Su Paola Nasti, Il libro degli affetti e delle restituzioni

Su Paola Nasti, Il libro degli affetti e delle restituzioni

(già pubblicato qui come nota critica al libro inedito di Paola Nasti, vincitore del Premio Speciale del Presidente della Giuria a BIL 2020)

Paola Nasti gioca sull’orlo delle cose. Le cose appaiono come illuminazioni improvvise nel Libro degli affetti e delle restituzioni, misteriosi correlativi oggettivi di una dimensione più astratta e più interiore. Anche al centro della psicoanalisi di Jacques Lacan sta una cosa, anzi la Cosa, la Chose, o meglio, per dirla con lui das Ding. Il termine è freudiano, ma Lacan sa bene di giocare con una Cosa ben più nota nella storia della filosofia, das Ding an sichla cosa in sé di kantiana memoria, caratterizzata dalla sua intrinseca inconoscibilità, insomma il noumeno, contrapposta al fenomeno, ovvero ciò che appare e si può conoscere. Questa Cosa che si trova al centro dell’essere di ciascuno di noi è infatti, per Lacan, un’assenza, un buco, qualcosa che non può mai essere conosciuto, e quindi raggiunto, né nel rapporto autoriflessivo con sé e neppure nel corso di un’analisi. Ma si tratta di un buco costitutivo, perché causa lo squilibrio fondamentale che ci tiene vivi, desideranti, in continua tensione verso qualcosa che, volta per volta, proviamo temporaneamente a mettere al suo posto.

Forse programmaticamente, forse inconsapevolmente ma comunque in modo rivelatorio, il libro di Paola Nasti inizia così: “un blocco di creta / di poco più grande di un pugno / scavi il centro col dito / tornio di carne / fingere la forma attorno al vuoto”; e poi prosegue, poco sotto: “il vasaio finge il vuoto, lo contorna / di parole, adorna spazi / di fregi e di colori / tutto quello che scrive / non intacca mai il centro”. Sono le prime due Restituzioni. Inizialmente è la materia medesima a prendere forma attorno al vuoto, definendo la forma, fingendola; poi è la parola a fare lo stesso, come se fosse un altro tipo di materia. La parola, qui, è certamente quella della poesia, ma è anche quella degli affetti, quella dell’io – quel moi che Lacan definisce una costruzione, una sovrastruttura, una finzione, per quanto indispensabile.

Evocato vagamente in questa sede, l’io è destinato a non tornare in tutti i versi che seguono, dove dominano gli infinitivi, le seconde e terze persone, e al massimo qualche prima plurale. Nei pochissimi versi in cui l’io si manifesta come persona grammaticale, non fa che accostarsi alle cose, è insomma un io dinamico o forse percettivo, senza dignità psicologica, senza interiorità; perché sono sempre le cose a dominare il campo, e le relazioni tra loro. D’altra parte lo stesso approccio alle cose è sempre costruito, come in questi due primi componimenti, per improvvise illuminazioni, magari affastellate in sequenza, ma mai davvero sviluppate, mai contrastate con un’esplicita dinamica interiore.

Si direbbe una realtà fredda, oggettuale, dove lo spirito non può mettere piede, perché qui non si manifesta (mai) nessuno spirito, e il mondo è fatto di queste fredde relazioni tra cose, di questi vuoti che in realtà né la materia né la parola possono intaccare. Ma questa freddezza sparge attorno una diffusa inquietudine, questo vuoto di affetti chiede di essere riempito, mette in movimento tutto. E tutto come d’improvviso appare tiepido, caldo, vivo; ma senza che l’inquietudine si risolva e scompaia.

Sembra che Paola Nasti cerchi di ricostruire un’esperienza e un’emozione dell’attimo di fronte al mondo, senza pagar pegno all’io che la fa; ricostruire e non necessariamente descrivere: metterci di fronte, magari. La poesia sembra volerci porre nella condizione di vivere, per quanto indirettamente, quella stessa esperienza e quell’emozione come se fossero un impatto reale, con tutta la sua eventuale parzialità, manchevolezza. Eppure, questa mancanza della reazione dell’io fa sì che a loro volta le cose, in questo modo evocate, ci appaiano metafore inevase, correlativi oggettivi di qualcosa che non è chiaro cosa sia, eppure c’è, producendo una sorta di brivido, come quando, in quella situazione in cui non ci sentiamo affatto tranquilli, percepiamo d’improvviso una presenza ma non riusciamo a metterla a fuoco, e il senso di pericolo cresce, e non ci abbandona più.

Tra cose concrete e cose astratte, queste restituzioni sono forse davvero solamente apparenti, nomi di qualcosa che si manifesta, ci balza incontro, ci colpisce, ci bisbiglia parole che non riusciamo a capire (ma capiamo che dovremmo). Forse parlano di affetti, forse parlano di me, dell’io. Forse parlano del vuoto che ci dà forma. Si trovano sull’orlo di quel vuoto. È solo così, non cercando di descriverlo, che la poesia ne può parlare.

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di Daniele Barbieri

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