L’immagine contro il soggetto. Due graphic novel contemporanee.
Daniele Barbieri
È difficile pensare a due graphic novel più differenti tra loro di Atto di Dio, di Giacomo Nanni (Rizzoli Lizard), e Hasib e la Regina dei serpenti, di David B. (Bao), entrambe uscite negli scorsi mesi. Eppure, sotto a questa evidente diversità, di temi come di modi, si nasconde un progetto comune, che in ambedue i casi sottolinea la radicale diversità tra il raccontare a fumetti e il classico raccontare a parole, come si fa nel romanzo, e anche tra il raccontare a fumetti e il raccontare audiovisivo, come si fa nel film.
Atto di Dio è una successione di eventi che potremmo definire quasi-non-storie, raccontate da voci narranti che non sono mai umane, e quindi impossibili: il capriolo smarrito, la montagna, la carabina, il terremoto, il piccolo crostaceo. Le immagini sono sgranate, colorate con un retino troppo grosso e spesso evidenti rielaborazioni da originali fotografici: riferimento sufficientemente evidente a sguardi che non appartengono a nessuno, oggetti pubblici, visioni da quotidiano o da rotocalco – ulteriormente allontanate da una qualsiasi soggettività dall’elaborazione straniante cui sono state sottoposte. L’evento principale a cui si lega il titolo della storia, cioè il terremoto nelle Marche, e in particolare sui Monti Sibillini, finisce per annegare in questa naturalità straniata dal contrasto tra una non-soggettività naturale e una falsa soggettività massmediatica.
Hasib è invece la narrazione a fumetti di un estratto da Le mille e una notte, in cui Sheherazade racconta, tra la notte quattrocentottantadue e la quattrocentonovantotto la miracolosa storia di Hasib, che incontra la Regina dei serpenti, la quale gli racconta la storia del re Buluquiyya, il quale, nel corso delle proprie avventure, sempre intrecciate con la vicenda della medesima Regina, incontra a sua volta il Principe Janshah, che si sta lasciando morire sulla tomba dell’amata, e racconterà pure lui la propria vicenda. Questa organizzazione narrativa a scatole cinesi è certamente parte del fascino della raccolta di fiabe arabe, intesa com’è a portare il lettore sempre più in là, sempre più addentro nel mondo favoloso del mito (come già capì bene a suo tempo Pier Paolo Pasolini, girando la propria celebre versione cinematografica). E la medesima immersione senza scampo viene riproposta qui dai disegni di David B., sospesi tra schematizzazione grafica e continua invenzione visiva, dove l’elemento narrativo si intreccia continuamente con una sorta di sontuosa decoratività, con riferimenti all’immaginario visivo di quella parte dell’Islam che non ha mai rinunciato alle figure, dall’Iran in poi procedendo verso Est….
Ho trovato in un aforisma di Nietzsche la chiave per capire il metodo compositivo di Amelia Rosselli, e la relazione tra quel metodo e il problema dell’io, anzi della sua riduzione. Ecco le parole di Nietzsche (da Il crepuscolo degli idoli, La “ragione” nella filosofia, 5, trad. Mirella Ulivieri) :
Il linguaggio appartiene, secondo la sua origine nel tempo, alla forma più rudimentale di psicologia: se prendiamo coscienza dei presupposti fondamentali della metafisica del linguaggio — in parole più chiare, della ragione — penetriamo in un rozzo feticismo. Esso vede ovunque autore e atto: crede nella volontà come causa in generale; crede nell’«io», nell’io come essere, nell’io come sostanza, e proietta la fede nell’io-sostanza su ogni cosa — solo così crea il concetto di «cosa»… L’essere viene penetrato col pensiero, interpolato ovunque come causa; solo dalla concezione dell’«io» segue, come derivato, il concetto di «essere»… […] La «ragione» nel linguaggio: oh, che vecchia donnaccia ingannatrice! Temo che non ci libereremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica…
L’inganno del linguaggio, secondo Nietzsche, starebbe proprio nella separazione tra soggetto e oggetto, intesi come sostanze diverse, l’una dotata di volontà e ragione, l’altra inerte, ma non per questo non dotata di essere, e interpretabile causalmente. Il (nostro) linguaggio sarebbe il principale perpetuatore di questa prospettiva: dall’idea di io nasce quella di essere, che è a sua volta alla base dell’idea di Dio. Dio, essere e io non sono che conseguenze della (nostra) grammatica, ovvero della (nostra) ragione.
Prendiamo ora un frammento molto citato della prefazione di Alfredo Giuliani all’antologia I Novissimi (1961):
Ovviamente, l’inclinazione a far parlare i pensieri e gli oggetti dell’esperienza è un atto individuale, di me che scrivo e che non voglio affatto nascondere la mia soggettività. La “riduzione dell’io” è la mia ultima possibilità storica di esprimermi soggettivamente […]. Ora, però, dalla parte dell’oggetto, che è ancora penetrabile e pronunciabile senza falsità, si svolge una poesia che, secondo la “qualità dei tempi”, cerca l’unità di visione e quindi il recupero di quel medesimo io prima ridotto metodicamente. Dialettica, se vogliamo, dell’alienazione. (pp. 22-23 dell’edizione Einaudi 1965)
Se rileggiamo Giuliani alla luce dell’aforisma di Nietzsche, ci accorgiamo che la (comunque problematica – anzi, dialettica) riduzione dell’io continua a svolgersi in una prospettiva di rapporto tra soggetto e oggetto, solo che – a differenza che nella lirica tradizionale – è l’oggetto a trovarsi in primo piano. Del resto, poche righe prima, Giuliani aveva scritto anche che:
Troppo frequentemente, nelle poesie che vorrebbero essere le più aliene dall’intimismo, l’io si nasconde con orgoglio e pervicacia dietro una presunzione di oggettività. Le apparenze, come di solito, ingannano. In realtà – e ciò spiega perché diamo importanza a un certo orientamento metrico – il tono non solo fa la musica del discorso, ma ne determina l’operatività, il significato. Così la riduzione dell’io dipende più dalla fantasia linguistica che dalla scelta ideologica. (p 21)
È quindi l’oggettività ciò che andrebbe cercato in vista di una riduzione dell’io. Ma se seguiamo Nietzsche, l’oggettività non è che una conseguenza di un’organizzazione del linguaggio basata sull’io-ragione-grammatica: nella negazione apparente della soggettività, dunque, l’oggettività non farebbe che riproporla surrettiziamente, rimettendo in campo – proprio con il cercare di escluderlo – il soggetto attraverso l’oggetto che esso crea, e che insieme lo crea, perché soggetto e oggetto (e dunque soggettività e oggettività) escono dalla stessa matrice linguistica.
Di più, la teorizzazione stessa di Giuliani, che coinvolge nella stesura di riflessioni critiche anche gli altri autori dell’antologia, e che poi, come bisogno di teoria, caratterizzerà fortemente l’operare della futura neo-avanguardia, è un’operazione progettuale, e, in quanto tale, un’operazione che si basa su quella volontà che Nietzsche vede alla base del processo di organizzazione dell’essere in soggetti (che possono volere) e oggetti (che non hanno volontà). In altre parole, la preoccupazione critica medesima di Giuliani lo porta di per sé in direzione contraria a ogni possibile riduzione dell’io, come lo porterà (lui e i suoi compagni di viaggio dal ’63 in poi) ogni concezione progettuale dell’agire poetico.
Si noti che il problema di Giuliani (la riduzione dell’io) è importante, ed è importante anche l’apparato critico-esplicativo con cui la nuova avanguardia nasce. Il problema è che si tratta di due strade incompatibili, quasi opposte se seguiamo la prospettiva nietzscheana…
Quando leggo François Jullien mi trovo frequentemente in convergenza col suo pensiero, riconoscendo comunque in lui l’invidiabile vantaggio di poter basare le proprie riflessioni su duemilacinquecento anni di pensiero cinese, nella sua fondamentale diversità dal nostro. L’assunto (wittgensteiniano) di base delle osservazioni di Jullien è che ciò che ci è troppo vicino, ciò che è alle basi stesse del nostro pensiero, ci sia per questo stesso motivo invisibile; ma che la sostanziale diversità del pensiero cinese (al di là del suo maggiore o minore valore rispetto al nostro, che non è in questione) ci può servire proprio come punto di vista esterno, dal quale vedere il nostro modo di pensare con maggiore chiarezza (e anche viceversa, ovviamente – però questo ci interessa di meno). Si tratta di un’operazione non così dissimile da quella che compiva a suo tempo Michel Foucault, cercando il proprio punto di appoggio in quell’altrove che sono le altre epoche storiche, ciascuna con il proprio episteme. Ma, proprio in questi termini, il punto di appoggio di Jullien si rivela più efficace di quello di Foucault, perché ci permette di cogliere la relatività culturale di nozioni che condividiamo con Platone e/o con Aristotele, al di là della (comunque presente) variazione storica che esse hanno subito.
Si tratta di un numero non piccolo di nozioni cruciali, e altrimenti difficilmente pensabili, perlomeno in termini filosofici, poiché rappresentano spesso proprio ciò che in Occidente è rimasto impensato da parte della ragione, a vantaggio delle nozioni che sono state poi effettivamente sviluppate. Queste nozioni di origine o ispirazione cinese si trovano argomentate nei numerosi libri che Jullien ha pubblicato negli ultimi vent’anni, ma anche molto utilmente raccolte nel suo ultimo: De l’Être au Vivre. Lexique euro-chinoise de la pensée (Gallimard 2015). Proprio perché si tratta di una sorta di lessico (filosofico), il libro è organizzato per coppie oppositive, dove a un termine sviluppato dal pensiero cinese si oppone quello che ha avuto successo in Occidente: propensione (vs causalità), potenziale di situazione (vs iniziativa del soggetto), disponibilità (vs libertà), affidabilità (vs sincerità) ecc.
Non è mia intenzione qui fare un rendiconto dei contenuti del volume, cosa che sarebbe davvero difficile, visto che si tratta a sua volta di una sorta di compendio di vent’anni di riflessioni in trenta altri volumi. Mi limiterò a concentrarmi su tre coppie oppositive, e sulle conseguenze che la loro presa in carico da parte del pensiero occidentale può avere sulla riflessione sul testo poetico e sulla critica che lo riguarda:influenza (vs persuasione), coerenza (vs senso), connivenza (vs conoscenza).
La struttura della lingua cinese non permette l’oggettivazione dell’essere. Il pensiero tradizionale cinese è quindi estraneo ai concetti di ente e di essenza che sono stati, da Aristotele in poi, alla base del pensiero filosofico e teologico occidentale…
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