Recensioni d’annata, 1992. Snoopy, il fantastico fatto a bracchetto

Snoopy, il fantastico fatto a bracchetto
Il Sole 24 Ore, 25  ottobre 1992

Giocatore di hockey, tennista di grido, esploratore, romanziere, pilota della Grande Guerra, avvoltoio, serpente a sonagli: il bracchetto Snoopy è tutto tranne quello che dovrebbe essere. Come cane da guardia non è senz’altro da raccomandare, ma come personaggio di comic strip è probabilmente quanto di più riuscito il nostro secolo abbia prodotto.

Sono in questi giorni quarantadue anni che il fantasioso bracchetto è uscito per la prima volta dalla penna di Charles Monroe Schulz: le prime strisce dei Peanuts comparvero infatti sui quotidiani americani nell’ottobre del 1950. Non era previsto che si chiamassero così: il nome doveva essere Li’l folks, “Piccola gente”, ma qualcuno cui Schulz aveva presentato la striscia commentò “Sembrano noccioline”; e così si chiamarono: “noccioline”, “peanuts”.

Il successo di questo comic, che raccontava di bambini con trasfigurati problemi di adulti, fu notevole sin dall’inizio. In un’America in cui la psicoanalisi incominciava a furoreggiare, la striscia di Schulz faceva sorridere dei luoghi comuni della quotidianità, e delle debolezze di ciascuno. Il mondo di bambini che vi veniva rappresentato era scopertamente una metafora del mondo degli adulti, ma permetteva al racconto di rendere palese quello che nella vita è implicito, attraverso l’ingenuità comunicativa (ma niente affatto psicologica) dei suoi personaggi. In altre parole, Charlie Brown, Linus, Lucy e compagnia erano dei bambini con la psicologia dei grandi e la facilità comunicativa dei piccoli.

Ma i Peanuts del 1950 erano ancora piuttosto diversi da quelli di oggi. Al posto dello stile grafico un poco tremolante e dalle linee essenziali che ben conosciamo tutti, c’erano delle linee perfette e curate, un po’ fredde nella loro regolarità. E poi Snoopy era quasi irriconoscibile: molto più cane di quanto non sia ora, nel 1950 Snoopy era davvero un cucciolo di bracchetto, impegnato a correre dietro alle persone e a recuperare bastoncini, senza il minimo accenno di fantasia simil-umana.

Lo Snoopy che conosciamo noi si forma piano piano durante gli anni cinquanta, ed è già del tutto lui quando i Peanuts sbarcano in Italia. Siamo nei primi anni sessanta, all’epoca della pubblicazione dei libri di Charlie Brown da parte delle edizioni Milano Libri. A testimoniare l’importanza che venne data sin dall’inizio a queste pubblicazioni potrebbe bastare l’introduzione di Umberto Eco al primo volume, introduzione poi ripresa per un famoso articolo in Apocalittici e integrati. Qualche anno dopo, poi, un’edizione Mondadori delle strisce di Schulz sarebbe stata titolata Il bambino a una dimensione, con evidente riferimento (e niente affatto a sproposito) all’opera di Herbert Marcuse.

Le problematiche di interazione psicologica ironicamente affrontate nei Peanuts trovarono presto un discreto terreno in Italia, ma il personaggio che in quegli anni godeva della massima attenzione non era Snoopy, bensì il frustrato Charlie Brown. Negli anni dell’esistenzialismo e dei primi fermenti della sinistra non storica, Charlie Brown era lo specchio in cui ciascuno poteva veder riflessa la propria epocale incapacità di vivere: un sentimento che era allora molto di moda.

Nonostante questo, la rivista che nacque nel 1965 si chiamò Linus, e non Charlie Brown. Contribuirono sicuramente alla decisione anche ragioni di semplicità del nome, ma non si può trascurare il ruolo fondamentalmente positivo e ragionevole che il personaggio Linus gioca nel mondo di Schulz. Era forse già scritto in questa scelta che qualche anno più tardi la rivista Linus sarebbe passata dall’intellettuale proposta di fumetti del presente e del passato, alla critica politica impegnata e a una quasi militanza nella sinistra giovanile degli anni settanta.

Snoopy in tutto ciò non è mai stato marginale, ma la sua dimensione fantastica e dolcemente demenziale si trovava forse un po’ fuori sintonia con le tendenze di quegli anni. Il mondo di Snoopy è un mondo a parte persino all’interno del mondo dei Peanuts: della “poesia ininterrotta” (definizione di Eco) che caratterizza la narrazione dei Peanuts, le vicende di Snoopy sono un po’ la parte da teatro dell’assurdo, da “deragliamento dei sensi”. Sul palcoscenico della striscia, dove si alternano illusioni e frustrazioni (tutte filtrate attraverso una luce ingentilente e ironica che le spoglia dell’angoscia senza vuotarle di significato), Snoopy è l’unico a non conoscere né le une né le altre.

Il suo fascino è quello di vivere un’illusione così perfetta da non patire alcun confronto con la realtà, col risultato di non essere nemmeno più vera illusione. Nulla può distogliere Snoopy dal suo mondo irreale, perché tutto quello che gli succede viene subito tradotto nei suoi termini, ed entra immediatamente a farne parte: deludere Snoopy è impossibile. Snoopy incarna la fuga dalla realtà, è il fantastico fatto bracchetto.

Oggi, anni novanta, è ormai da tempo che Snoopy rappresenta il personaggio-simbolo dei Peanuts, quello che più di tutti incarna lo spirito di Schulz, quello più amato dal grande pubblico. Giustamente perciò la mostra che celebra il quarantennio dei Peanuts è intitolata a lui. Dopo essere stata, in forma molto più ridotta, a Parigi, la mostra “Il mondo di Snoopy” è approdata a Roma, presso lo Spazio Flaminio, dove è stata inaugurata venerdì 16 ottobre.

Non vi si trovano soltanto le tavole originali di Schulz (e l’autore in persona, almeno sino a ieri), che ne costituiscono comunque il cuore. Ad esse si aggiungono molte altre sezioni, tra cui quella che contiene una serie di omaggi a Snoopy da parte di pittori, architetti, designer e fumettisti, quella con la sfilata di moda per Snoopy, un’aula didattica con brevi lezioni sulla comunicazione, una mostra del merchandising di Snoopy (un aspetto del successo di Schulz da non trascurare), film, interviste registrate, videogiochi… Un mondo di Snoopy che non è solamente il mondo suo, interiore, ma anche tutto quello, esteriore, che si è sviluppato col tempo e che ha contribuito a fare del bracchetto fantasioso un mito di oggi, il mito del bambino che può permettersi di non crescere mai, persino quando un intero universo ruota attorno a lui.

La mostra è organizzata dal Gruppo Prospettive, di Roma, e conta prestigiose collaborazioni di enti e persone. Resterà aperta sino al 17 gennaio. Tappe successive in Italia Milano e Venezia, poi Europa e Stati Uniti.

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Grazie Charlie

Schulz, Peanuts, 1972

Schulz, Peanuts, 1972

Mi rattristo (con mio figlio) per la fine di Magico Vento. Mi entusiasmo per quasi ogni Moebius. Ho difeso il Dylan Dog dei tempi migliori. Quasi ogni numero di Julia lo commento con mia moglie. Continuo a pensare che alcune strisce di Mafalda a volte siano importanti almeno quanto i libri minori di Marx. Ancora mi commuovo per Alack Sinner. Se vedo un salame caduto in terra non penso a uno chef distratto ma voglio credere che sia passato di lì Jacovitti (dimostrazione che a volte i reazionari sono sovversivi). Come ogni giornalista anche io per un certo periodo ho creduto di essere Clak Kent… e voi capite di cosa sto parlando vero? Non è un uccello e neppure un aereo. Uno dei miei maestri di sarcasmo è Curls. Se provassi a indossare – non lo farò – gli orrendi panni dei militari argentini… capirei bene perchè diedero la caccia agli autori dei migliori fumetti. Altan a volte è il mio biglietto da visita ma ogni tanto potrebbe essere Pazienza. Passano gli anni ma Ellekappa resta divina ma la Bretecher scordar no, no, non si può. E quando facevo volantini politici ho usato persino Tex (ehi Rocco ti ricordi?). Di continuo scopro, riscopro, capisco in ritardo, uso, godo, consiglio, inquadro meglio, rileggo – o qualche volta detesto – fumetti, nuvole disegnate, le diversamente scritte storie.
Tutto questo non sarebbe stato possibile se un giorno in edicola non avessi visto spuntare una rivista che si chiamava Linus. Se non mi fossi subito innamorato in primo luogo di quella coperta, della ragazzina con i capelli rossi, del povero Ciccio (Brown), del cane più pazzo mai visto, della Lucy “psichiatra” e pertfida come di tutto il resto della banda di Schulz. Grazie Charlie (non Brown ma il papà di tutto)
Io sono nato il 3 ottobre 1948 mentre la prima striscia di Charlie Brown  usciva il 2 ottobre 1950. Siamo quasi coetanei ma soprattutto due bilance. Dunque te lo chiederò schiettamente Charlie: anche tu hai un omonimo che ti perseguita?

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Questo post è stato indubbiamente scritto da Daniele Barbieri, però non da me (credo).
Il mio post per il compleanno dei Peanuts si trova, in via eccezionale, qui, sul blog di Daniele Barbieri (con auguri di buon compleanno anche a lui – dopodomani, però).
Ovviamente, c’è un’altra ipotesi: esiste un danielebarbieri iperuraneo, che è l’idea platonica di tutti i danielebarbieri terreni. Se date credito a questa ipotesi, allora ambedue i post (iperuranei) li ha scritti lui.

P.S. Il db che scrive in questo blog celebrerà pubblicamente il compleanno dei Peanuts domenica 3 ottobre alle 18.30 a Milano, al teatro Tieffe Menotti (ex Teatro dell’Elfo) in via Ciro Menotti 11, insieme a Fulvia Serra, Sergio Staino, Annamaria Gandini, Bruno Cavallone (primo traduttore dei Peanuts) e Alessandro Brambilla (curatore dell’archivio di Gandini).

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Di Charles M. Schulz e dei Peanuts

Appartengo a una generazione che ha avuto un rapporto controverso con l’opera di Charles M. Schulz: da un lato non si poteva non riconoscere il grande talento, la sottigliezza e la delicatezza, e insieme la profondità, con cui costruiva il suo mondo. Dall’altro, i nostri miti erano altrove.

Ben ricordo quando, sul finire dei Settanta o nei primi anni Ottanta, Oreste del Buono si scandalizzò per un’affermazione di Renato Giovannoli, il quale diceva (mi pare) qualcosa come: che i Peanuts erano una metafora della vita, mentre Doonesbury centrava la nostra condizione contemporanea, e per questo lo preferivamo. Giovannoli, all’epoca, voleva certamente essere provocatorio; ma la sua provocazione riguardava un po’ tutti noi giovinastri, che ci sentivamo rappresentati al momento più da Trudeau che da Schulz.

Il motivo di tutto questo, io credo, non riguardava tanto chi fosse più bravo tra Schulz e Trudeau, ma, molto più banalmente, che Schulz rappresentava per noi i nostri padri (quelli intelligenti), e noi comunque dovevamo distaccarcene.

A tutt’oggi continuo a percepire i Peanuts come un lavoro perfetto, così completo, coerente, coeso, che quasi non lo si può toccare. Continua a ergersi davanti a me come la norma che definisce il fumetto ideale, così ideale che fatico anche a parlarne, perché non si può parlare che per differenze, ed è rispetto a Peanuts che si definiscono le differenze di tutti gli altri.

E’ ovvio che non è così, e che il lavoro di Schulz si basa su un’ossessività e un minimalismo che lo tengono ben lontano dalla monumentalità. Quando mi immergo nella lettura delle sue strisce, è comunque un piacere. Ma quando ci penso in astratto, quello che prevale è questo senso di intoccabilità. Forse, benché se lo sia meritato, Schulz è stato davvero troppo celebrato.

O forse è stato troppo celebrato dalla generazione dei miei padri; e Freud ci insegna che non si finisce mai di ucciderli – tantopiù quanto più li si ama.

Charlie Brown ha sessant’anni. Domani Eco lo celebra insieme alla moglie di Schulz. I miei migliori auguri al mito dei miei padri dentro cui sono cresciuto anch’io!

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