Ho visto la mostra di Chardin al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Non è grande, però buona parte dei dipinti più famosi ci sono, e anche altri che non conoscevo. Tra questi, i due che riporto qui.
Quello ovale, riportato più sotto, si trova sul fondo di una stanza lunga, per cui lo si vede inevitabilmente da lontano, quando si entra nella stanza, e poi ci si avvicina. La meraviglia della composizione è evidente quindi dal primo sguardo. Tuttavia, rispetto invece al dipinto qui sopra, quello con il bicchiere d’acqua, ho vissuto una strana esperienza.
Poiché è esposto in una sala grande, a fianco di altri dipinti, mi è capitato di vederlo quando mi ci trovavo già molto vicino, a meno di un metro. Quello che ho pensato è stato: “Ecco un dipinto minore. Qualche volta anche a Chardin venivano meno bene”. L’ho osservato per un po’, concentrandomi sul dettaglio delle pennellate, e poi sono passato oltre.
Poco dopo, ero lontano, e l’occhio mi è caduto ancora sul medesimo dipinto. Per certi versi facevo fatica a riconoscerlo. O meglio, lo riconoscevo benissimo, perché le forme rappresentate erano quelle che ricordavo; ma non mi riconoscevo io nel giudizio di poco prima: ora stavo guardando un dipinto bellissimo, tra i più emozionanti dell’intera mostra.
Mi sono avvicinato di nuovo, per tornare a vedere le pennellate, e quell’effetto un po’ confuso che, poco prima, me lo aveva fatto squalificare. Solo che, adesso, quelle medesime pennellate dall’apparenza grossolana erano inesorabilmente correlate all’esperienza che ne avevo appena fatto da lontano, e anche guardando da vicino non le vedevo più come prima
Denis Diderot, recensendo Chardin nel 1763, parlava di una “magia” della sua pittura, dichiarandosi incapace di spiegare come mettere insieme nella propria coscienza le due vedute, da vicino e da lontano. Ma io credo che nella “magia” di Chardin ci sia, oltre a questo, anche una capacità compositiva stupefacente – che è qualcosa di assai più difficilmente osservabile, e che si impone alla percezione spesso senza che ce ne rendiamo conto. È quella caratteristica piuttosto ineffabile per cui le cose ci appaiono, messe così, incredibilmente armoniose, posizionate secondo un ordine stranamente significativo, pur nella apparente banalità.
Lo sguardo da lontano ci permette di cogliere questo ordine, mentre il confronto tra lontano e vicino ci mette a confronto con il virtuosismo del pittore e la sua incredibile consapevolezza dei meccanismi della nostra percezione visiva. Chardin vince la propria gara giocando incredibilmente al ribasso, eliminando qualsiasi elemento che possa essere autonomamente interessante. Così, quasi parlando a bassa voce, la sua rappresentazione delle cose inizia a raccontare delle storie di quotidianità, anche loro dall’apparenza banale, insignificante. Eppure, quando si possono scorgere meraviglie di questo genere nella propria banale quotidianità, il mondo diventa di colpo talmente pieno di senso che sembra non esserci bisogno più di niente altro.
Il secolo dei Lumi è anche quello in cui la valorizzazione delle emozioni inizia la strada che porterà all’esplosione romantica. Quello di Chardin mi appare come un Romanticismo ancora appena sussurrato, uno Sturm und Drang dei bicchieri d’acqua nella luce, dei vasi di albicocche e delle tazzine decorate. Il silenzio in cui Chardin rinchiude le sue passioni le rende incredibilmente vivide, come se emergessero da una visione al microscopio.
Parliamo di Arte, di solito, in questi casi. Vista l’epoca in cui Chardin dipinge, l’espressione è già del tutto pertinente. Ma anche valutando il suo lavoro come semplice comunicazione visiva, prescindendo dalla retorica del mondo dell’Arte, e considerandolo semplicemente come un discorso condotto con strumenti visivi, il discorso di Chardin ci appare ricchissimo, complesso, intrigante. È il lavoro di qualcuno che ha riflettuto continuamente, per anni e anni, sulla percezione visiva e su come essa produce senso; e che può insegnare moltissimo, a distanza di due secoli e mezzo, anche a chi non è interessato alla pittura, anche a chi della comunicazione visiva ha semplicemente fatto una professione. Come pure Chardin, peraltro.
Un artista (mi raccomando con la minuscola) non è che un artigiano di grande capacità che ha molto riflettuto sul proprio lavoro, ed esprime nella sua opera tutto questo, rendendola singolarmente significativa. L’Artista (quello con la maiuscola) è oggi semplicemente uno che fa dell’Arte: ce n’è di bravi (degli artisti veri, insomma) e ce n’è tanti che non lo sono. L’Arte (quella con la maiuscola) non è che un genere tra gli altri.
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