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Dell’esprimere quello che non si può raffigurare

Lorenzo Mattotti, Fuochi, pagg. 7 e 8

Lorenzo Mattotti, Fuochi, pagg. 7 e 8

A proposito di cose che il fumetto cerca di esprimere anche se l’immagine non le può rappresentare (come il caldo, di cui abbiamo parlato nel post precedente), ecco due pagine da Fuochi di Lorenzo Mattotti (1984). Sono le pagine dove si racconta del primo contatto del tenente Assenzio con l’isola di Sant’Agata.

L’isola ha due volti, molto diversi fra loro ma entrambi caratterizzati da una forte emotività: quello solare e pacifico del giorno, e quello bruciante e drammatico dei fuochi che illuminano la notte. Assenzio ha già avuto una premonizione del secondo, e ora sta entrando in contatto col primo. In queste due pagine Assenzio lascia l’universo freddo, meccanico e geometrico della corazzata per scoprire quello caldo, soffuso e naturale dell’isola. Sono – in particolare la seconda – tra le pagine più belle della storia di Mattotti.

Dal momento in cui i marinai approdano all’isola, eccoli ridotti a figure minuscole immerse in una realtà naturale soverchiante, un immaginario figurativo sospeso tra impressionismo e Nabis. Questa natura non ha forme se non indistinte; è fatta di macchie di colore, a loro volta macchiate di luce, e questa luce possiede ancora altri colori. Le parole pronunciate dai personaggi sono poche, proprio mentre si inserisce una voce fuori campo che non è quella del narratore, ma quella di qualcuno che gli sta parlando dentro. Le immagini disegnate da Mattotti raffigurano i paesaggi dell’isola, ma è il modo in cui questi paesaggi vengono rappresentati a rappresentare, a sua volta, l’esperienza di coinvolgimento stordente che sta vivendo il protagonista: sono i suoi occhi a vedere in questo modo, a restituirci una realtà che sembra uscita da un dipinto di Vallotton.

Noi intuiamo come dovrebbe apparire quella realtà se fosse rappresentata realisticamente, ed è attraverso il confronto tra come dovrebbe essere e come invece è che comprendiamo il vissuto di Assenzio. Più che comprenderlo, forse lo viviamo pure noi, attraverso non solo i suoi occhi ma anche attraverso il modo in cui la sua percezione deforma il mondo. In qualche modo, il senso di solare meraviglia che suscitano i dipinti campestri di Monet, di Renoir, di Vallotton, si trasforma qui in narrazione del sentimento del protagonista; proprio come accadrà, poche pagine più avanti, in un segno emotivo opposto, con gli angosciosi deliri delle figure di Francis Bacon.

Invece di usare parole, Mattotti usa modi di raffigurare. Non ha bisogno di dire che cosa sente Assenzio, e naturalmente non può direttamente mostrarlo nell’immagine: nessuna rappresentazione delle espressioni del volto potrebbe mai trasmettere tutto questo. Lo può invece trasmettere una serie di inquadrature soggettive, o semisoggettive, attraverso l’andamento dell’alterazione del mondo percepito.

È poi c’è, di colpo, questo rallentamento dell’andamento ritmico. Proprio quando compaiono le parole della voce fuori campo, la storia incredibilmente rallenta, quasi si ferma: anche la sospensione narrativa racconta lo stato emotivo di Assenzio.

Quando le immagini sanno raccontare con tanta forza, il loro fascino si deposita dentro di noi. Da quel momento tendiamo a vedere il mondo anche attraverso di loro. Nella foto che ho messo qui sotto, scattata da me qualche anno fa, c’è sicuramente la traccia di queste pagine di Fuochi.

Prato a Villa di Sassonero

Prato a Villa di Sassonero

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4 comments to Dell’esprimere quello che non si può raffigurare

  • Magari ne hai già parlato altrove, ma viene da chiedersi quanto, nel rallentamento del ritmo, incida la regolarità della gabbia grafica. Da un certo punto di vista è l’altra faccia dell’effetto “impressionista” della narrazione di Mattotti.
    La taglia delle vignette è sempre la stessa, perché nessuna vignetta prevale sulle altre. O meglio, ogni vignetta pretende di essere guardata in assoluto: il senso di solidarietà planare e verticale con le altre vignette è narcotizzato.
    Tanto più lo stile autoriale esalta le sue proprietà e i suo rimandi pittorici, tanto più a mio avviso, ogni vignetta finisce per assumere il tempo smisurato del quadro. Il “prima e il dopo” ci sono, è ovvio, ma rimangono discretamente ai bordi della singola inquadratura, come di solito avviene in pittura.
    Credo sia parte dell’autorialità profonda di Mattotti nel narrare: la soggettività della rappresentazione è la visione soggettiva del mondo da parte dell’autore.

  • C’è del vero in quello che dici, e credo anch’io che, in generale, il ritmo piuttosto lento di Fuochi sia legato anche alla regolarità della gabbia grafica; però non questo specifico rallentamento, perché dal punto di vista della gabbia, questa pagina non fa particolare eccezione alla media.
    A parte questo, sono d’accordo. La scansione regolare delle vignette toglie di mezzo quelle accentuazioni che dipendono dal cambio di dimensione, e instaura perciò un ritmo battuto molto regolare, su cui si innestano cambi improvvisi molto forti (vignette doppie, o a piena pagina). Lo fa anche Miller in DK, anche se con un andamento molto molto più dinamico.
    Poiché mancano indicazioni esterne di maggiore o minore rilievo, sei costretto a cercarle dentro la vignetta; ma, in pagine come questa, anche quello che c’è dentro la vignetta è omogeneo, dal punto di vista del richiamo dell’attenzione. Il risultato sarebbe monotono, se non fosse, appunto, che ogni vignetta è un piccolo ricchissimo mondo, che respira da sé, e si giustappone a quelle che precedono e seguono.

    È poi vero che in Mattotti la soggettività della rappresentazione è la visione soggettiva dell’autore, ma se questa viaione dell’autore non entrasse in sintonia con una quasi-oggettività, o universalità, della visione di tutti noi, i suoi lettori, questo testo non avrebbe il fascino che ha.

  • penso che quello che metti in evidenza così chiaramente con fuochi sia una delle prerogative del fumetto: mettere in scena la realtà da un punto di vista soggettivo, facendo ampio uso delle sinestesie. prerogativa di ogni arte, certo. ma che nel fumetto si rischia di dimenticare sotto il peso di migliaia di pagine “realistiche” dei seriali. prerogativa che, a mio avviso, il fumetto ha modo di amplificare molto, proprio per questa sua caratteristica di forma di comunicazione “meticcia”.

    harry

    • Sì, delle sinestesie certo, ma non solo. Quello che dico nel post sulla poesia che uscirà domani (e sto scrivendo ora) vale anche per il fumetto.
      Il ritmo, per esempio, non è sinestesico, semmai “panestesico”, cioè comune a tutti i tipi di percezione – e magari per questo base di molte sinestesie.
      db

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