Ovunque tu sia, da qualche parte nella zona, qualunque sia la tua città invisibile, lì c’è un cimitero ebraico. Restiamo in tema cimiteriale, dopo la scorsa settimana – e anche qui, come là, nella foto c’è un interno, in basso, sovrastato dall’esterno, dietro, in alto. Un po’ diverso, senza dubbio, da quello della volta scorsa.
A Finale Emilia, dove sono nato, e poi ritornato per lunghi periodi da giovane, ce n’è uno bellissimo; come anche ad Ancona, in cima alla collina a strapiombo sul mare. Hanno sempre un’aria strana, misteriosa, come se insieme appartenessero e non appartenessero al luogo in cui sorgono.
Un fascino simile, tra i nostri, ce l’ha solo, un poco, il Cimitero degli Inglesi, quello che sta a Roma vicino alla Piramide; quello di Shelley, e delle ceneri di Gramsci, con tanto di spettro di Pasolini che si aggira. Ce l’ha forse, perché anche quello è un cimitero che a noi appare anormale, differente, stranamente fuori posto.
Questo specifico cimitero ebraico, qui nella foto, non avrebbe in sé niente di particolare. Sarebbe forse anche meno affascinante degli altri, se non fosse per il luogo in cui si trova, così lontano da essere sorprendente, e quindi anche sorprendentemente fuori luogo.
Sembra che gli ebrei siano arrivati qui ai primi del sedicesimo secolo, ma venivano da poco lontano (dove avevano litigato con il signore locale). Lì, però, ci abitavano già da oltre 1400 anni, cioè dall’epoca della diaspora. È questo che io continuo a trovare stupefacente: millequattrocento anni (e poi altri cinquecento) e sono ancora distinti, riconoscibili, differenti. Sono arrivati sin qui, in questo universo alieno, in questo altro mondo, e hanno continuato protervamente a essere loro.
Non mi stupisce che persino i loro cimiteri mi comunichino insieme familiarità e differenza. Provengono non solo da un altro luogo, ma anche da un altro tempo. E appaiono irreali anche quando ci sei dentro, li tocchi, li respiri.
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