Del verso di Adriano Spatola, nel 1966

Adriano Spatola, da "L'ebreo Negro" (1966), oggi in "Le poesie", Edizioni delle poesie di Adriano Spatola, 2012

Adriano Spatola, da “L’ebreo Negro” (1966), oggi in “Le poesie”, Edizioni delle poesie di Adriano Spatola, 2012

Dobbiamo ringraziare gli amici e i lettori di Adriano Spatola se dal 2012 è possibile finalmente leggere le sue poesie, prima disperse in vari opuscoli e riviste, di fatto introvabili. L’edizione è fuori commercio, ma è stata inviata “nelle principali biblioteche comunali dei capoluoghi di provincia e nei dipartimenti universitari di Italianistica e Letteratura Contemporanea”. Il libro ha una copertina terribile, una rilegatura decisamente al risparmio, e non mancano i refusi; ma, ugualmente, è bellissimo sapere che c’è, e che lo si può leggere, e che le poesie di Spatola hanno qualche chance in più di non essere dimenticate.

Tra l’altro, attraverso questo libro ho scoperto l’esistenza del sito di Maurizio Spatola, fratello di Adriano, che è un prezioso magazzino di documenti scansionati e registrati sulla neoavanguardia italiana, le sue pubblicazioni, le sue performance.

Riporto qui questo componimento dei tanti che mi hanno colpito, con poche osservazioni di lettura, come un omaggio, ora possibile, a Spatola e alla sua poesia.

Mi colpisce, di questi versi, la poetica degli oggetti, oggetti piuttosto crudi, duri, violenti, ancora più che in Antonio Porta, che ne è forse il riferimento più prossimo.

Mi colpisce il gioco della ripetizione, questo ritornare variato delle formule, questa struttura che mi ricorda (alla lontana) quella della sestina della poesia classica italiana, con il suo inevitabile girare intorno ai medesimi concetti – mentre qua il giro si trova ogni volta leggermente arricchito, un po’ perché i concetti si combinano in maniera ogni volta un po’ diversa, un po’ perché ad ogni giro qualche concetto nuovo si aggiunge a complicare il gioco.

E mi colpisce, soprattutto, l’andamento ossessivo, fortemente accentuale, dei versi, dove ogni verso è in sé concluso, senza non solo enjambements, ma nemmeno continuità frastiche tra l’uno e l’altro, quasi un lungo elenco di osservazioni – con sequenze di versi caratterizzate dal medesimo numero di accenti (alla maniera germanica antica), e poi variazioni metriche che sottolineano variamente nuove combinazioni…

Sembra di ascoltare un litania, una litania triste e terribile, un po’ straniata, di immagini/oggetto cupe ed evocative, una sequenza in cui gli accenti non sono quelli del racconto, ma quelli di una strana liturgia. Bisogna immergervisi dentro senza paura; leggere ad alta voce dall’inizio alla fine; ascoltare il respiro; ascoltare le immagini; respirare con i versi; respirare con questo strano senso del male.

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di Daniele Barbieri

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