Lo scrutare nel buio di Laura Liberale

Lo scrutare nel buio di Laura Liberale

(già pubblicato qui come nota critica a “Unità stratigrafiche”, Premio BIL 2021)

Gli archeologi come i paleontologi scavano strati di cose morte per ricostruire la storia delle cose vive, quelle umane gli uni, le naturali gli altri. Le unità stratigrafiche corrispondono a livelli storici omogenei, separati da quelli adiacenti da un qualche tipo di frattura. A Troia dieci strati archeologici differenti furono scoperti corrispondendo ad altrettante città, un tempo vive e poi morte, e sepolte dagli anni. Scavare è l’attività comune a queste ricerche sulla vita attraverso le cose morte; come scavare è pure l’attività simbolica del passaggio dalla vita alla morte.

Non c’è dubbio che a Laura Liberale interessi la vita, ma quando la si guarda da quel punto di vista particolare che si pone al suo limite, se non addirittura fuori dal suo limite, la vita può rivelare risorse insospettate. Si tratta solo di scavare, strato dopo strato, nella presenza di questa assenza, senza distogliere lo sguardo, senza orrore, con distaccata e un po’ meravigliata naturalezza; e ancora senza perdere la consapevolezza, la compassione.

Non c’è niente di più facile che diventare retorici, parlando della morte. In una cultura che idolatra l’individuo, il soggetto, l’io, la sua dissoluzione è evidentemente una tragedia. In questo libro c’è il dolore, sì, ma la tragedia non si affaccia mai. La morte vi è evidentemente un evento importante, che fa pure un po’ paura, ma appare tranquillamente parte dell’ordine naturale delle cose, persino quando muore un ragazzo, persino quando muore una bambina.

Impossibile, qua e là, non pensare a Spoon River, specie quando sono i morti stessi a parlare. Ma qui non c’è commemorazione e nemmeno compianto. C’è solo una sorta di consapevolezza diversa, un poco aliena; quella di qualcuno che è stato umano, magari vorrebbe tornare a esserlo, ma non lo è più.

Nei diversi strati del libro il rapporto con i morti cambia. All’inizio è un contatto diretto con i loro corpi, tramite il prendersene cura, dove il morto è insieme una persona dotata di un nome e un oggetto di cui occuparsi – e si fatica a tenere insieme le due dimensioni. La signora S., protagonista delle prime poesie, per esempio, l’hanno estratta dal frigo e ora trasuda brina, e la sua mano rimane ancora tutto sommato una mano finché stendiamo sulle unghie / lo smalto rosa a coprire il vecchio rosso smangiato. Il punto della questione è che continua a persistere un qualche tipo di commercio fra vivi e morti, ed è questo a tenerci, pur labilmente, insieme.

Poi, progressivamente, i morti in quanto tali si fanno più lontani, e il tema diventa il morire, il passare oltre. C’è un padre che per molti giorni ritorna in forma di mosca, qualcun altro tenta per nove volte di rientrare nel suo stesso corpo; ci sono i vivi che si chinano sul proprio morto, come sperando che lui possa aggrapparsi ai loro capelli per tornare. Un’intera, piccola, sezione, è dedicata a i mezzi, ovvero i medium, coloro che con i morti hanno contatto, che li sentono, ci parlano. Sono normali e anormali insieme, sono il tramite, la colonna di luce / intorno a cui si accalcano i morti falene.

E ancora, ci sono poi coloro che stanno per morire, uomini o animali che siano; coloro che lo sanno o non lo sanno, o magari lo sentono. La cagnetta Laika, il topo transgenico, la pecora Dolly, il verme che al morire si fa fluorescente… Parlano con i loro affetti, o parlano al mondo via Twitter… E c’è anche altro, che magari non sembrerebbe di per sé collegato alla morte, ma tutto tiene, qui – in un linguaggio poetico molto piano, spesso quasi argomentativo, con periodi lunghi scanditi internamente dalla divisione in versi.

È la vita a trovarsi singolarmente rappresentata, in questo modo. Non che si debba arrivare a pensare, con Heidegger, che “si vive per la morte”, ovvero immersi in quella prospettiva. Ma nemmeno si dovrebbe vivere come se la morte non esistesse. Il fatto che esista dà alla vita il senso che ha, quello di qualcosa che si esaurisce, che ha valore proprio perché prima o poi smette. Non c’è altro scampo che vivere al presente, concentrati in quello che si fa come Siddharta dalla volizione chiara immerso in meditazione o come il gatto concentrato sulla preda. Il dolore, la paura, non vanno negati, bensì compresi, accettati. Il male non ci potrà turbare se agiremo in questo modo.

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di Daniele Barbieri

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