Di un anno di blog

Compie un anno oggi, questo blog, con 161 post pubblicati (questo incluso). Considerando che i miei post sono tendenzialmente verbosi, è come se avessi scritto un libro di oltre 200 pagine, forse anche 300.

Quando l’ho aperto ero pieno di dubbi sul fatto che un blog senza un argomento preciso, ma piuttosto una piccola costellazione, anche un po’ aperta, di argomenti, potesse funzionare. Adesso so che funziona, perché ho molti lettori e molte citazioni per tutti i diversi temi di cui mi sono occupato.

Tenere un blog è impegnativo. Per uno come me, che scrive con facilità, la difficoltà principale sta nel decidere su che cosa scrivere. È fantastico quando il tema ti si presenta, come ispirazione, bell’e pronto su qualche altro blog – ma non sempre succede.

Rispetto allo scrivere per un giornale, una rivista, il bello del blog è che non hai regole di formato: puoi scrivere poco o puoi scrivere molto. Non devi restringere o allungare la broda per adeguarti alle esigenze editoriali. A ogni argomento si può dedicare davvero lo spazio che merita.

Credo di avere fatto una scelta difficile, quella di utilizzare lo strumento del blog per discutere soprattutto argomenti teorici, anche concettualmente impegnativi. Mi domando spesso se il buon numero di accessi quotidiani che ho corrisponda a letture effettivamente fatte di quello che io scrivo. Certamente molti lettori arrivano per caso. Per esempio, da quando ho inserito alcuni post sui nudi di Edward Weston, un discreto numero di visite mi arriva tutti i giorni attraverso ricerche sul nome di Weston, o sulla parola “nudo” o “nude” (che in italiano è un femminile plurale, ma in inglese è un singolare). Continuo a non capire come arrivano qui quelli che cercano “casalinghe nude”, ma probabilmente la parola casalinghe è stata usata in qualche post, magari come aggettivo…

I post, come avevo già ipotizzato quasi un anno fa, sono una specie di aforisma, se vogliamo ricollegarli a un genere classico. A differenza degli aforismi veri e propri vivono comunque di quotidianità; il che non vuol dire che debbano fare riferimento ai fatti del giorno, ma c’è sempre un qualche legame almeno con le discussioni che sono nell’aria.

Il mio maggiore rammarico è quello di ricevere pochi commenti. Posso osservare che tra i post più commentati ci sono quelli in cui ho espresso dei dubbi o ho dichiarato di non capire qualcosa. Questo mi lascia pensare che i commenti non ci sono perché quello che dico viene sentito come troppo assertorio e difficilmente commentabile; io non lo sento così: a me sembra di esprimere sempre e soltanto la mia (meditata e articolata) opinione, e sono ben contento di discuterla con chi ne ha un’altra. Invece magari quello che scrivo è solo troppo astratto o astruso per suscitare commenti. Ringrazio comunque tutti coloro che mi hanno mandato commenti, anche (anzi, soprattutto) quando in forma di critiche nette.

Mi fermo qui, e mi faccio gli auguri. Ma li faccio anche (con un po’ di ritardo) a Matteo Stefanelli e a Daniele Barbieri (non ancora io, l’altro), perché è stato quando ho visto i loro blog che ho deciso che dovevo esserci anch’io.

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Dei commenti sul contenuto (nei blog e altrove)

Spulciando nei blog di poesia, mi colpisce il fatto che la grande maggioranza dei commenti contengono sostanzialmente dichiarazioni di accordo con quello che la poesia dice (al massimo con l’aggiunta: “Come lo dici bene!”). Ho sempre trovato la cosa piuttosto irritante, sino a quando, con qualche riflessione, non ne ho capito il perché.

La cosa è irritante perché in questi commenti la poesia viene trattata come se fosse l’espressione di un’opinione, di un punto di vista; o come se rivelasse qualche verità nascosta. In altre parole, un post di poesia viene commentato esattamente come se fosse un post qualsiasi, proprio come questo che state leggendo (e rispetto al quale, se vi trovate d’accordo, io sarei ben contento che mi scriveste che lo siete). Ma queste parole che state leggendo ora sono state pensate per una relazione di scrittura-lettura parzialmente reciproca, dialogica, come quella di un blog; mentre la poesia non nasce per stare all’interno di una conversazione (piuttosto diretta) di questo tipo, e si trova pubblicata su un post semplicemente perché quello è un modo per pubblicarla – e potrebbe trovarsi pubblicata in mille altri modi (anche migliori, come sulle pagine di una raccolta a stampa).

Per dire la cosa in un altro modo, e con un paragone irriverente, è come se io raccontassi una barzelletta, e gli amici invece di ridere mi dicessero, con aria serissima, di trovarsi del tutto d’accordo con me (e che l’ho raccontata proprio bene!).

È invece più difficile da spiegare perché la mia irritazione al leggere questi commenti debba essere contenuta (e i commenti di approvazione tematica delle poesie debbano essere tutto sommato accettati). Una spiegazione che si basa su un’analogia interessante mi è balzata agli occhi stamattina, dopo che, attraverso Google Reader, mi erano arrivate due interessanti poesie, una dal blog specifico della sua autrice, l’altra citata da Luisa Carrada con sorpresa e complimenti.

Proviamo a pensare alla situazione di visitare un luogo condotti da un’altra persona. Se il luogo è davvero interessante possiamo tollerare anche che chi ci accompagna non lo sia ugualmente; se lo è, tutto è meglio, ma l’interesse del luogo in sé può essere sufficiente. Viceversa, se la persona che ci conduce è davvero interessante, può capitare che riesca a farci apparire a sua volta interessante persino un luogo che altrimenti non lo sarebbe; anzi può darsi che riesca a farci apparire interessante persino un luogo che conosciamo già benissimo, e che ritenevamo in precedenza privo di interesse proprio per questo.

Il luogo, nella nostra analogia, è ciò di cui un testo parla. In un testo di prosa critica (proprio come questo post) quello che cerchiamo è l’interesse del tema e delle riflessioni al proposito: il modo in cui è scritto (ovvero, nella nostra analogia, chi ci accompagna) può aiutare o può respingere, ma l’attenzione di chi legge non è rivolta lì. I testi poetici, viceversa, ci mostrano non di rado luoghi (cioè temi) che conosciamo benissimo (e sappiamo tutti perfettamente che è bello ricordare quando eravamo bambini e correvamo in giro, e chi scrive sa benissimo quali siano i propri entusiasmi e i propri scoramenti), ma è la scrittura che ci accompagna laggiù a fare tutta la differenza: è la scrittura a farci percepire come nuovi e interessanti quei luoghi stranoti!

È molto più facile commentare dei luoghi che della scrittura. Dire, nel commento di un post, che siamo d’accordo è come dire che quel luogo ci piace. Chi scrive poesia, viceversa, si aspetta che sia apprezzata la propria conduzione, la propria scrittura, il proprio stile. Ma la maggior parte dei commentatori vedono solo il tema, e si sentono d’accordo con quello. Spesso nemmeno si accorgono che quel medesimo tema, espresso con altre e meno interessanti parole, non avrebbe sollevato in loro il minimo interesse: sono capacissimo anch’io – si direbbero – di ricordare la mia infanzia, e di comprendere le mie emozioni di scrittore!

Bisognerebbe lodare l’accompagnatore, e invece si celebra il luogo. Ma noi che leggiamo quei commenti dobbiamo capire che il luogo è piaciuto perché chi vi ha portato il lettore ha saputo mostrarglielo come il lettore non l’aveva mai visto.

Peccato che talvolta i medesimi apprezzamenti vengano espressi dai lettori nei confronti di versi dove ci sarebbe davvero poco da apprezzare! Magari in quei contesti si loda il luogo semplicemente per non doversi esprimere sull’accompagnatore? E come distinguere allora questo caso dal precedente?

L’analogia, sviluppata qui sulla contrapposizione tra prosa critica e poesia, è facilmente allargabile alla prosa letteraria, al raccontare a fumetti, al cinema, e così via. Chi sa usare il proprio linguaggio, e sa far sì che i propri segni (verbali o visivi che siano) mostrino un’altra faccia delle cose, può davvero raccontare qualsiasi cosa, e farne emergere i motivi di interesse!

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Della natura dei blog

Giampaolo Proni ha fatto una simpatica presentazione di questo blog sul suo blog universitario. Nella sua (breve) riflessione, “dopo i blog di attualità e di politica, che hanno in alcuni casi messo in crisi i columnist più quotati, dopo l’era dei blog narcisisti, nei quali ognuno metteva in scena la sua individualità, le sue emozioni, i suoi hobby e le sue inclinazioni, si avvicinano a questo mondo studiosi e ricercatori che, oltre alle pubblicazioni su carta del loro lavoro, mettono a disposizione ciò che sanno e che pensano”.

Questo blog appartiene dunque a questa terza generazione. Il blog è una forma di scrittura nuova, ma come tutte le novità non nasce dal nulla. La generazione che si occupa di attualità e politica fa riferimento comunque al modello dell’articolo giornalistico, e si mette in concorrenza con quello. La generazione narcisistica ha alle spalle il modello del diario reso pubblico, o dell’autobiografia mediata con il romanzo epistolare. E la terza generazione, cui questo blog apparterrebbe?

Il riferimento non è né il trattato né il saggio breve, perché sono forme comunque troppo verbose e meditate. Semmai è l’aforisma, nella tradizione da Nietzsche ad Adorno. L’aforisma ha i suoi pregi e i suoi difetti. Nella versione bloggica potrebbero trovati enfatizzati entrambi: rapidità (di scrittura e di lettura) da un lato, e , dall’altro, impossibilità ad approfondire e argomentare più di tanto.

D’altra parte, il campo in cui il blog si pone è diverso, e diverso è il modo di raggiungere i lettori. Staremo a vedere. Ci riaggiorniamo, su questo discorso, tra qualche mese.

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di Daniele Barbieri

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