15 Aprile 2018 | Tags: Dino Battaglia, fumetto | Category: fumetto | Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Dino Battaglia, “Due amici”, 1976
“Due amici” è il racconto con cui, nel numero di agosto del 1976 di Linus, Dino Battaglia inaugura la serie che poi confluirà nel volume Maupassant. Si tratta di una decina di versioni a fumetti di racconti, per l’appunto, di Guy de Maupassant, scritti e ambientati nella Francia di fine Ottocento. “Due amici” ha inizio nella Parigi dei primi mesi del 1871, durante l’assedio prussiano; non è rimasto quasi nulla da mangiare; due amici si incontrano, e, grazie anche a qualche bicchierino di troppo, decidono di andare a pescare, nonostante la situazione, nel loro posto tradizionale, nella zona occupata dai prussiani. Ottengono il salvacondotto grazie a un’amicizia altolocata, e vanno. Dopo qualche ora di pesca, vengono sorpresi da una pattuglia prussiana. L’ufficiale cerca di estorcere loro la parola d’ordine per rientrare oltre le linee francesi, ma entrambi rifiutano di parlare, nonostante la minaccia di morte. Dopo averli fatti fucilare, l’ufficiale prussiano si fa cucinare il pesce da loro pescato.
Tutto il racconto di Maupassant è giocato sulla contraddizione struggente tra la bellezza della natura e l’orrore della guerra, un orrore sempre presente, anche se dapprima come uno semplice sfondo inquietante, e poi, di colpo, come un destino tragico. Battaglia enfatizza questa opposizione, mettendo in mostra una natura rigogliosa e fiorita, del tutto dimenticandosi di aver iniziato il racconto, seguendo le parole di Maupassant, con un “In una luminosa mattina di gennaio…”. Ma di questo attacco si dimenticano rapidamente anche i lettori, tanto fluida e genuina per lo sviluppo narrativo appare la costruzione del contesto naturale…
Del resto, guardiamo questa penultima pagina del racconto, che mostra la fucilazione dei due amici, e la loro sbrigativa “sepoltura”. Nella seconda e nella quarta vignetta, la tragedia si consuma tra le piante fiorite, in mezzo a una natura meravigliosa e indifferente, ma non per questo meno coinvolgente. Oppure, guardate nella prima vignetta, in cui il corpo del Signor Morisot sembra quasi prendere radici al contatto col suolo, o comunque mescolarsi con l’erba. O guardate la terza, nella sua inconsueta verticalità, in cui tutto lo spazio in basso descrive sì un riflesso (tranquillo e meraviglioso a sua volta) ma anche, insieme, un’insondabile profondità, come quella della morte.
Ho lavorato più volte su un tema che nell’arte grafica di Dino Battaglia riveste una particolare importanza, quello dell’uso del bianco. Come si vede bene anche in questa pagina, il bianco può assumere qui ruoli diversi, e anche combinarli o mescolarli. Può essere un colore, come – in parte – nel corpo del Signor Morisot, o come nei cieli. Ma può essere anche un’assenza, di colore e di altro, come nello stesso corpo di Morisot, o come nel terreno sotto il cadavere di Sauvage nella seconda vignetta. Infine può essere una distanza, un distacco, una separazione, quale è normalmente lo spazio bianco tra le vignette, ma che qui ha una dimensione variabile e un valore sia narrativo che plastico. In aggiunta, può essere anche il semplice fondo-pagina su cui si stagliano le parole nelle didascalie e nei balloon.
E partiamo da queste ultime parole. Di quattro cartigli presenti sulla pagina, tre sono incorniciati e solo uno è liberamente steso sul fondo pagina, Questo uno, benché chiaramente relativo alla seconda vignetta, ne è più largo, e non si lascia iscrivere in un rettangolo ideale. Questo è tanto più significativo perché, come si vede bene in questa pagina, il lettering di Battaglia è attentamente coerente con lo stile del tratto dei disegni: parole e figure, insomma, appaiono formate della stessa materia. La prima e la quarta vignetta sono in parte senza cornice, ed è la posizione della cornice del cartiglio a definirne i limiti spaziali. La terza vignetta, quella lunga, è invece interamente incorniciata, e include il cartiglio, il quale, a sua volta, entra visivamente nell’alternanza delle aree chiare e scure, contribuendo a costruire una sorta di ritmo, all’interno del quale emerge la nota assai più lunga delle altre del riflesso nell’acqua, secondo la sequenza bianco (il cartiglio), nero (il bosco), bianco (il terreno coi soldati e il riflesso di tutto questo), neeeero (il riflesso del bosco), bianco (il riflesso del cielo). È grazie a questo ritmo alterato che il riflesso del bosco appare così profondo, alludendo a quella profondità da cui vengono i pesci (i doni della natura ai due amici) e a cui stanno per approdare i corpi martoriati.
Ma il cartiglio della seconda vignetta appare libero, e del tutto non inquadrato, né in maniera assoluta come quello della terza, né in maniera relativa come gli altri due. Anche qui c’è un’alterazione ritmica: un elemento libero tra elementi vincolati. Questo elemento libero è accostato alla vignetta che si trova tagliata dalla cornice nella maniera più drastica: mentre nelle altre tre i blocchi dei corpi descrivono la scena interamente, e la descriverebbero allo stesso modo anche se la cornice fosse meno definita, la cornice della seconda vignetta è essenziale per focalizzare solo i dettagli dei corpi caduti, dietro gli steli dei fiori in primo piano. E sono gli steli, qui, che potrebbero fare a meno della cornice, come se fossero loro i protagonisti – ed è in realtà questa l’allusione di Battaglia, fedele interprete dello spirito di Maupassant: la bellezza della natura resta, vince, a dispetto della malvagità dell’uomo e dell’orrore della guerra. E forse quella didascalia lì sopra è libera proprio come sono liberi quei fiori, si allarga sulla pagina, non possiede un confine che la debba definire.
Del resto il bianco come distanza è in Battaglia non solo un prezioso elemento di equilibrio grafico della pagina nel suo insieme, ma anche la materia stessa del flusso narrativo. È ciò che scandisce il ritmo, ora allargandosi, ora restringendosi, ora confondendosi del tutto o in parte con i bianchi interni delle vignette. Il bianco, quando non è un colore, rappresenta comunque un’assenza, che sia l’assenza (momentanea) di racconto (quella tra le vignette, quella che qualifica inesorabilmente il loro ritmo), o che sia l’assenza di definizione descrittiva. A differenza del cielo, che è bianco perché è chiaro, il corpo di Morisot nella prima vignetta è bianco perché egli ha già perso la vita, è già entrato nell’assenza di definizione della morte. Sauvage, sopra di lui, è ancora vivo, benché traballante, e il bianco sta invadendo pure lui. La processione, bianca, della terza vignetta si svolge evidentemente nel silenzio, cioè nell’assenza di definizione sonora; mentre il colore scuro ritorna nella quarta, dove lo splash nell’acqua è forte anche se non viene scritto sulla pagina. Del resto è silenzioso il cielo, ogni volta che appare (anche nel riflesso della terza vignetta), ed è silenziosa la terra sotto i fiori nella seconda, e anche nella quarta, nell’angolo a sinistra – e qui lo sarebbe pure il fiume (come nella terza) se non venisse turbato dai segni grafici che descrivono lo spruzzo.
Il nero, in queste pagine di Battaglia, ha un ruolo minore, ma ha comunque rilievo. Nella prima vignetta, quel terreno nero appena screziato di bianco in cui cade il corpo di Morisot rinvia chiaramente alla morte. Così incorniciato appare già quasi un sepolcro, e la scarsa definizione del margine inferiore della figura bianca, se da un lato può essere vista come dovuta alla presenza dell’erba, dall’altro fa sembra che quella figura stia continuando indefinitamente a precipitare, senza fermarsi – mentre, in alto, il corpo già instabile di Sauvage si prepara al medesimo viaggio. Anche nella terza vignetta, il nero del bosco è il nero del mistero, il nero misterioso della grandiosità della natura – di cui anche la morte fa parte.
Resta solo da domandarsi se qui sia il nero o se sia il bianco a inquietare di più. Comunque rispondiamo, Battaglia ha già vinto abbondantemente la sua gara.
Sulla pagina bianca lo strumento del disegnatore traccia linee che delimitano zone, che descrivono forme. Le aree bianche inglobate diventano a loro volta segni, distaccandosi dal fondo in virtù di quel margine continuo. Le aree bianche che inglobate non sono possono, in certi casi, subire la stessa sorte, secondo leggi percettive molto studiate dalla psicologia della Gestalt. Ma può restare comunque un residuo, un bianco che non è forma e appartiene in ogni caso allo sfondo – un bianco decisamente bianco, destituito di significato perché, banalmente, nessun significato percettivo specifico gli è stato attribuito. Un bianco il cui unico senso è puramente negativo: ciò in cui non sta quello che ha significato – al massimo, il vuoto che separa le varie aree significanti.
Nel fumetto, il tipico bianco di questo genere è quello che sta attorno e tra le vignette, escluso al senso dalla linea nera che le definisce. Ne esiste una variante ancora debolmente significativa: lo sfondo bianco indifferenziato che si trova talvolta dentro le vignette, senza con ciò voler simboleggiare un qualche sfondo uniforme (parete o cielo), ma soltanto un’assenza di sfondo, una pura negatività narrativa. Eppure un residuo di senso rimane attaccato a questo bianco dal suo trovarsi ancora all’interno dello spazio deputato al racconto, all’interno della vignetta: il margine regolare che lo separa dall’autentico fondo pagina gli conferisce comunque lo statuto di indicatore di un luogo del racconto, per quanto si tratti di un luogo la cui irrilevanza è sancita dall’assenza di descrizioni.
Ecco dunque i tre ruoli del bianco nel disegno del fumetto: come forma vera e propria, come sfondo neutro del raccontato, come sfondo neutro del raccontare. Vicini, ma non coincidenti, gli ultimi due, e tutti e tre accomunati dal potersi o doversi trovare al di fuori di linee chiuse, questi tre ruoli possono essere giocati anche in maniera da confondere le carte. Non solo è possibile attribuire qualche significato fino al più neutro dei ruoli del bianco, quello di sfondo del raccontare, ma si può anche fondare un intero stile sulla modulazione di tali ruoli e dei loro intrecci…
Continua qui, su Fumettologica.
(Segni bianchi fu pubblicato originariamente su Linea Grafica, n. 1, 1992)
25 Novembre 2010 | Tags: Andrea Pazienza, carattere tipografico, comunicazione visiva, Dino Battaglia, fumetto, graphic design, lettering, Paolo Bacilieri, sistemi di scrittura | Category: comunicazione visiva, fumetto, graphic design, sistemi di scrittura | Dino Battaglia, Maupassant, Due amici, p.4
Questa settimana parlo solo di caratteri, e il tema è di grande importanza anche per il fumetto. La leggibilità di un carattere è un requisito necessario, ma quando il carattere è usato per testi brevi una parte della sua leggibilità può essere anche sacrificata alla sua (chiamiamola così) espressività visiva (o espressività grafica): se per il corpo del testo di un romanzo o di un saggio la scelta del carattere va fatta tra quelli che garantiscono la massima leggibilità (poiché mentre si legge il carattere deve diventare trasparente, garantendo la totale attenzione al flusso delle parole), viceversa in un titolo o in una insegna o in una comunicazione pubblicitaria, la componente espressiva visiva del carattere può manifestarsi di più, sino a diventare predominante.
Poiché il fumetto comunica visivamente ancora prima che narrativamente (cioè per leggere il racconto è necessario aver guardato le immagini), la componente espressiva visiva dei caratteri ha comunque una grande importanza. Ce l’ha anche quando siamo vicini al livello qualitativamente più basso: persino il lettering più neutro e banale, per esempio, si fa per convenzione in maiuscolo – e il maiuscolo è notoriamente meno leggibile del minuscolo. Anche il lettering più neutro e banale, dunque, manifesta una qual continuità stilistica visiva con le linee del disegno circostante. Come minimo, insomma, queste lettere disegnate a mano (almeno in apparenza, spesso) manifestano la propria appartenenza al medesimo mondo grafico delle figure rappresentate vicino a loro.
Guarda caso, il passaggio dalla narrazione per immagini ottocentesca al fumetto vero e proprio negli USA di fine secolo è caratterizzato anche dalla nascita di un lettering disegnato – ben diverso da quello a stampa delle didascalie. Il carattere a stampa, evidentemente, dichiara pure in maniera grafica la propria appartenenza a un mondo diverso da quello delle figure disegnate: è un commento esterno, a cui corrisponde una finestra visiva. Nel fumetto, viceversa, noi siamo già, leggendo, nel mondo dietro a quella finestra, e il lettering manuale ci mostra di far parte pure lui di quel medesimo mondo.
Dino Battaglia script
Se passiamo dall’uso elementare del lettering a usi più raffinati, ci possiamo accorgere di quanto grande possa essere il contributo della forma delle lettere all’effetto visivo complessivo. Immaginate di sostituire questo lettering molto particolare di Dino Battaglia con uno più standard, anche se sempre disegnato. Se lo facessimo, ci accorgeremmo immediatamente di come ne risulterebbe stravolto l’equilibrio compositivo della pagina (qui riprodotta all’inizio del post).
Le lettere di Battaglia hanno lo stesso stile “graffiato” delle sue figure, ottenuto attraverso l’uso di un pennino sottile a punta dura. Un lettering più morbido metterebbe i testi scritti (balloon e didascalie) nettamente in evidenza sul resto della pagina, a causa della loro diversità. Anche se risulterebbe magari più leggibile finirebbe per essere messo troppo in evidenza.
Anzi, si ritroverebbe a essere in evidenza due volte: una, come già detto, per la sua diversità dal grosso dell’immagine; l’altra perché la sua maggiore leggibilità inviterebbe il lettore a privilegiare il testo rispetto alle figure, ma non è questo che l’autore vuole. A queste figure bellissime ma di decifrabilità non immediata deve corrispondere per forza un font che richiede qualche (piccolo) sforzo di lettura: comunque questa è una storia a fumetti, cioè una storia in cui è l’immagine a dover avere un peso determinante.
Andrea Pazienza, The Legend of Italianino Liberatore 2, p.8
I medesimi principi di fondo sortiscono un effetto tutto diverso nel lavoro di Andrea Pazienza, che disegna con la punta morbida di un pennello o pennarello, giocando su bruschi cambiamenti di tonalità, e masse di bianco e di nero. Il lettering di Pazienza è una componente essenziale del suo disegno, praticamente inseparabile, composto di linee che sono esattamente le medesime linee, con i medesimi andamenti grafici, delle linee delle figure, e persino delle linee di contorno dei balloon.
La leggibilità è forse ancora più bassa che nel caso di Battaglia, ma l’espressività è straordinaria, ed è questa riduzione della dimensione verbale alla dimensione visiva del disegno a dare al lavoro di Pazienza una coerenza e un’efficiacia ineguagliabili. Sostituite questo lettering con uno più standard e non avrete ridotto, ma distrutto il lavoro di Pazienza.
Andrea Pazienza script
D’altra parte, lui stesso è acutamente consapevole della necessità di alternare momenti in cui il lettering è sostanzialmente regolare a momenti in cui esso esplode graficamente. Tuttavia, anche dove il lettering di Pazienza è regolare esso esprime una notevole attenzione espressiva: la sua fattura manuale è sempre ostentata; sembra cioè che sempre esca direttamente dall’animo ironico del suo autore. Ed è per questo che la sua enfatizzazione, quando avviene, appare così naturale.
Leggendo Pazienza, paradossalmente, è come se seguissimo la voce di un narratore, che esprime le emozioni con i toni mentre racconta i fatti con le parole. Solo che la voce di Pazienza è il segno grafico, e questo segno si manifesta esattamente al medesimo modo nelle figure e nel lettering, tramite le quali, al contempo, ci mostra i fatti. Dunque, non c’è scampo: per leggere le storie di Pazienza le dobbiamo soltanto attentamente guardare.
Paolo Bacilieri, La magnifica desolazione 2007 p.59
Paolo Bacilieri ha senz’altro imparato molto da Pazienza, penso di più e meglio di chiunque altro. Il suo lettering esprime finemente il sarcasmo che pervade, narrativamente e graficamente, le sue storie, ed è graficamente coerente con quello che gli sta vicino. Osservate questo “bold” di forme quadrateggianti, e confrontatelo con le linee spesse del contorno delle figure e con la continua presenza di forme simili a rettangoli dagli angoli bombati – non solo nei balloon ma anche nei profili dei personaggi e dei loro dettagli.
Paolo Bacilieri script
Magari Bacilieri non ha il virtuosismo grafico di Pazienza (e chi ce l’ha?), ma è bravissimo nel costruire la (sardonicamente desolante) coerenza del proprio mondo. Il lettering ne è – se vogliamo dire così – il basso ostinato, lo swing, il groove.
Dino Battaglia, La caduta della casa degli Usher (da Poe), 1969
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Gli antichi, greci e romani, non conoscevano lo spazio bianco. Non conoscevano neanche la minuscola, né la punteggiatura. COSIITESTISCRITTIAPPARIVANOALOR OINQUESTOMODOELEGGERENONERAAFFATTOUNCOMPITOSEMPLICECOMESIPUOF ACILMENTECAPIREDAQUESTERIGHE. I romani, che avevano uno spirito più pratico dei greci, a volte (non sempre) inserivano un puntino per separare le parole. Ma si capisce bene perché la lettura interiore, senza la voce, fosse prerogativa di pochissimi intellettuali. Se provate a leggere ad alta voce, vi accorgerete che il testo continuo acquista più facilmente senso.
L’invenzione (medievale) dello spazio bianco rende distinguibili le parole al colpo d’occhio, e permette, col tempo, lo sviluppo della cosiddetta lectio spiritualis, ovvero la lettura interiore, fatta solo con gli occhi, quella che noi pratichiamo normalmente. Lo sviluppo della punteggiatura migliorerà ulteriormente questa situazione.
Senza lo spazio bianco il fumetto non potrebbe esistere. Lo spazio bianco è ciò che ci permette di distinguere non le singole parole del fumetto, ma quelle unità narrativo-ritmiche che sono le vignette. In effetti, non è necessario che di uno spazio bianco si tratti. Tutto sommato, anche il puntino separava abbastanza bene le parole, però lo spazio bianco si è imposto perché mediamente più efficiente. Nel fumetto, la situazione è analoga: al posto dello spazio bianco possiamo avere uno spazio di un altro colore, o una semplice linea, o un semplice palese cambio di sfondo (come in tante pagine del secondo Eisner). Però il fatto che nella maggior parte dei fumetti il separatore sia lo spazio bianco è un forte indizio della sua maggiore efficienza media (maggiore efficienza media non vuol dire che sia sempre meglio – c’è sempre qualche caso in cui può essere migliore una scelta diversa – ma vuol dire che è la scelta migliore nella maggior parte dei casi).
Lo spazio bianco funziona bene perché è un vuoto, un’assenza, uno iato, un non-essere; lo si guarda senza vederlo, senza che l’attenzione gli si rivolga mai. Ma se lo si elimina non c’è più il racconto, non c’è più la sequenza; oppure, nella migliore delle ipotesi c’è una sequenza continua e confusa da sbrogliare come succede nell’esempio verbale in tutto maiuscolo fatto sopra. Qualcosa, insomma, che richiede uno sforzo intellettuale notevole, e che deve garantire al lettore una soddisfazione fruitiva per lo meno equivalente (una ricetta insomma dal successo poco probabile).
Questa natura neutra dello spazio bianco lo rende un buon candidato per dei raffinati giochi di senso, in cui il bianco come confine tra le immagini si mescola e confonde con il bianco di sfondo, e le figure emergono al tempo stesso dal nulla del loro sfondo spaziale e dal nulla del tempo sospeso tra un evento e l’altro (tra una vignetta e l’altra, tra un battito e l’altro del racconto).
Anche Eisner ha fatto spesso uso di questa ambivalenza del bianco, ma il maestro di questi giochi è stato sicuramente Dino Battaglia, ai cui spazi bianchi ho dedicato, nella mia vita, diverse pagine in diverse occasioni, e che non finisco mai di apprezzare.
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Aggiungo qui due brevi segnalazioni, di tema differente.
La prima, se leggete il francese, è quella di questo bellissimo post su
Science-fiction et bande dessinée : années 1960, dedicato sostanzialmente a Jean-Claude Forest e ai suoi indimenticabili Barbarella e Les Naufragés du temps (con Paul Gillon). Il post compare sul blog Phylacterium, dove gli scritti interessanti e competenti sono tutt’altro che rari.
Forest è indubbiamente uno degli autori francesi di fumetti più importanti del Novecento, e uno che mi ha fatto molte volte sognare, anche proprio con quelle stesse serie di cui si parla qui.
La seconda segnalazione è che domani 1 luglio su questo blog non appariranno post, ovvero questo blog tacerà, in adesione alla manifestazione indetta dalla Federazione Nazionale della Stampa, contro la legge bavaglio.
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