen a Bologna nel 2004, interrogandosi proprio sul valore del tragico nel fumetto).

Non so quanto ci sia da dar credito alle sue stesse parole, secondo le quali lui non avrebbe tratto nessuna particolare ispirazione dai fumetti pubblicati dopo gli anni Trenta. Certo l’ombra di McCay è quella che aleggia più vivamente sui suoi lavori, anche se altrettanto vivamente mediata da quella di Frank King. Ma credo che, con un pizzico di snobismo, Ware si voglia soprattutto mantenere distaccato dagli universi avventurosi e superomistici che hanno imperversato negli USA dopo gli anni Trenta. Difficilmente si sarebbe verificata altrimenti la convergenza con quella costola particolare dell’underground che è stata la rivista di Art Spiegelman, Raw.

E d’altra parte l’underground stesso in generale, a partire da Crumb, si rifà a quei medesimi anni, e il mondo specifico di Raw non fa eccezione. Un mondo in cui i primi interventi di Ware si inseriscono in piena armonia.

Forse, è proprio questo pizzico di snobismo a impedire a Ware di essere ancora più bravo di quello che è. Mettiamo subito in chiaro che Ware è un narratore di grande qualità, che racconta storie originali dove dimostra un’estrema sensibilità, e che ha un modo ugualmente originale di affrontare la dimensione visiva – anzi, nello specifico, grafica (e una volta tanto l’italiano grafico traduce davvero l’inglese graphic, nonostante le differenze di senso non così trascurabili tra i due). Insomma: è fuori discussione che il suo posto di rilievo nella storia del fumetto Chris Ware ce lo debba avere.

Detto questo, va detto anche il resto.

Chris Ware è un autore gelido. Certo, so benissimo che questa sensazione di controllo intellettuale, enfatizzato dalla parcellizzazione del discorso in percorsi visivi inconsueti che l’occhio è obbligato a seguire, esasperato dalla riduzione di tutte le forme a semplicità geometriche, perentoriamente sancito dalla ripetizione ossessiva di forme che già richiamano a loro volta altre forme circostanti… so benissimo che tutto questo è un espediente narrativo, e che la gabbia dell’ossessività testuale rende magnificamente le ossessioni delle vite raccontate. Di questa poetica (tragica) del controllo Ware è davvero il maestro, e ha davvero inventato nuovi modi per esprimere il senso di una vita tenuta in ostaggio dai vincoli sociali

Però, mamma mia! che freddo! E come sono piccoli quei disegni in cui devo infilarmi anima e corpo, per sentire quella medesima oppressione che vivono i suoi personaggi, per sentirmi io stesso melanconico, ossessivo, devastato. E pure l’ironia, che certo a Ware non manca, è ugualmente nera, priva di speranza, gelata, glaciale.

Solo in apparenza i procedimenti di Paolo Bacilieri (che è pure figlio di quel medesimo underground, se pur di qua dall’oceano, e mediato da Pazienza) assomigliano a quelli di Chris Ware. In Bacilieri, potremmo dire, anche se il mondo è ugualmente brutto e tragico, è proprio l’ironia che ci salva, che ci scalda, che ci produce la risata o il sorriso.

Anche Bacilieri è (per dirla con Spiegelman) un damned intellectual, e probabilmente non meno di Ware. Però non mi viene mai freddo, a leggere i suoi fumetti arzigogolati.

Paolo Bacilieri - La magnifica desolazione, 2007

Paolo Bacilieri - La magnifica desolazione, 2007

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di Daniele Barbieri

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