Personalmente credo che a Filippo Scozzari dovrebbe essere data una licenza, come a James Bond, di uccidere, anche se solo verbalmente. E questo non perché io condivida quello che mi pare di aver ricostruito che lui abbia detto (arrivo a cose fatte, e ringrazio Giorgio Franzaroli per aver scritto il post su Facebook che mi ha avvertito di tutta la faccenda, che poi ho finito di ricostruire attraverso le sue tracce sui media). Radicalmente non condivido né il giudizio che Scozzari esprime su Fumettibrutti, che è autrice che io invece trovo particolarmente originale, né i toni con cui lo esprime. D’altra parte, dissento radicalmente pure da chi scrive che Scozzari sarebbe passato dall’essere un giovane reazionario ai deliri senescenti di un sopravvissuto a se stesso, concludendo: “Se un individuo, godendo della propria visibilità, sbandiera idee discriminatorie verso un altro che non tollera, deve essere indicato come latore di un pensiero aberrante.”
Del resto, è vero: Scozzari è sempre stato latore di un pensiero aberrante. Solo che negli anni Settanta e Ottanta quel pensiero era anche il nostro, ovvero di noi che ci fregiavamo di essere la parte più intelligente e progressista della società. Scozzari attaccava quelli che avrei attaccato anch’io, solo che lui lo faceva meglio, molto meglio. E magari per questo gli si perdonava di attaccare un po’ anche se stesso e anche noi. Se leggete quel libro esemplare che è Prima pagare poi ricordare, dall’ecatombe di critiche non si salva nessuno, autore compreso, salvo – almeno in parte – Andrea Pazienza.
In quella fase confusa ed eccitante essere aberranti pagava, perché un po’ aberranti ci sentivamo tutti. Ora che l’eccessività di Scozzari si rivolge contro di noi, e attacca dei valori di cui ci sentiamo sicuri, ecco che il suo essere aberrante fa sì che: “Non ci sono difese, non hanno senso i distinguo, non serve rifugiarsi nella memoria. Lo si condanna.”
Si noti: non “lo si critica”, non “gli si mostra che ha torto”, bensì “lo si condanna”, da quel vecchio rincoglionito reazionario che è.
Ora, nello specifico Scozzari ha torto, e si esprime male. Ha sempre amato la provocazione, e il suo turpiloquio è sempre servito esattamente a questo: a provocare. A quanto pare, nella provocazione sono caduti in molti. Per quanto stupida sia una trappola, trova sempre la preda più stupida che ci finisce dentro. Scozzari lo ha sempre saputo benissimo.
Nello specifico ha comunque torto. Ma in una dimensione più ampia, ci sono mille ragioni per difendere Scozzari, per le stesse ragioni per cui dovremmo difendere la satira di Charlie Hebdo, per quanto ripugnante qualche volta ci appaia, e per le medesime ragioni per cui dovremmo difendere persino la satira di destra, quella becera, oscena, più o meno apertamente fascista (e né Scozzari né CharlieHebdo lo sono affatto). Il pensiero aberrante di Scozzari, nella sua voluta grezzezza, nella sua violenza politicamente scorrettissima, ci dice una cosa fondamentale, che è: persino le tue convinzioni più sentite e profonde non sono veramente garantite. Non devi cessare mai di metterle in discussione, per quanto ti appaiano sacrosante e inconfutabili, per quanto ti appaiano la quintessenza dell’essere progressista, comprensivo, democratico e antifascista.
Sgarbatamente, Scozzari ci ricorda la necessità del dubbio. E questo fa incazzare tutti coloro, anche di sinistra, che di dubitare non hanno voglia; che sono convinti che i propri valori sono sacrosanti. Che sono pronti a linciare (magari verbalmente) chi si oppone a loro, o anche solo chi osa metterli in discussione.
Si dirà che, così facendo, Scozzari porta acqua al mulino dei reazionari, e magari è pure un po’ vero. Ma la differenza tra il totalitarismo e la democrazia è la stessa che c’è tra la certezza assoluta e il dubbio. Né Hitler né Stalin avevano dubbi. Nello specifico, può darsi che il comportamento di Scozzari porti acqua al mulino dei loro penosi emuli. Ma in una dimensione più ampia, Scozzari va difeso a oltranza, lui e la possibilità di un pensiero aberrante.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di tempo, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Nicola Pesce, Scuola di fumetto.
Se ne avete la possibilità, se lo avete sufficientemente a portata di mano, vi propongo pure stavolta di andarvi a rileggere quello che scrivevo a proposito del Flash Gordon di Alex Raymond sul numero 109 di SdF (gennaio 2018). In soldoni, e tralasciando l’argomentazione per sostenerlo e l’illustrazione per documentarlo, potrei ricordare che il fascino di quella saga portata avanti da Raymond dal ’34 per dieci anni (benché gli ultimi con molto meno impegno) non stesse tanto nella qualità della vicenda raccontata, sempre piuttosto prevedibile. Quella struttura narrativa nel complesso così banale serviva sostanzialmente da collante, da base, da sfondo tematico per permettere alle immagini di colpire nel segno, e di costruire l’effetto mitico. Certo la continuità narrativa serviva, perché creava il quadro, ma non erano le sue tensioni a condurre il gioco: leggere Flash Gordon era piuttosto sfruttare la possibilità, settimana dopo settimana, di una breve immersione nel fondo del mito. Ed era la straordinaria capacità grafica di Raymond a permettere questo: attraverso il suo segno, i gesti, le espressioni dei suoi personaggi, attraverso gli sfondi e persino le ombreggiature espressive passavano al lettore una quantità straordinaria di reminiscenze, di riferimenti, di passioni custodite nel nostro imaginario visivo.
Nel lavoro compiuto da Philippe Druillet a partire dai tardi anni Sessanta, poi confluito nella fondazione del gruppo degli Humanoïdes Associés e della rivista Métal Hurlant, ritroviamo le stesse caratteristiche, ma con una consapevolezza e una progettualità ben diverse. Del resto Druillet è un intellettuale francese in piena rivoluzione culturale (non quella cinese, peraltro coeva; ma quella della Francia di quegli anni), e non un americano dalla mano e dalle intuizioni straordinarie, però non particolarmente ferrato quanto a cultura. Di lì a poco, in una nota intervista, il suo compagno di viaggio Moebius avrebbe dichiarato che una storia non deve essere fatta per forza come una casa, con la porta per entrare, le finestre e il tetto, ma che potrebbe ben prendere la forma di una giraffa, della fiamma di un cerino, o di una nuvola (cito a memoria, ma il senso delle parole era più o meno questo).
Insomma, le storie potevano benissimo non avere una struttura; in altre parole, potevano benissimo non essere storie, mantenendone solo l’apparenza, magari sfruttando la sequenzialità che il fumetto comunque non può non avere. Moebius non si limitava a teorizzare: in quegli anni sono parecchi i suoi lavori, brevi e lunghi, che mettono in pratica queste idee, da Arzach a Il garage ermetico. Philippe Druillet, già da tempo, era comunque stato ben più estremo di lui.
Se in Flash Gordon la storia diventava sfondo a ragione della sua scarsa significatività, del suo scarso interesse rispetto a quello che, su quello sfondo, i disegni trasmettevano, in Yragaël (1972-74, con Michel Demuth) la storia si nega in un certo senso da sola, tanto appare assurda, senza capo né coda, talvolta incomprensibile, comunque incoerente. E davvero non importa poi tanto, a noi lettori, perché la sua funzione è semplicemente quella di creare un’atmosfera irreale e misticheggiante, grandiosa e derisoria, sino alla disperazione di un sacro senza Dio, ma non per questo meno avvolgente; e su questo sfondo sono le immagini di Druillet a condurre davvero il gioco, a gridare enormità e sarcasmo, epopea e vanità.
Sono spesso tavole unitarie, che illustrano una sola azione, accompagnate da parole di cui si potrebbe forse pure fare a meno, se non fosse che anche loro, per il lettering, le forme del cartiglio e il tono di voce che evocano, contribuiscono all’effetto. Talvolta, come nel nostro esempio, c’è invece un poco di sviluppo, una divisione in vignette che suggerisce una successione.
Osservate ora questa tavola. Prima ancora di poter capire che c’è una ripartizione in vignette, l’occhio del lettore è catturato dalla struttura grafica complessiva con il rosone in alto, come fosse la facciata di una chiesa gotica. Se magari sospettate che Druillet possa essersi ispirato alle tavole di Little Nemo del 26 novembre e del 3 dicembre 1905, che hanno una struttura imparentata con questa, forse non avete tutti i torti, perché la prima edizione completa della grande serie di Winsor McCay era uscita da poco, e non negli Stati Uniti, bensì in coedizione franco-italiana. Tuttavia, questo non vi porterà molto in là, se non in una qualche comune dimensione onirica – però con finalità ben diverse. Qualcosa di più può suggerire il debito sicuramente forte che le grandi tavole di Druillet manifestano nei confronti delle splash page di Jack Kirby; ma the King intendeva quelle sue pagine o doppie pagine come momenti di immersione nel momento culminante di una storia, tipicamente un grande ed eroico combattimento, mentre per Druillet l’immersione rimane continuata, senza sosta, come l’angoscia di non poter mai capire se sia questo, o quale possa essere mai, il momento culminante di una vicenda incomprensibile – e tanto più incomprensibile come sono spesso le vicende troppo più grandi di noi dentro cui ci ritroviamo. E sono loro a dominarci: non noi che dominiamo loro!
Quello che comunque passa da Kirby è di nuovo il misticismo, che però in Druillet finisce per essere il misticismo di un ateo, qualcosa di simile al sublime kantiano, che ci sovrasta e ci dichiara minuscoli – ma senza nessuna redenzione.
In questo ingresso da cattedrale gotica, già così carico di sacralità e disperazione, ecco che possiamo accorgerci che il rosone stesso non è fatto di spicchi, ma è una sorta di vortice di frammenti di corpi e di cose che conduce verso il nero, verso il nulla; come se fosse un lungo cluster di note tenute di organo in un pezzo di György Ligeti, terrificante nella sua dissonanza.
Solo adesso la strutturazione grafica della pagina incomincia a distinguersi, perché i bordi neri tra le vignette le uniscono più di quanto non le separino. E partiamo da sinistra, dove la colonna verticale complessiva si trova già implicitamente divisa in due dal ponte di roccia al centro, e sopra e sotto quello compaiono prospettive da piranesiane Carceri d’invenzione (o, se di nuovo vogliamo citare McCay, andate al 19 gennaio 1908). Coerentemente con la dimensione verticale, l’inquadratura è dall’alto, a volo d’uccello, e costringe lo sguardo a oscillare tra il vicino e il lontano, riconoscendo le due figure principali in gioco, e poi anche il grande volto scolpito nella roccia e i cadaveri in basso. Ben difficilmente si osserva che in basso, verso destra, si intravvede il pozzo già glorificato al centro della pagina.
E a questo centro la lettura sequenziale riporta finalmente adesso. Ora che c’è pure una contestualizzazione (vagamente) narrativa, il grido del pozzo sembra ancora più forte: la voragine è una bocca spalancata. Il cerchio del pozzo si trova poi ripreso immediatamente sotto: una piccola vignetta circolare incastonata in una struttura pseudotecnologica. Un volto pronuncia delle parole. Continuando a scendere, le parole proseguono, e provengono da una figura che si sporge sull’orlo del pozzo, ora appena sotto di noi, mentre l’altra figura con corna e spada continua a tacere immobile, forse ascoltando. L’inquadratura è sempre dall’alto, ma il punto di vista si è abbassato, preparando l’ulteriore abbassamento, che caratterizza l’ultima vignetta.
Adesso guardiamo dal basso: siamo dentro al pozzo, dominati dalla figura con corna e spada, che sembra sospesa nell’aria, visto che ai suoi piedi volteggiano sagome nere di uccelli. L’altro personaggio continua a parlare, ma è ormai lassù, in alto, lontano; mentre noi stiamo scendendo nel pozzo che continua a gridare, e il cerchio delle sagome nere volanti è quasi un cerchio di voci gridate e assordanti.
Cosa si stia raccontando in queste vignette non mi è mai stato del tutto chiaro, ma l’impatto mitico di questa tavola rimane ugualmente straordinario. Non è questa la tavola di Yragaël in cui si possa notare di più, ma c’è continuamente nel testo un riferimento a una tecnologia pervasiva e inquietante – quella stessa che sarà poi alla base, qualche anno dopo, delle invenzioni visive di Giger per l’Alien di Ridley Scott. Un richiamo sottile e costante alla negatività del futuro, alle distopie alla Philip K. Dick.
Qualcuno sostiene che il fumetto non sarebbe un linguaggio perché le vignette non sono proposizioni e perché le figure che vi vengono mostrate rimandano solamente a se stesse. Se davvero quel linguaggio che è indubbiamente tale, cioè quello delle parole, funzionasse solo in quanto proposizionale e referenziale, non avremmo il mito e non avremmo la poesia. C’è molto di più di questo sia nella parola, sia in queste potentissime evocazioni di senso, talmente potenti da saperci trascinare sin nel profondo di un universo così incerto e sconvolgente.
Devo confessare che quando scoprii Mafalda, negli anni Settanta, ero insieme ammirato e infastidito. Capivo bene il perché dell’ammirazione; molto meno quello del fastidio. Io non lo sapevo, ma all’epoca Quino aveva già smesso di disegnare Mafalda, che aveva realizzato dal 1962 sino al ’73. Dopo Mafalda, la sua produzione fu centrata su brevi storie umoristiche, sviluppate su una pagina, senza un personaggio fisso ricorrente. Quando iniziai a conoscere anche quelle, il fastidio sparì. Le trovai meravigliose, sempre centrate, e basta.
Ora, a posteriori, credo di capire perché Quino abbia smesso di disegnare Mafalda, dopo 10 anni di successi nazionali, e con quelli internazionali che stavano iniziando, contravvenendo alla logica commerciale più elementare, secondo cui cavallo che vince non si cambia. La sua spiegazione ufficiale fu che si sentiva a corto di idee. E questa è senz’altro la superficie, vera, ma poco significativa.
Rileggendo Mafalda, con tutta la sua irriverente, spinosa, efficacissima acutezza negativa, non posso fare a meno di percepire oggi ciascuna delle sue strisce come un rigoroso teorema, dove si dimostra la presenza del male a partire da presupposti quotidiani, e sempre con soluzioni originali e sorprendenti. Come dire, il male, more geometrico demonstrato. Che una tale devastante dimostrazione uscisse sempre dalla bocca di una bambina o da un’interazione fra bambini la rendeva ancora più netta e incisiva.
Ma Quino non stava tutto lì. Una cosa che caratterizza le sue produzioni umoristiche successive, non meno graffianti, non meno implicitamente (o esplicitamente) politiche, è un inesauribile fondo di tenerezza per le debolezze umane, sempre presente, sempre intenso. Il male continua a esserci ma ci appare temperato da questa, chiamiamola così, comprensione affettuosa.
Credo che stia in questo la ragione profonda per cui Quino smise di realizzare Mafalda, non trovando più idee. Inventare le strisce di Mafalda vuol dire abitare costantemente nella dimensione del male, inventandone ogni giorno una dimostrazione nuova ed efficace. Vuol dire vivere senza redenzione, con gli occhi spalancati nel fondo dell’abisso.
In una logica stretta e commerciale del successo, Quino avrebbe dovuto proseguire. Visto che qualcuno li apprezza, e ne esiste un mercato, anche il progressismo e la rivoluzione e la critica al capitalismo sono beni commerciabili, su cui ci si può arricchire. Ma Quino decise che il prezzo da pagare per questo successo sarebbe stata troppo alto.
Forse la dimensione della tenerezza era implicita in Mafalda, almeno alle origini, poiché tutto era ambientato in un mondo di bambini. Ma poi, progressivamente, la crudezza sarcastica aveva vinto, in maniera irrimediabile – perché ogni autore rischia sempre di diventare prigioniero del proprio successo, realizzando quello che il suo pubblico vuole da lui.
In nome del bisogno di esprimere la tenerezza, la pietà, la comprensione, Quino cambiò strada, e non sbagliò. Onore al creatore di Mafalda. Onore all’autore che ha saputo abbandonarla.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di tempo, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Nicola Pesce, Scuola di fumetto.
Credo che, per capire Moebius, sia necessario ripartire da Alex Raymond, e in particolare da quello che ne dicevo 4 mesi fa (su SdF 109, insomma). Molto in breve (ché potete comunque riaprire quel numero e rileggervi con comodo il tutto), sostenevo che il fascino di Flash Gordon non sta certo nella quasi-dimenticabile vicenda, bensì nella costruzione del mito che su quella fragile vicenda pone le basi, e quella costruzione è tutta fondata sulla straordinaria capacità grafica e sull’invenzione di luoghi, costumi, posture, espressioni… Alex Raymond ci fa sognare mettendo in scena mondi carichi di evocazioni, per farci immergere con lui, all’epoca, settimana dopo settimana in un immaginario carico di favola (ovvero di storia del nostro stesso immaginario).
Negli anni Settanta Moebius procede in maniera non del tutto dissimile: da Arzach al Garage ermetico di Jerry Cornelius è tutta un’invenzione di situazioni favolose, straordinariamente evocative, piene di echi a mitologie lontane e vicine. Anche qui la sceneggiatura è abbastanza trascurabile: le storie di Arzach sono volutamente senza capo né coda (per non dire di altre storie brevi assolutamente ermetiche, come Absoluten calfeutrail), mentre il Garage ermetico veniva improvvisato episodio dopo episodio, volutamente evitando di prevedere come sarebbe andato a finire (se non proprio alla fine, evidentemente).
Sottolineate le analogie, le differenze sono sufficientemente evidenti: il punto è che l’immaginario di un colto autore francese degli anni Settanta, che si rivolge a un pubblico nutrito ad avanguardie e a nouvelle vague, è inevitabilmente diverso da quello di un disegnatore americano dei Trenta, il cui pubblico – se va bene – è nutrito a pellicole hollywoodiane e classicismo di recupero. La fantascienza che costituisce il quadro di riferimento di Raymond arriva a Moebius profondamente trasformata dalle narrazioni distopiche degli anni Cinquanta e Sessanta, con i mondi allucinati di Philip K. Dick in testa. L’altrove non ha affatto smesso di essere il luogo del meraviglioso, solo che adesso quel meraviglioso ha assunto un alone inquietante che prima non aveva. Si andrebbe così rapidamente verso il drammatico o addirittura il tragico, che una solida vena di ironia o sarcasmo diventa necessaria per rendere digeribile il tutto.
A Raymond potevano bastare delle storie banalotte, purché coerenti, per reggere il meccanismo. Moebius deve invece proprio annullare la storia; trasformarla a sua volta in una serie di evocazioni fantastiche, reduplicando sul coté narrativo quello che già fa su quello visivo. Non importa che le storie siano coerenti; anzi, meglio se non lo sono. Del racconto deve bastare il profumo, l’illusione, la vaga impressione: quello che conta è anche qui l’effetto di immersione in un altrove leggendario, e pieno di miti. Poi, questi miti sono a loro volta spesso evidenti metafore di problematiche sociali, psicologiche, o addirittura politiche del presente: e qui la differenza tra la cultura francese dei Settanta e quella americana dei Trenta emerge prepotentemente.
A un certo punto della sua carriera Moebius incontra Alejandro Jodorowsky. Jodó ha già fatto un sacco di cose, partecipando a movimenti artistici e girando come regista due film. Ma i film, per quanto lodati dalla critica, sono stati commercialmente dei flop, e nessuno gli dà più soldi per girarne ancora. Jodó ha la testa piena di storie, ma sono storie che a Moebius potrebbero andare assai bene, tanto stralunato, assurdo, impossibile è il mondo in cui sono ambientate, e tanto complesse e imprevedibili sono le trame. Aggiungiamoci una vena di (agnostico) misticismo, che si sposa molto bene con le poetiche degli Humanoides (Druillet in questo era già andato molto più in là di Moebius stesso): e nasce così L’Incal, al principio degli Ottanta.
Quelle che vediamo qui sono rispettivamente la seconda e la terza pagina del primo episodio. Nella prima pagina (quattro vignette) John Difool, “titolare di una licenza di detective privato di classe R”, viene malmenato da quattro uomini mascherati e gettato giù da un ponte. Si tratta di un inizio violentemente in medias res: non sappiamo né il perché né il percome, e solo con la seconda pagina, che vedete qui, viene esplicitato il contesto.
Poiché Jodó è un grande inventore di storie, questo attacco intrigante avrà un seguito degno e coerente (oltre che a più riprese sorprendente), ma già in queste sole due pagine ci ritroviamo gettati a capofitto nel mito – e senza il salvataggio estremo di cui gode Difool. La città pozzo, l’epidemia di suicidi, il grande mare acido, l’interrogatorio durante la caduta… e poi aggiungete il vestito e la pettinatura un po’ sette-ottocentesche del protagonista, un po’ da pirata (cinematografico).
La città pozzo proviene da un racconto breve di Moebius di qualche anno prima, The Long Tomorrow, una storia di genere hard boiled, chandleriana anche nel titolo. E, pure qui, il ruolo di detective dichiarato da subito di Difool ci fa attendere un racconto di tipo hard boiled, insomma un poliziesco violento e pieno di azione. Solo che, qui come là, il contesto è tutt’altro che classico.
La vertiginosa prospettiva che ci introduce all’immagine della città ci mostra un mondo futuristico e minaccioso, ma costellato di quotidianità. Solo che fa parte di questa quotidianità la possibilità di fare il tiro a segno sui suicidi, o anche quella di limitarsi ad assistere allo spettacolo. Cinquant’anni di illustrazioni di fantascienza (Flash Gordon compreso) hanno costruito il mito di un futuro tecnologico e meraviglioso che qui si ribalta di colpo in (spettacolosa) angoscia.
Vocalità, visione e scrittura, romanzo e romanzo a fumetti
di Daniele Barbieri
Ho pubblicato alcuni mesi fa un libro (Letteratura a fumetti? Le impreviste avventure del racconto, ComicOut 2019 – qui un breve estratto su NI) che cerca di esplorare storicamente la nozione di racconto in relazione con quelle di immagine, oralità/scrittura, serialità/romanzo, alla ricerca delle radici lontane, nella nostra cultura, della dialettica tra fumetto seriale e graphic novel. Vi sostengo, tra le altre cose, che alla sua nascita, dal 1895, il fumetto instaura una sorta di paraoralità, pur presentandosi come una forma di scrittura (e vedi anche, su questo, l’articolo disponibile qui). A dispetto del suo essere una forma di comunicazione radicalmente visiva, il fumetto porta con sé, per molto tempo, diverse delle caratteristiche che contrappongono la trasmissione orale a quella scritta: aspetti di rapida caducità, di compresenza del contesto di emissione delle parole, di paratassi, di ridondanza, di stile formulaico, di concretezza ed enfasi sulla fisicità. Queste caratteristiche apparentemente paradossali (tipiche dell’oralità in un contesto del tutto visivo/scritto) si attenuano col tempo, man mano che il fumetto acquisisce in maniera sempre più netta le caratteristiche di una scrittura (benché peculiare, e certamente differente da quella tout court), senza tuttavia scomparire del tutto nemmeno nella dimensione contemporanea del romanzo a fumetti.
Ora, la lettura di un libro che avrei dovuto compiere da tempo (L’invenzione del romanzo. Dall’oralità alla lettura silenziosa, di Rosamaria Loretelli, Laterza, 2010) mi riapre la questione con nuovi spunti, costringendomi ad alcune considerazioni. Il libro della Loretelli compie un percorso che ha diverse analogie con il mio, ed è molto vicino come fonti di ispirazione, ma è anche pieno di informazioni specifiche (diverse dalle mie) e considerazioni interessanti. In particolare, invece di limitarsi a riconoscere nel XII secolo il momento in cui la lettura interiore prende piede in Europa, soppiantando quella unicamente ad alta voce che dagli antichi (Greci e Romani) era arrivata sino a quegli anni, Loretelli indaga la relazione tra scrittura e sua vocalizzazione nei secoli successivi.
E si scopre così che, benché a partire dagli scoliasti medievali si impari a leggere anche solo con gli occhi, la lettura ad alta voce continua a lungo a mantenere un ruolo cruciale, in particolare nella fruizione delle opere letterarie, anche quelle in prosa. Solo l’invenzione settecentesca del romanzo prevederà infatti quel particolare tipo di lettore che opera in solitudine e nel silenzio. Questo lettore non esisteva, o era raro e anormale prima di quest’epoca. E le opere stesse erano costruite in funzione dell’interpretazione vocale, la quale poteva introdurre, attraverso la recitazione, una serie di elementi tensivi, di suspense, che il testo richiedeva ma non conteneva direttamente.
Da questo punto di vista, l’evoluzione del romanzo nel corso del XVIII secolo mostra una serie di tentativi nella direzione di una autonomizzazione dei sistemi tensivi dalla vocalizzazione dell’eventuale lettore ad alta voce. Questi tentativi sfociano, dopo la metà del Settecento, nella creazione dei primi romanzi in senso davvero moderno, romanzi, cioè, che si possono leggere esclusivamente con gli occhi, in silenzio, in un rapporto diretto con la pagina del libro: gli autori hanno imparato, insomma, a costruire i sistemi di aspettative interamente attraverso la sequenza delle parole che descrivono azioni, posticipando ad arte quanto va posticipato, nella prospettiva di una fruizione eseguita dall’occhio del lettore diretto piuttosto che mediata dalla voce di un interprete vocale…
Da bambino/ragazzino mi capitava, occasionalmente, di comperare e leggere Linus, perché un maestro elementare illuminato (si chiamava Antonio Faeti, e ancora non aveva, ma avrebbe avuto in seguito, una brillante carriera di studi) ce ne aveva raccomandato la lettura. Su quelle pagine complesse e affascinanti, scoprivo Jeff Hawke e Moomin, Popeye e Li’l Abner. Mi inquietava un fumetto in cui compariva sempre una donna seduta a destra, in conversazione con qualcuno alla sua sinistra: un pollo, una bambina, una lumaca, un’altra donna identica a lei…
Il segno era minimale ma perfettamente definitorio per quelle storielle piene di dialoghi surreali e crudeli, che si aprivano con quella che per me era una strana sigla: Copi. Sembrava essere il nome della serie, ma era il nome del suo autore, anzi il suo pseudonimo, visto che l’irricordabile nome vero era Raúl Natalio Roque Damonte Botana. Argentino di nascita, poi cresciuto in Brasile, Uruguay, Francia, di nuovo Argentina, di nuovo Uruguay, poi definitivamente Parigi. Era nato a Buenos Aires il 20 novembre del 1939, per finire a morire a Parigi, tra le prime vittime dell’AIDS, 32 anni fa, il 14 dicembre 1987.
Essere un omosessuale dichiarato, negli anni Sessanta, non doveva essere facile nemmeno a Parigi. Quello che salvava almeno in parte Copi era il suo genio teatrale. Figlio di una famiglia di pittori e scrittori, che lo sollecitavano a seguire quella strada, il piccolo Copito (ovvero ciuffo, dal ciuffo ribelle di capelli a partire da quale lo chiamavano in famiglia) aveva trovato la propria strada differente facendo fumetti, cosa che al padre non piaceva. Ma, d’altra parte, il padre a sua volta era un uomo politicamente impegnato che doveva periodicamente lasciare l’Argentina quando i vari governi più o meno dittatoriali ne mettevano in pericolo la libertà o persino la vita. Fu la nonna materna, scrittrice, a spiegare a Raúl che non doveva vergognarsi della propria omosessualità. Quando il padre entrò in difficoltà finanziarie e non poté più mantenerlo, Copi si trasferì a Parigi, ventiduenne.
Lì, lo troviamo a campare vendendo i suoi disegni, sino a iniziare la collaborazione con il neonato settimanale Le Nouvel Observateur. Nel frattempo è entrato a far parte del Grupo Pánico, creato da Alejandro Jodorowsky, Fernando Arrabal e Roland Topor. Non si limita a disegnare fumetti, ma scrive commedie per il teatro, e poi romanzi. Dal 1966 le sue commedie iniziano a essere messe in scena, spesso interpretate da lui stesso, in ruoli femminili. Più o meno nello stesso periodo inizia la collaborazione con Linus: lui stesso e Topor saranno molto frequentemente ospiti a Milano a casa del suo fondatore e allora direttore, Giovanni Gandini.
Le sue commedie sono surreali, con dialoghi degni di un vero teatro della crudeltà. Ma non sono da meno i suoi fumetti: queste pagine quasi del tutto bianche, dove una linea sottilissima traccia i profili paradossali della donna seduta e del suo interlocutore, che si scambiano parole degne di un Samuel Beckett, ma forse ancora più beffarde, più sardonicamente castiganti i luoghi comuni dell’ipocrisia. Non c’è nulla di più normale delle reazioni della donna seduta, e non c’è nulla di più tremendo della normalità, quando se ne rivela il vuoto.
Non so bene quanto io potessi capire, da ragazzino, di queste microvicende senza capo né coda, protervamente immobili o incatenate in un loop senza uscita. Ricordo che mi sembrava che mettessero in scena una specie di piccolo inferno, come – ma lo direi adesso – una condanna all’esistere, e all’esistere facendo finta di esserne all’altezza, pietosamente ridicoli. Copi era un umorista sottilissimo, come la linea del suo pennino; magari un figlio dell’esistenzialismo francese, ma con una vena magica del tutto latinoamericana. Amava l’Italia, e non mancava di evidenziare l’origine italiana del suo cognome. Linus è stata certamente una delle sue molte patrie.
Pubblicato oggi, per aumentare la confusione sotto il cielo, sul blog del mio pregiato omonimo: La bottega del barbieri.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto.
Parlando di poesia, già negli anni Settanta, un grande critico come Harold Bloom parlava di angoscia dell’influenza. Non si può non essere influenzati, e ogni autore sa che passerà alla storia per la sua originalità: per questo, secondo Bloom, si percepisce sempre in un autore un’angoscia relativa alle influenze che agiscono su di lui, e che possono diminuire la sua portata innovativa. Ma un autore consapevole sa che l’influenza degli autori precedenti è non solo inevitabile, ma anche qualcosa che può essere fruttuoso se la si sa controllare. Chi legge apprezza sì l’originalità, ma ha bisogno pure di riconoscere forme e modi che gli siano familiari. Così, un’opera riuscita è sempre il prodotto del rapporto tra una qualche tradizione e un qualche tradimento nei suoi confronti: se non ci fosse un qualche rispetto della tradizione probabilmente non daremmo nessun valore all’opera; se non ci fosse del tradimento (ovvero dell’innovazione) la troveremmo noiosa e basta, già letta, già vista.
Marco Corona non ha mai fatto mistero della propria influenzabilità. Nel 2016, in un incontro pubblico durante il festival Bilbolbul, a Bologna, che gli aveva dedicato una grande mostra alla Pinacoteca Nazionale, Corona dichiarò proprio di avere realizzato ciascuno dei suoi lavori sotto il profondo influsso delle sue passioni del momento. E se conoscete un po’ di storia del fumetto, non farete fatica a riconoscere queste influenze nel lavoro di Corona.
Rimane il fatto che gli organizzatori di Bilbolbul hanno avuto pienamente ragione a dedicare una grande mostra in una sede prestigiosa a questo autore così influenzabile. Perché Marco Corona è oggi uno degli autori italiani più interessanti, e tanto più apprezzabile perché ha cambiato stile praticamente per ogni opera che ha realizzato, in barba al principio imperante nell’editoria e nella critica, secondo il quale un autore è tale perché ha uno stile, e quello stile è riconoscibile e lo caratterizza; un principio che certamente facilita la vita degli editori (perché i lettori riconosceranno più facilmente lo stile che già conoscono, e più facilmente acquisteranno) e dei critici (perché è più facile parlare di un solo stile che di tanti differenti).
Le pagine che trovate riprodotte qui provengono da un libro, Krazy Kahlo, che in realtà contiene due opere distinte. C’è una prima parte, che è la vera e propria Krazy Kahlo, realizzata per l’edizione del 2016; e c’è una seconda parte già pubblicata nel 1998 col titolo Frida Kahlo, una biografia surreale. Entrambe le sezioni sono di grandissimo valore, ma basta uno sguardo per vedere bene le differenze, e magari per capire che cosa stava affascinando Corona in quel periodo.
Se guardiamo la pagina del ’98, ritroviamo con una certa facilità diversi autori italiani degli anni Ottanta, tra cui certamente Andrea Pazienza e Massimo Giacon. E Corona non poteva non conoscere la biografia a fumetti di Frida realizzata nel 1988 da Beto Hernandez, altrettanto surreale (seppur in forme diverse) e dal segno altrettanto nitido. Le influenze si vedono, e bene, ma proprio per questo diventano chiaramente parte del discorso. Se c’è qualcosa che hanno in comune questi tre autori è proprio la capacità di raccontare con ironia storie drammatiche, in modo che l’ironia possa far ridere senza sminuire la portata del dramma, e in modo che il dramma possa commuovere senza togliere comicità alla situazione. In questa pagina Diego Rivera, il marito di Frida, è nei panni di un dottor Frankenstein sul punto di dar vita alla sua creatura, e la sua creatura sarà proprio lei, Frida, mezza naturale e mezza artificiale anche nella realtà, come la Storia ci racconta, a causa di un incidente che quasi le costò la vita, e da cui dovette essere ricostruita chirurgicamente con varie protesi ossee.
Corona sembra lavorare con una serie di elementi culturalmente già molto caratterizzati. Ma la mescolanza è originale e l’effetto dirompente. Le influenze si vedono benissimo, perché sono proprio ostentate; ma sono ostentate perché sono ormai puro materiale di lavoro, elementi del puzzle che l’autore sta costruendo, e quello è davvero originale.
Questa strategia si vede ancora meglio nelle due pagine del 2016, parte di un lavoro palesemente dedicato a George Herriman e al suo Krazy Kat. Frida sta, molto dolorosamente, morendo, e l’unica cosa a cui aspira, ormai, è una dose di morfina che le allevi almeno in parte il dolore. Anche Herriman è un autore insieme ironico e tragico, ma il suo modo di raccontare visivamente è del tutto diverso da quello degli autori citati prima. Il segno grafico di Herriman è sporco e volutamente impreciso e questo fornisce alle cose una consistenza particolare, che permette di rendere particolarmente sottile la differenza tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Raccontare l’agonia di Frida con queste forme surreali crea una strana connessione tra il suo specifico surrealismo deviante e l’altrettanto deviante surrealismo implicito di Herriman. Leggendo Corona, ci si accorge improvvisamente di quanto deserto messicano ci sia in Coconino County, e di come il rapporto perverso tra Ignatz e Krazy Kat non sia in fin dei conti del tutto diverso di quello, storico, tra Frida e Diego.
Ci si accorge anche che, in termini di segno grafico, Herriman è stato un autore molto più tragico di Pazienza, di Giacon e di Beto Hernandez. Nelle citazioni di Corona, la natura ironica dell’universo di Herriman non scompare affatto, ma è quella tragica a dominare. Se la Frida del 1998 poteva essere ancora surreale e scherzosa, qui il sogno è diventato incubo e la risata emerge comunque a denti stretti. L’azione del peyote del don Juan di Carlos Castaneda è talmente evidente in queste pagine da indurci a rileggere persino Herriman in termini allucinatori, per accorgerci che non è troppo difficile farlo, anche se l’accento delle storielle di Krazy Kat veniva poi messo altrove, e il delirio rimaneva relegato agli sfondi, al paesaggio (o era comunque presupposto alle relazioni messe in scena, e mai del tutto tematizzato).
In questa intervista raccolta durante il Festival della Comunicazione di Camogli nel settembre 2015 da Giovanni Paolo Fontana per RAI Scuola, anticipo alcuni temi che saranno poi sviluppati nel mio ultimo libro Letteratura a fumetti? Le impreviste avventure del racconto.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto.
Alex Raymond, Flash Gordon, Tavola del 18.06.1939
Questo mese andiamo sul classico, che più classico non si può. Se Milton Caniff ha rappresentato il modello per gran parte dei fumettisti americani del suo tempo (compreso lo stesso Raymond più maturo), il Raymond di Flash Gordon è stato a sua volta l’autore americano più imitato all’estero: in Argentina, in Gran Bretagna e in Italia. Come succede, tuttavia, imitare lo stile di un autore non sempre (anzi quasi mai) comporta il riuscire a riprodurne la fascinazione.
Mi sono reso conto mio malgrado, cercando un difficilissimo distacco critico, della sostanziale banalità delle trame di Flash Gordon, nelle quali succede sempre quello che deve succedere. Dico mio malgrado perché a dispetto di questo sono stato e rimango un lettore appassionato di Raymond, così affascinato dal suo lavoro da arrivare a non percepire qualcosa che ad altri autori non so invece perdonare. Ho provato a indagare sul perché di questa fascinazione e ho sviluppato un’ipotesi che mi sembra plausibile, e che ho già raccontato anche in altre occasioni: quello che affascina il lettore di Flash Gordon è precisamente il disegno di Raymond, ma non perché la successione delle immagini sia semplicemente una successione di belle figure, ma perché questa trama per altri versi così banale è in realtà funzionale a fare emergere la capacità che Raymond possiede al massimo grado, quella di farci entrare – visivamente – nel mito.
Il mito non ci affascina perché è originale. Il mito è fatto di elementi che conosciamo benissimo, uno per uno e magari anche nella loro combinazione; però non possiede un modo standard di essere raccontato, e tutti i diversi racconti che se ne possono fare sono equivalenti come racconti del mito. Non sono però equivalenti quanto alla loro efficacia: in racconti diversi dello stesso mito, i medesimi elementi possono apparirci più smorti oppure più vivi; lo stesso mito ci può apparire lontano (benché magari nitido) oppure vicinissimo, quasi come se ci fossimo dentro, inglobati, coinvolti. L’originalità di Raymond non sta nel racconto, ma nel modo in cui tavola dopo tavola, settimana dopo settimana, permetteva ai suoi lettori un’immersione profonda nel mito, secondo le forme di una favola antica mediata attraverso i valori americani moderni di autoaffermazione dell’individuo, di libertà e di coraggio, di democrazia e di progresso, ma anche attraverso le forme visive del mito contemporaneo più vivido, quello del cinema di Hollywood!
Guardiamo la tavola del 18 giugno 1939. Siamo in una fase avanzata dello sviluppo grafico di Flash Gordon (uno sviluppo facilmente percepibile, se solo avete un minimo di occhio grafico, sfogliandone le annate). La pagina ha diminuito progressivamente il numero delle singole vignette da 12 a 6, nella prospettiva di una più agile monumentalizzazione delle figure e delle situazioni. Seguendo l’esempio di Harold Foster (Tarzan, prima, e Prince Valiant poi) Raymond ha eliminato i balloon: la narrazione di accompagnamento in didascalie è maggiormente funzionale, infatti, al distacco che il mito richiede. Certo, rischia di rendere meno viva l’azione; e, trattata con meno abilità della sua, rischia pure di riprodurre il modello tradizionale di narrazione per immagini in cui il testo verbale racconta e l’immagine illustra. Ma qui le immagini di Raymond sono talmente forti, talmente vive, che sono comunque loro a fare la parte del leone, e il racconto verbale si riduce a una sorta di tenue filo narrativo, necessario sì, ma del tutto funzionale a valorizzare quello che conta, cioè le figure. È certamente Foster il primo ad averlo capito: nel suo Prince Valiant brevi narrazioni didascaliche non fanno che introdurre scene intricatissime e favolose, che richiedono un tempo di lettura estremamente più lungo del testo verbale che le accompagna, e sono molto più informative di quello. La parola si limita a introdurre quei dettagli spazio-temporali e quei nessi narrativi che l’immagine farebbe troppa fatica a mostrare, e il resto spetta a lei.
In aggiunta Foster aveva capito (e qui Raymond lo segue con abilità forse ancora superiore) che il mito è quella cosa che è sempre stata raccontata con parole, e che quindi un racconto verbale contribuisce certamente a ricostruirne l’effetto. La parola ci introduce nel mito, e poi l’immagine ce lo fa esplodere davanti, vi ci butta dentro (a conferma guardate, in anni più recenti, il lavoro straordinario realizzato da Sergio Toppi seguendo questi stessi principii).
Poco male, in questa tavola, se non siete in grado di leggere le poche parole inglesi che accompagnano le immagini. Qualcosa perderete, certo, ma il contrasto che emerge dalla prima vignetta, tra – diciamo così – la bella e la bestia non potrebbe essere più evidente: lei tutta liscia e chiara, con le unghie e i capelli curati; lui peloso e rugoso e scuro. Lei spaventata e lui ghignante; la mano di lei sottile stretta nel goffo ma possente pugno di lui. Ma tutto questo non avrebbe la stessa forza se non fosse sottolineato dalla scelta dell’inquadratura, presa molto da vicino e con i personaggi rivolti verso di noi, lei addirittura che cerca di uscire dal quadro per arrivarci addosso. Il gigante che insidia la bella indifesa è un classico da favola, ma qui prende corpo davanti a noi con una vividezza inconsueta, quasi più che cinematografica. L’inquadratura è indubbiamente da cinema, così come le espressioni dei personaggi: insomma, il mito antico ripresentato nella cornice del mito moderno; e noi buttati visivamente al suo interno!
Vignetta dopo vignetta, questo regno di caverne e di vichinghi giganteschi trova sempre le forme più intriganti per apparirci davanti, sino ad arrivare alla sesta, uno di quei capolavori del dinamismo che Raymond non ha mai lesinato, ben sapendo di esserne un maestro. Anche qui la composizione è tutta sviluppata nella dimensione della profondità: in basso a sinistra, in primo piano, ci sono due giganti abbattuti, evidentemente dalla furia di Flash, una furia che sta trovando freno proprio ora nell’azione di ben tre antagonisti, che lo bloccano a mezz’aria. Sul fondo il capo Brukka osserva divertito la scena, mentre Dale si dispera (suo compito principale nelle storie di Flash Gordon). La progressione va da in basso a sinistra verso l’alto a destra, esattamente la direzione in cui procederebbe l’azione interrotta di Flash: eccoci quindi quasi nei suoi panni, buttati pure noi all’interno della scena, come viene ribadito pure da quelle due tende di pelle ai lati che sembrano essere lì solo per darci la sensazione di poterle superare.
Raymond non è solo un abilissimo disegnatore, in grado di utilizzare un segno grafico di grandissima efficacia per rendere con estremo realismo il mondo del mito (almeno per il sistema delle convenzioni grafiche della sua epoca). È pure un sottile costruttore di situazioni e inquadrature, in cui la dimensione della profondità (come ben si vede in tutte e sei le vignette) rappresenta un continuo invito all’immersione nella realtà raccontata.
Tra una settimana in libreria. Letteratura a fumetti? Le impreviste avventure del racconto. Un percorso, che riguarda il fumetto, tra il mito, la serialità, la pittura e la scrittura, e – ovviamente – il racconto. Le impreviste connessioni tra mondi che il fumetto ha riportato vicini.
Da fine marzo il libro è disponibile in libreria. Si può acquistare on line sul sito di Comicout (meglio) oppure su Amazon.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto.
Chris Ware, da Building Stories, 2005-2012
Il lavoro di Chris Ware può apparire freddo. Faremmo meglio a dire che vuole apparire freddo. Il feeling di astratta geometricità che una tavola come questa produce è di sicuro attentamente progettato dal suo autore. Eppure la materia di cui questa pagina racconta è tutt’altro che fredda: Building Stories gira tutto attorno ai sentimenti della sua protagonista, ai suoi desideri e ai suoi ricordi.
In un certo senso, la distanza che l’autore vuole rimarcare nei confronti di quello che racconta è un po’ la distanza che separa l’entomologo dall’insetto che sta osservando. Eppure, benché questa distanza sia comunque evidente, qui l’entomologo Ware appare incredibilmente vicino ai sentimenti del suo insetto.
È probabilmente questa la chiave del fascino delle storie di Ware: grande distanza e insieme estrema vicinanza, freddo e caldo insieme, entrambi acutamente percepibili.
Osserviamo con attenzione questa pagina. Building Stories è un cofanetto composto di una serie di oggetti: dai libri veri e propri, contenenti racconti di più pagine, ai singoli grandi fogli piegati, dove la storia è composta di due sole facciate. Questa è la prima di due pagine di questo secondo tipo.
Quando la si guarda, l’attenzione è immediatamente richiamata dal grande volto a centro pagina. Ware sa benissimo che le pagine a fumetti non fanno eccezione alle regole dei percorsi dell’attenzione: prima di iniziare a leggere dall’alto a sinistra, inevitabilmente l’occhio vede l’intera pagina, e viene catturato dai dettagli maggiormente rilevanti, se ve ne sono. Qui il volto al centro, così graficamente isolato, così marcato nel suo contorno dalla linea nera regolare, così simmetrico sia verticalmente che (almeno nel suo contorno) orizzontalmente, non può non imporsi all’attenzione. Tanto più che quella sottile linea rossa che lo raggiunge dal basso può ben assomigliare al filo di un palloncino (e la freccia immediatamente sotto al profilo del mento può facilmente essere vista come il nodo alla sua base). Questo grande viso ha un’espressione malinconica e meditabonda, che corrisponde alla personalità della protagonista (non c’è un ordine obbligato con cui leggere le diverse storie del cofanetto – quindi è possibile che il lettore la conosca già): il viso di qualcuno che sta ricordando, immerso nei propri pensieri.
E a questo punto, poiché non ci sono altre emergenze percettive che si impongano alla visione iniziale, il nostro sguardo corre all’inizio della pagina, e non si stupisce di trovarvi a mo’ di titolo la frase As a kid, cioè da bambina. Non ci sono emergenze specifiche, ma la pagina è già apparsa come divisa in tre aree, oltre a quella del viso centrale, ciascuna caratterizzata da una tinta dominante: un azzurro poco saturo in alto, un grigio nella colonna di sinistra, un bruno o verde acido nella colonna di destra, anche loro poco saturi.
Quando iniziamo a leggere abbiamo dunque già un’idea di quello che ci aspetta: tre episodi distinti, tutti e tre oggetto di ricordo. La pagina è inoltre dotata di una relativa ma significativa simmetria, debole in alto, nell’area a dominante azzurra, e più forte al centro e in basso. Osserviamo, per esempio, le due vignette più grandi ai lati del viso centrale, che esibiscono, simmetricamente, un’inquadratura angolare (dove, qui come sempre, gli angoli sono di 120 gradi), contrapposta alle inquadrature frontali di quasi tutte le altre vignette più piccole – e questo si ripete nella striscia più in basso.
La pagina è narrativamente, ma anche graficamente, scandita dai titoletti in rosso: AS A KID, MEN, I’LL NEVER FORGIVE, THE COMBINED, Y’KNOW. Anche il loro lettering è geometrico e freddo, ma non ci sono simmetrie nella loro posizione. Hanno tuttavia lo stesso colore rosso che, qui come in altre pagine di Building Stories, caratterizza le linee di collegamento che guidano il percorso di lettura là dove non è quello standard. Sono quindi anche loro delle indicazioni di direzione, quasi delle frecce; tanto più che non sono veri e propri titoli, separati dal testo che segue, ma semplici attacchi del discorso, evidenziati da un diverso trattamento grafico, ma discorsivamente collegati a quello che c’è dopo.
La sequenza a dominante azzurra mostra la protagonista bambina davanti allo specchio, a immaginare il proprio aspetto da grande, casualmente interrotta dall’ingresso del padre. Il discorso che inizia con I’LL NEVER FORGIVE (non perdonerò mai) fa riferimento a un autoritratto, visibile a sinistra, e quindi è lì che veniamo rimandati, per poi scendere da quel lato attraverso i ricordi dell’adolescenza, fino a ritrovarci, in basso, nella quotidianità del presente, in bagno davanti allo specchio, mentre una voce fuori campo chiama “mamma”. Da qui il filo rosso ci porta al volto/palloncino centrale e ancora da qui alla colonna di destra, dove la protagonista è nuovamente un po’ più grande, fino alle vignette in basso, che ci riportano nel presente.
Notiamo che la sequenza tollera bene anche una lettura “sbagliata”, che proceda – attraversando il viso centrale – per righe orizzontali da sinistra verso destra. Letta in questo modo, la sequenza appare come il montaggio alternato di due ricordi diversi: del resto, tutto Building Stories è fatto di frammenti spazio temporali giustapposti, che possono essere letti in qualsiasi ordine, perché possiedono al proprio interno le coordinate per creare un ordine narrativo complessivo. Anche la lettura “sbagliata” rimarrebbe quindi accettabile, e non muterebbe gran che l’effetto d’insieme, un effetto comunque labirintico – nel quale il percorso giusto esiste (ed è la sequenza temporale del racconto) ma va cercato e trovato, sia globalmente che localmente.
Anche la struttura labirintica contribuisce al distacco che il lettore percepisce. È come se tutta la passionalità della vita si trovasse ricostruita qui attraverso un progetto razionale, certamente articolato e complesso, ma la cui complessità è inevitabilmente minore di quella delle emozioni della vita reale. In questo modo, Ware raggiunge l’obiettivo di generare il pervasivo senso di angoscia, e il senso tragico che permea queste vicende pur prive di grandi avvenimenti: la tragedia è quella di una vita già destinata, sin dall’inizio, a seguire un percorso, senza scampo. Il percorso è segnato dalle regole sociali, che qui si trovano, spesso, narrativamente appena accennate; mentre vengono fortemente richiamate da questa ricostruzione grafica razionale che permea tutto, e solo attraverso la quale arriviamo al racconto e alle sue emotività.
Nella prima metà del Novecento l’idea di progetto razionale ha dato vita al funzionalismo e alle sue conseguenze, con l’ideale ottimistico che la razionalità avrebbe migliorato la vita dell’uomo. In Chris Ware il medesimo principio si rivela invece l’angosciosa scatola da cui non siamo più capaci di uscire.
L’immagine contro il soggetto. Due graphic novel contemporanee.
Daniele Barbieri
È difficile pensare a due graphic novel più differenti tra loro di Atto di Dio, di Giacomo Nanni (Rizzoli Lizard), e Hasib e la Regina dei serpenti, di David B. (Bao), entrambe uscite negli scorsi mesi. Eppure, sotto a questa evidente diversità, di temi come di modi, si nasconde un progetto comune, che in ambedue i casi sottolinea la radicale diversità tra il raccontare a fumetti e il classico raccontare a parole, come si fa nel romanzo, e anche tra il raccontare a fumetti e il raccontare audiovisivo, come si fa nel film.
Atto di Dio è una successione di eventi che potremmo definire quasi-non-storie, raccontate da voci narranti che non sono mai umane, e quindi impossibili: il capriolo smarrito, la montagna, la carabina, il terremoto, il piccolo crostaceo. Le immagini sono sgranate, colorate con un retino troppo grosso e spesso evidenti rielaborazioni da originali fotografici: riferimento sufficientemente evidente a sguardi che non appartengono a nessuno, oggetti pubblici, visioni da quotidiano o da rotocalco – ulteriormente allontanate da una qualsiasi soggettività dall’elaborazione straniante cui sono state sottoposte. L’evento principale a cui si lega il titolo della storia, cioè il terremoto nelle Marche, e in particolare sui Monti Sibillini, finisce per annegare in questa naturalità straniata dal contrasto tra una non-soggettività naturale e una falsa soggettività massmediatica.
Hasib è invece la narrazione a fumetti di un estratto da Le mille e una notte, in cui Sheherazade racconta, tra la notte quattrocentottantadue e la quattrocentonovantotto la miracolosa storia di Hasib, che incontra la Regina dei serpenti, la quale gli racconta la storia del re Buluquiyya, il quale, nel corso delle proprie avventure, sempre intrecciate con la vicenda della medesima Regina, incontra a sua volta il Principe Janshah, che si sta lasciando morire sulla tomba dell’amata, e racconterà pure lui la propria vicenda. Questa organizzazione narrativa a scatole cinesi è certamente parte del fascino della raccolta di fiabe arabe, intesa com’è a portare il lettore sempre più in là, sempre più addentro nel mondo favoloso del mito (come già capì bene a suo tempo Pier Paolo Pasolini, girando la propria celebre versione cinematografica). E la medesima immersione senza scampo viene riproposta qui dai disegni di David B., sospesi tra schematizzazione grafica e continua invenzione visiva, dove l’elemento narrativo si intreccia continuamente con una sorta di sontuosa decoratività, con riferimenti all’immaginario visivo di quella parte dell’Islam che non ha mai rinunciato alle figure, dall’Iran in poi procedendo verso Est….
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Sono molto dispiaciuto che la rivista non ci sia più. Queste riproposte continueranno con frequenza bimestrale sino a esaurimento.
Alberto Breccia, “Un tal Daneri. Occhio per occhio”, 1976
Alberto Breccia, “Un tal Daneri. Occhio per occhio”, 1976
Non ho ancora parlato di Alberto Breccia, in questa rubrica. Non ho ancora parlato di tanti, certo, perché sono troppi gli autori di cui varrebbe la pena di parlare. Però, che mancasse Breccia era davvero una mancanza notevole, di quelle cui, appena te ne accorgi, è indispensabile porre rimedio. Io credo che, insieme a Will Eisner, Alberto Breccia sia stato davvero il maggiore fumettista del XX Secolo. Argentino, anche se nato in Uruguay, di evidenti antenati italiani, la sua vita corre dal 1919 al 1993. L’avevo anche conosciuto di persona un anno prima della sua scomparsa, e gli avevo inviato una copia del mio I linguaggi del fumetto, dopo aver saputo, da amici comuni, che a Lucca mi cercava per chiedermela: un grande onore, per me.
Voglio guardare con voi le due tavole conclusive di una storia del 1976, sceneggiata da un altro grande autore, purtroppo pure lui scomparso, Carlos Trillo (1943-2011). La storia si intitola “Occhio per occhio” e fa parte della serie Un tal Daneri.
Daneri, il protagonista della serie, è un sicario, però è anche un uomo con un singolare eppure profondo senso morale. Da accenni qua e là nella serie, si capisce che una volta era stato qualcuno, prima di ridursi così. Nella storia di cui ci occupiamo, Daneri entra in un locale notturno dall’aria equivoca e, dopo essersi accertato dell’identità del pianista, gli spacca le mani chiudendo di colpo e violentemente la copertura della tastiera. Uscito, mentre cammina da solo per le vie notturne di una città fatiscente, si accorge di essere seguito; ma il suo accenno di difesa quando l’inseguitore si lascia vedere è inutile, perché non c’è intenzione di aggredirlo. Anzi, l’inseguitore dimostra di conoscerlo e di avere persino un’oscura ammirazione per lui. Però gli deve dire come stanno le cose davvero: Julieta, che ha commissionato a Daneri il misfatto, gli ha certamente raccontato che il pianista la tormentava. La verità, invece, era che lei tormentava lui, perché lui aveva osato lasciarla; e lei, forte del suo potere, gli aveva impedito di trovar lavoro ovunque, se non in quel locale di infimo livello – e poi ora anche questo: “La vita è un tale schifo!” è la sua conclusione, prima di andarsene e lasciare Daneri a vagare solo e meditabondo per le strade buie della città.
In questo vagabondaggio pieno di forme quasi sformate, solo un oggetto appare ben definito: il manifesto di una rivista, che ne presenta la copertina mostrando Julieta come viso dell’anno. È poco dopo di questo che il vagabondare di Daneri giunge a termine, e ci ritroviamo con le due tavole finali, che potete leggere qui a fianco.
Osserviamo dunque le prime quattro vignette della prima tavola. Due stili grafici diversi vengono messi a contrasto. Da un lato c’è la figura di Daneri, anziano, quasi informe lui stesso, ma soprattutto disegnato attraverso macchie d’inchiostro incerte e tremolanti, e reticoli di linee altrettanto incerti e complessi a definire le rughe del suo volto. Tutte le pagine che precedono (con l’unica eccezione del manifesto che mostrava Julieta, e alcuni altri manifesti pubblicitari) sono disegnate con questo medesimo stile o qualche sua variante ugualmente “sporca” – e anche per questo la città attraversata da Daneri nella notte appare così fatiscente.
Dall’altro lato c’è Julieta e il suo appartamento. La figura di lei è tracciata con le linee sottili di un pennino su fondo bianco. È una figura giovane ed elegante, con pose da rotocalco. E pure il “lussuoso palazzo in centro” in cui vive è rappresentato con uno stile grafico ben diverso da quello di Daneri e del suo mondo, basandosi fondamentalmente sul collage fotografico, e quindi su linee nette e ben definite, colori uniformi, sfumature di luce… Dal punto di vista grafico, Breccia non fa dunque che ribadire l’opposizione tra i due mondi sui quali si sviluppa il racconto: il bassofondo in cui si aggira Daneri, e l’alta borghesia, la ricchezza, l’agio, in cui vive Julieta.
Ma, a questo punto, sappiamo anche, grazie alla rivelazione dell’inseguitore notturno, che si tratta di un’opposizione di facciata: Julieta non è meno corrotta del mondo a cui si è rivolta per punire il suo ex-amante. La bellezza sua e del mondo in cui vive è una semplice apparenza.
Per questo, una volta concluso il contratto con il pagamento della prestazione, Daneri può vendicarsi per essere stato indotto a compiere la sua missione per mezzo di una menzogna. Così, la sua vendetta: togliere a Julieta il suo bene, quello che le permette di vivere, proprio come lei aveva fatto, per mano di lui, con il pianista: “Le mani servono a un pianista per farsi sentire. Il viso serve a una modella per farsi vedere… Occhio per occhio, diceva la giustizia degli antichi”.
Ed ecco come Breccia mette in scena questa punizione, o vendetta. I pugni di Daneri trasformano Julieta facendola passare dal proprio universo visivo di appartenenza a quello in cui vive lui. Osservate la progressione dall’ultima vignetta della prima pagina alle prime tre della pagina successiva: Daneri vi appare più o meno come era sempre apparso, ma il viso di Julieta si trova ridotto, già nella prima vignetta della seconda pagina, a una macchia; e poiché nella seconda gli resta ancora un po’ di definizione, ecco che nella terza vignetta il pugno di Daneri lo trasforma definitivamente in un grumo di inchiostro.
La trasformazione grafica è quindi una trasformazione morale: la bella Julieta è stata restituita al mondo che le spetta di diritto, quello medesimo di Daneri, il mondo sporco, il mondo che non ha speranza né denaro né una vita degna di questo nome; quello stesso mondo che, una volta superata di nuovo l’apparenza di benessere dell’ingresso dell’edificio, torna ad accogliere Daneri nell’ultima vignetta.
Osserviamo che il racconto ci presenta il mondo di Julieta come un mondo falso; di conseguenza il mondo di Daneri ci appare come quello vero. Un po’ come dire che l’unica verità possibile sta nel mondo dei disperati; è una verità amara, proprio come quelle della giustizia degli antichi. La morale cupissima di questa storia sta proprio in questo: non nella punizione della bella ingannatrice e della sua arroganza, ma nello sconsolato accorgerci che l’unica verità possibile è quella cupa degli esclusi, quelli persino la cui immagine è sporca, incerta, macchiata.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Sono molto dispiaciuto che la rivista non ci sia più. Queste riproposte continueranno con frequenza bimestrale sino a esaurimento.
Sergio Toppi, “Sharaz-de. Ho atteso 1000 anni”, luglio 1980
Rimaniamo sul tema della costruzione di pagina, rispetto al quale l’ultima volta avevamo esaminato una pagina del Little Nemo di Winsor McCay. Stavolta ci spostiamo molto più vicino a noi. La tavola di Sergio Toppi che state vedendo appartiene alla storia “Ho atteso mille anni” della serie Sharaz-de, ed è stata pubblicata per la prima volta sul numero di luglio 1980 di AlterAlter.
Sharaz-de consiste in una serie di racconti ispirati alle favole delle Mille e una notte, e rappresenta forse il punto più alto della produzione di Toppi per Linus e Alter negli anni Settanta e Ottanta. Quasi tutti gli episodi sono in bianco e nero, con due importanti eccezioni, da una delle quali è tratta questa pagina. Anche gli episodi di Sharaz-de condividono il tono epico e favolistico delle storie che Toppi sta realizzando in quegli anni; anzi, lo accentuano, facendosi forti delle modalità narrative della raccolta tradizionale araba.
Osserviamo dunque con attenzione questa tavola. Chi conosce Toppi sa quanto è arrivato lontano, in questi anni, dall’organizzazione tradizionale della pagina fumettistica, organizzata sequenzialmente per vignette. Spesso nelle sue tavole la ripartizione in vignette è completamente assente, sostituita da una logica di lettura che sfrutta sia le convenzioni di lettura (sinistra prima che destra, alto prima che basso) sia i poli di attrazione percettivi dell’immagine (tendenzialmente: prima il centro poi la periferia, prima le figure meglio definite – cioè più grandi, o più vicine, o più contrastate… – e poi le altre, prima le figure umane e poi il resto, prima i volti e poi i corpi…).
Qualche volta, però, un accenno di organizzazione della sequenza basata sulle vignette rimane, magari combinandosi con gli altri principi, proprio come in questa pagina. Sono infatti immediatamente riconoscibili qui quattro vignette, di cui due colpiscono l’attenzione prima delle rimanenti. Si tratta della vignetta grande quasi quanto la pagina, su cui si appoggiano quasi tutte le altre, che però catalizza l’attenzione del lettore solo per via del grande volto del demone in alto a sinistra; e della vignetta centrale, con il primo piano dell’uomo. I due volti attirano l’attenzione del lettore prima di ogni altra figura sia perché sono volti umani, sia perché occupano i due punti maggiormente qualificati della pagina: l’angolo in alto a sinistra, punto di inizio per la lettura delle tradizionali pagine del fumetto, e il centro, punto di richiamo importante per tutta la visività non sequenziale (come illustrazione e pittura).
Inoltre gli sguardi dei personaggi presenti in questi due punti nodali della pagina sono rivolti l’uno verso l’altro, ed è dunque immediatamente chiaro al lettore, il quale – ancor prima di leggerli – ha visto i balloon affollati di testo, che il tema di questa pagina è il dialogo tra il demone e l’uomo. Questo dialogo è già iniziato nelle pagine precedenti. L’uomo ha trovato per caso una giara sigillata in una grotta, e quando l’ha aperta ne è uscito un gigantesco demone, o genio, il quale è rimasto prigioniero lì dentro mille anni e ha sviluppato una grande rabbia, decidendo di uccidere chi lo tirerà fuori. Ma l’uomo è astuto e lo fa parlare, e alla fine befferà il genio potentissimo ma stupido, salvandosi, divenendo ricco, e richiudendolo per sempre nella giara.
Oltre ai due volti dialoganti, ci sono altre figure nella pagina, sufficientemente nitide quelle inquadrate in vignette, incerte, quasi sfondi insomma, le altre. È solo seguendo i dialoghi che ci accorgiamo che è presente una figura non immediatamente evidente, sulla destra: di nuovo il demone, reso difficile da individuare a causa della scarsa definizione e del colore molto simile a quelli circostanti. Il grosso della pagina, da cui questa figura non si stacca, è costituito dal variegato ma oscuro e informe corpo del genio della vignetta principale, che solo arrivando, dopo la lettura dei balloon, all’angolo in basso a destra, viene ancora riconosciuto come esalazione dalla bocca della giara aperta. In questo modo il genio appare davvero imponente, poiché occupa la quasi totalità della pagina; ma viene creata anche, dall’angolo in alto a sinistra procedendo verso il basso a destra, una progressione dal chiaro verso lo scuro, un’oscurità che poi si rivela essere il fiotto che esce dalla giara.
Dall’angolo in alto a sinistra è comunque evidente pure una progressione diagonale, che attraversa le tre vignette in cui appare la figura dell’uomo. L’immagine del demone a destra rimane percettivamente secondaria anche perché resta fuori da questa diagonale, la quale cattura fortemente l’attenzione e sembra tracciare integralmente la sequenzialità temporale della pagina.
Non capiamo comunque del tutto il gioco visivo di Toppi se non leggiamo il discorso contenuto nei suoi dialoghi, per accorgerci di questo tono così alto, aulico, da favola antica, o da leggenda. Non ci sono didascalie in questa pagina, ma in altre pagine i cartigli sono relativamente frequenti, e il loro registro verbale è lo stesso che troviamo in questo dialogo. Se ora riflettiamo in generale sulla natura delle favole e delle leggende, potremo accorgerci che si tratta di un tipo di racconti che è fatto per essere ripetuto (e ascoltato) più e più volte, in cui lo sviluppo della vicenda (comunque di solito già noto agli ascoltatori) è meno importante della sua ripetizione, la quale ha un carattere rituale, quasi da cerimonia. Non c’è quindi in loro la logica del romanzo o della novella, che ci tengono avvinti per sapere come si sviluppa la storia. Qui infatti, senza che lo sviluppo della storia scompaia o diventi irrilevante, domina piuttosto il ritorno dell’atteso, come in ogni rito che si rispetti. Ma quando l’atteso, pur confermandosi nello sviluppo del racconto, si presenta in ogni momento in forme nuove e sorprendenti, ecco che la situazione rituale si riempie di interesse anche per chi non sia interessato al rito in sé.
Questo è quello che Toppi sembra ribadire in tutte le storie per Linus e Alter, fino a Sharaz-de: lo sviluppo della vicenda, pur non irrilevante, non è certo l’argomento centrale; e il tempo al suo interno può anche, in tanti casi, rivelarsi sospeso, o incerto quanto al proprio ordine. I dialoghi contenuti in queste pagine sarebbero inutilmente lunghi in una logica serrata dell’azione. Ma dove il tempo è sospeso o incerto, è molto più importante la costruzione dell’aura mitica che non quella dell’azione.
Toppi introduce quest’aura per mezzo dei testi verbali, ma la sviluppa e carica di ineguagliabile fascino attraverso la costruzione dei suoi disegni. Certo che una sequenzialità costruita in questo modo è più debole di quella – assai più evidente e facilmente comprensibile – di una tradizionale sequenza di vignette! Ma nella prospettiva di queste storie a fumetti, una sequenzialità incerta può andare benissimo; anzi va meglio di una ben definita. Il tempo fermo, il leggendario, il meraviglioso possono costituire da soli (o quasi) una sufficiente ragione di interesse.
Guido Buzzelli, Magnus ed Enrique Breccia: tre autori non bonelliani che hanno interpretato Tex. L’analisi del loro lavoro sul ranger pare confermare uno degli assunti bonelliani fondamentali: la sceneggiatura è più importante del disegno.
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Ho sentito più volte Sergio Bonelli ripetere, in pubblico o in privato, l’idea che per lui il fumetto fosse una sorta di cinema adattato all’universo grafico della stampa. Non doveva pensarla diversamente nemmeno suo padre Gianluigi, tanto più che, all’epoca del suo esordio, i fumetti si chiamavano comunemente “cineromanzi”, e non solo Occhio Cupo ma anche il Tex che realizzava con Aurelio Galleppini illustrava egregiamente la sua idea: disegno naturalistico, situazioni da film western, abbondanza di dialoghi.
Poi, certo, il fumetto non è il cinema e gli autori di Tex lo sapevano benissimo: il disegno doveva essere naturalistico ma poteva essere sintetico, sopperendo con questa sintesi all’assenza della fotografia in movimento. La sintesi permetteva una lettura più rapida, e di conseguenza sosteneva un ritmo narrativo più rapido, più intenso; addirittura nei rari casi in cui la parola poteva raccontare in maniera più rapida dell’immagine, non si evitava di fare ricorso alle didascalie, che pure nel cinema non hanno spazio. Proprio costruendo questi ritmi narrativi stringenti poteva contare di ricostruire sulla pagina l’effetto cinema; e i dialoghi, pur rallentando un poco l’azione, contribuivano ugualmente a questa ricostruzione.
Era l’epoca del film western e pure l’epoca in cui il mito americano, non più ostacolato dalle remore del fascismo, poteva dilagare anche in Italia. Come dire che Tex non raccontava davvero il West; raccontava semmai, per disegni e dialoghi, il Western. Sergio Bonelli riferiva anche come fosse suo padre stesso il primo a stupirsi del successo duratura di Tex, quando altri personaggi che uscivano dalla sua fertile penna non raggiungevano spesso l’anno pieno di vita – e anche Occhio Cupo, che pure a Gianluigi era molto più caro, si fermò molto presto.
Difficile definire con certezza le ragioni del successo del personaggio. Quello che è certo è che Tex raggiunge presto una sua specifica modalità narrativa, che rimane sostanzialmente stabile dagli anni Cinquanta sino a oggi: quella che i suoi lettori imparano ad apprezzare e ritrovano mese dopo mese costantemente, identica o quasi pur nella variabilità delle storie. Ci sono situazioni ricorrenti, tipi di dialoghi o addirittura dialoghi specifici (pensate a quello che succede quando Tex e Kit entrano in un ristorante e fanno un’ordinazione), e soprattutto una costanza sostanziale nell’andamento narrativo. Anche attraversando la più complessa delle trame (che in Tex non mancano affatto) il lettore si trova sempre rassicurato dal fatto che le situazioni sono riconoscibili e pure lo sono le modalità della loro risoluzione: leggendo Tex, insomma, ci troviamo lontani, nel selvaggio West, ma siamo sempre ugualmente a casa.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Winsor McCay, “Little Nemo in Slumberland”, 24 febbraio 1907
Stavolta ritorniamo agli inizi, non solo perché Winsor McCay è stato un autore straordinario, ma perché la tavola qui a fianco (24 febbraio 1907) ci permette di fare alcune riflessioni sul rapporto tra pagina e racconto, o – se preferite – tra dimensione tabulare e dimensione sequenziale.
Quando uscì stampata per la prima volta, questa pagina era molto più grande di questa riproduzione, ma il tipo di esperienza vissuta del lettore non deve essere stata molto diversa da quella appena vissuta da voi (e sulla differenza torneremo tra poco). Quando siete entrati in questa doppia pagina, il vostro sguardo è certamente corso sulla grande immagine complessiva della pagina di destra, e l’ha colta nel suo insieme. Solo in un secondo momento – ammesso che l’abbiate già fatto – avete esplorato sequenzialmente le singole vignette, leggendo i testi, e cogliendo nel dettaglio la storia. Oppure (e comunque in un secondo momento) avete scorso la sequenza senza leggere i testi, e avete in ogni caso colto qualcosa della sequenza narrativa: l’arrivo al palazzo di Jack Frost, la preparazione, l’ingresso al grandioso interno (e il risveglio, come sempre in una vignetta piuttosto separata, alla fine, poco influente sull’effetto d’insieme).
Questa pagina è stata progettata da McCay per questo percorso visivo: deve prima colpire nel suo insieme, in modo che l’effetto prodotto dalla visione complessiva influisca sul modo in cui poi leggerete i dettagli. Se scorrete le annate di Little Nemo, vi accorgerete che questa strategia viene utilizzata, in maniera più o meno radicale, in tutte le tavole.
La pagina mostra al primo sguardo due strutture visive simili, in alto e in basso, separate da una striscia abbastanza omogenea dove dominano le linee verticali. Osservate, nella loro differenza, le analogie tra la figura del palazzo e quella del gigante di ghiaccio affiancato dagli orsi: sono entrambe forme a simmetria centrale, con un corpo di mezzo più alto, sottolineato da una retrostante figura semicircolare (l’alone luminoso di sopra, l’aureola e gli archi di ghiaccio di sotto). I colori non sono molto diversi, e in tutti e due i casi c’è una base all’incirca orizzontale sottostante, con figure umane in leggero squilibrio. Nella striscia di mezzo le linee verticali del fondo (di colori simili alle due immagini in alto e in basso) si sommano alle linee bianche tra le vignette; e su questa base si stagliano i colori più vivaci delle figure dei personaggi, che creano un ritmo visivo variato ma ugualmente coglibile.
Se sfocate un po’ la vista, potrete cogliere nella pagina una struttura complessiva a cupola: basamenti, pareti con accenni di colonne o nervature verticali, chiusura rotondeggiante in alto. Non c’è bisogno che ne siate consapevoli: l’effetto di architettura favolosa, di luogo straordinario, viene comunque impostato nel lettore ancora prima che inizi la lettura vera e propria. E naturalmente poi, quando la lettura sequenziale ha luogo, il lettore è certamente influenzata da quello che è già stato colto.
Ora pensate alla differenza che esiste tra vedere un paesaggio dal vivo e vederlo in fotografia. Parlo di un paesaggio degno di questo nome, naturale o urbano, quelli che non possiamo fare a meno di fermarci almeno per un attimo (e se possiamo, anche di più) in contemplazione; sapendo benissimo che nemmeno la migliore riproduzione, anche a 360 gradi, potrebbe restituirci quella stessa emozione. La differenza sta nel fatto che nel paesaggio ci entriamo, ne facciamo parte; alla fotografia stiamo invece semplicemente di fronte: un’esperienza immersiva è certamente più coinvolgente di una semplicemente frontale! Notate che non è un problema di dettagli: una buona foto ci può rendere gli stessi dettagli che vedremmo al naturale. Ma sappiamo benissimo che non ne facciamo parte, e che le stiamo di fronte, e non dentro: il coinvolgimento nei suoi confronti è inevitabilmente minore.
Tuttavia l’essere umano possiede l’immaginazione. A certe condizioni, un’immagine può essere vissuta in maniera più immersiva di altre. Non arriverà probabilmente all’emozione di un’immersione reale, ma potrà evocare comunque in qualche misura un’esperienza immersiva. Una di queste condizione, probabilmente la principale, è che l’immagine sia grande a sufficienza da poter riempire il campo visivo, o almeno da avvicinarsi a questa condizione.
Da questo punto di vista, l’edizione originale di questa pagina di Little Nemo aveva dei vantaggi rispetto a quella che vedete qui, e l’immersione evocata nel lettore poteva essere quindi ancora più forte. Notate che un’altra condizione è la presenza del colore, ma si tratta di una condizione molto più debole: diciamo che in bianco e nero la costruzione di un effetto immersivo è più difficile, ma ci sono autori (come Sergio Toppi) che ci riescono benissimo lo stesso.
Ora lasciamo un attimo da parte McCay, e pensiamo all’uso delle splash page (singole, o doppie) da parte di autori più vicini a noi: Jack Kirby o Jim Steranko per il fumetto USA, Philippe Druillet o Moebius per quello francese. Cosa succede quando, nel flusso del racconto, improvvisamente voltiamo pagina e ci troviamo di fronte a un’immagine unica, grande?
Be’ in verità succedono molte cose, anche dal punto di vista degli effetti di tensione e di ritmo, e di sottolineatura narrativa. Ma qui mi preme far notare come in presenza di quella immagine improvvisamente più grande, molto grande, la dimensione immersiva si manifesti e indicativamente ci porti, noi lettori, all’interno del mondo della storia. Lo fa magari per un attimo, e non sarà proprio come essere lì di persona: ma lo è molto di più di quanto non succeda in tutte le altre vignette della sequenza, sempre fruite in maniera decisamente più frontale.
Se poi l’immagine è al vivo, senza margini bianchi, tagliata solo dal bordo della carta, l’effetto potrà essere ancora più forte, perché viene cancellata una cornice, ovvero un dispositivo di distanza. Andatevi a rileggere The Dark Knight di Miller alla luce di queste riflessioni, e vedrete come una buona parte della strategia di coinvolgimento messa in atto dal bravissimo Frank si fondi proprio su un calibrato ritmo di situazioni immersive, basate sia su singole grandi immagini sia su architetture di pagina unitarie (nonostante la pluralità delle vignette) proprio come in questa tavola di McCay.
Non è nuova l’idea di raccontare un evento storico attraverso le vicende personali di qualcuno, in maniera che il lettore/spettatore gli si possa affezionare e quindi comprendere il senso degli eventi – entrando intensamente in loro – molto più di quanto non potrebbe lasciar capire l’arida cronaca dei libri di storia. Nel romanzo come nel cinema come nel fumetto si tratta di un espediente diffuso ed efficace, a patto che il narratore lo sappia condurre. Ecco che il nostro presente diventa il presente di quegli eventi, e una quotidianità che abbiamo riconosciuto sufficientemente familiare (nonostante la distanza storica o culturale) sfuma improvvisamente o progressivamente in qualcosa di molto diverso, l’evento storico riconosciuto.
Se si limitasse a questo, Pompei di Frank Santoro non sarebbe che un racconto come tanti, magari più delicato e sensibile di molti altri. Ma di narrazioni degli ultimi giorni di Pompei, anche impostate in questi termini, ne abbiamo in verità avute tante…
Il fatto è che qui c’è qualcosa di più. Fin dalla primissima pagina, ancora prima che si possa cogliere un qualsiasi senso del racconto, il disegno appare rapido, approssimativo; quasi più uno schizzo, uno storyboard – dove magari le linee imperfette non vengono cancellate, ma corrette, lasciando visibile l’imperfezione. Niente colori, ovviamente; tessiture per le ombre altrettanto rapide; un senso complessivo di provvisorio e di instabile.
Poi la storia inizia a definirsi: Marcus, il protagonista, è l’assistente di un pittore che sta per fare il salto di notorietà che potrebbe portarlo a Roma e alla fama. Marcus gli prepara i colori e lo aiuta per le parti secondarie dei dipinti; ma è costretto anche ad essere complice della tresca tra il pittore e una principessa, che deve essere nascosta ad Alba, fidanzata ufficiale e sospettosa. Anche Marcus ha una donna, Lucia, insieme con la quale è scappato da Paestum, dove non vuole più tornare: a Pompei vuole diventare un ritrattista come il suo padrone, per guadagnare i soldi per metter su famiglia con lei…
In collaborazione con Logos Edizioni, pubblichiamo la postfazione di Daniele Barbieri al volume L’uomo alla finestradi Lorenzo Mattotti e Lilia Ambrosi.
Ecco, caro lettore, sei arrivato qui. Sei passato, con il protagonista di questa storia, attraverso le voci di tre donne, e di altri tre uomini. Ciascuno, come lui, ti è apparso chiuso nel suo destino: Irene nel suo desiderio di maternità, il filosofo nella sua malattia, Aurora nella sua inconoscibilità di fondo, l’uomo della demolizione nella propria passione per le immagini, il professore nella sua lontananza, Miriade nelle sue storie e nella sua cecità. Solo il destino del protagonista sembra aprirsi un poco, alla fine, perché d’ora in poi sarà lui a raccontare a Miriade quello che vede.
Però non hai letto una storia triste. I sette personaggi di cui si intravvede la storia stanno vivendo, stanno sentendo, e tutto è intenso, tutto profondo. Ed è, in fin dei conti, tutto irreale – ma non meno vero per questo….
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Dino Battaglia, “Due amici”, 1976
“Due amici” è il racconto con cui, nel numero di agosto del 1976 di Linus, Dino Battaglia inaugura la serie che poi confluirà nel volume Maupassant. Si tratta di una decina di versioni a fumetti di racconti, per l’appunto, di Guy de Maupassant, scritti e ambientati nella Francia di fine Ottocento. “Due amici” ha inizio nella Parigi dei primi mesi del 1871, durante l’assedio prussiano; non è rimasto quasi nulla da mangiare; due amici si incontrano, e, grazie anche a qualche bicchierino di troppo, decidono di andare a pescare, nonostante la situazione, nel loro posto tradizionale, nella zona occupata dai prussiani. Ottengono il salvacondotto grazie a un’amicizia altolocata, e vanno. Dopo qualche ora di pesca, vengono sorpresi da una pattuglia prussiana. L’ufficiale cerca di estorcere loro la parola d’ordine per rientrare oltre le linee francesi, ma entrambi rifiutano di parlare, nonostante la minaccia di morte. Dopo averli fatti fucilare, l’ufficiale prussiano si fa cucinare il pesce da loro pescato.
Tutto il racconto di Maupassant è giocato sulla contraddizione struggente tra la bellezza della natura e l’orrore della guerra, un orrore sempre presente, anche se dapprima come uno semplice sfondo inquietante, e poi, di colpo, come un destino tragico. Battaglia enfatizza questa opposizione, mettendo in mostra una natura rigogliosa e fiorita, del tutto dimenticandosi di aver iniziato il racconto, seguendo le parole di Maupassant, con un “In una luminosa mattina di gennaio…”. Ma di questo attacco si dimenticano rapidamente anche i lettori, tanto fluida e genuina per lo sviluppo narrativo appare la costruzione del contesto naturale…
Del resto, guardiamo questa penultima pagina del racconto, che mostra la fucilazione dei due amici, e la loro sbrigativa “sepoltura”. Nella seconda e nella quarta vignetta, la tragedia si consuma tra le piante fiorite, in mezzo a una natura meravigliosa e indifferente, ma non per questo meno coinvolgente. Oppure, guardate nella prima vignetta, in cui il corpo del Signor Morisot sembra quasi prendere radici al contatto col suolo, o comunque mescolarsi con l’erba. O guardate la terza, nella sua inconsueta verticalità, in cui tutto lo spazio in basso descrive sì un riflesso (tranquillo e meraviglioso a sua volta) ma anche, insieme, un’insondabile profondità, come quella della morte.
Ho lavorato più volte su un tema che nell’arte grafica di Dino Battaglia riveste una particolare importanza, quello dell’uso del bianco. Come si vede bene anche in questa pagina, il bianco può assumere qui ruoli diversi, e anche combinarli o mescolarli. Può essere un colore, come – in parte – nel corpo del Signor Morisot, o come nei cieli. Ma può essere anche un’assenza, di colore e di altro, come nello stesso corpo di Morisot, o come nel terreno sotto il cadavere di Sauvage nella seconda vignetta. Infine può essere una distanza, un distacco, una separazione, quale è normalmente lo spazio bianco tra le vignette, ma che qui ha una dimensione variabile e un valore sia narrativo che plastico. In aggiunta, può essere anche il semplice fondo-pagina su cui si stagliano le parole nelle didascalie e nei balloon.
E partiamo da queste ultime parole. Di quattro cartigli presenti sulla pagina, tre sono incorniciati e solo uno è liberamente steso sul fondo pagina, Questo uno, benché chiaramente relativo alla seconda vignetta, ne è più largo, e non si lascia iscrivere in un rettangolo ideale. Questo è tanto più significativo perché, come si vede bene in questa pagina, il lettering di Battaglia è attentamente coerente con lo stile del tratto dei disegni: parole e figure, insomma, appaiono formate della stessa materia. La prima e la quarta vignetta sono in parte senza cornice, ed è la posizione della cornice del cartiglio a definirne i limiti spaziali. La terza vignetta, quella lunga, è invece interamente incorniciata, e include il cartiglio, il quale, a sua volta, entra visivamente nell’alternanza delle aree chiare e scure, contribuendo a costruire una sorta di ritmo, all’interno del quale emerge la nota assai più lunga delle altre del riflesso nell’acqua, secondo la sequenza bianco (il cartiglio), nero (il bosco), bianco (il terreno coi soldati e il riflesso di tutto questo), neeeero (il riflesso del bosco), bianco (il riflesso del cielo). È grazie a questo ritmo alterato che il riflesso del bosco appare così profondo, alludendo a quella profondità da cui vengono i pesci (i doni della natura ai due amici) e a cui stanno per approdare i corpi martoriati.
Ma il cartiglio della seconda vignetta appare libero, e del tutto non inquadrato, né in maniera assoluta come quello della terza, né in maniera relativa come gli altri due. Anche qui c’è un’alterazione ritmica: un elemento libero tra elementi vincolati. Questo elemento libero è accostato alla vignetta che si trova tagliata dalla cornice nella maniera più drastica: mentre nelle altre tre i blocchi dei corpi descrivono la scena interamente, e la descriverebbero allo stesso modo anche se la cornice fosse meno definita, la cornice della seconda vignetta è essenziale per focalizzare solo i dettagli dei corpi caduti, dietro gli steli dei fiori in primo piano. E sono gli steli, qui, che potrebbero fare a meno della cornice, come se fossero loro i protagonisti – ed è in realtà questa l’allusione di Battaglia, fedele interprete dello spirito di Maupassant: la bellezza della natura resta, vince, a dispetto della malvagità dell’uomo e dell’orrore della guerra. E forse quella didascalia lì sopra è libera proprio come sono liberi quei fiori, si allarga sulla pagina, non possiede un confine che la debba definire.
Del resto il bianco come distanza è in Battaglia non solo un prezioso elemento di equilibrio grafico della pagina nel suo insieme, ma anche la materia stessa del flusso narrativo. È ciò che scandisce il ritmo, ora allargandosi, ora restringendosi, ora confondendosi del tutto o in parte con i bianchi interni delle vignette. Il bianco, quando non è un colore, rappresenta comunque un’assenza, che sia l’assenza (momentanea) di racconto (quella tra le vignette, quella che qualifica inesorabilmente il loro ritmo), o che sia l’assenza di definizione descrittiva. A differenza del cielo, che è bianco perché è chiaro, il corpo di Morisot nella prima vignetta è bianco perché egli ha già perso la vita, è già entrato nell’assenza di definizione della morte. Sauvage, sopra di lui, è ancora vivo, benché traballante, e il bianco sta invadendo pure lui. La processione, bianca, della terza vignetta si svolge evidentemente nel silenzio, cioè nell’assenza di definizione sonora; mentre il colore scuro ritorna nella quarta, dove lo splash nell’acqua è forte anche se non viene scritto sulla pagina. Del resto è silenzioso il cielo, ogni volta che appare (anche nel riflesso della terza vignetta), ed è silenziosa la terra sotto i fiori nella seconda, e anche nella quarta, nell’angolo a sinistra – e qui lo sarebbe pure il fiume (come nella terza) se non venisse turbato dai segni grafici che descrivono lo spruzzo.
Il nero, in queste pagine di Battaglia, ha un ruolo minore, ma ha comunque rilievo. Nella prima vignetta, quel terreno nero appena screziato di bianco in cui cade il corpo di Morisot rinvia chiaramente alla morte. Così incorniciato appare già quasi un sepolcro, e la scarsa definizione del margine inferiore della figura bianca, se da un lato può essere vista come dovuta alla presenza dell’erba, dall’altro fa sembra che quella figura stia continuando indefinitamente a precipitare, senza fermarsi – mentre, in alto, il corpo già instabile di Sauvage si prepara al medesimo viaggio. Anche nella terza vignetta, il nero del bosco è il nero del mistero, il nero misterioso della grandiosità della natura – di cui anche la morte fa parte.
Resta solo da domandarsi se qui sia il nero o se sia il bianco a inquietare di più. Comunque rispondiamo, Battaglia ha già vinto abbondantemente la sua gara.
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