XVI
(Nella nebbia-fine)
Osavo,
ma non oltre il confine del
tuo passo
Perché non esistessero verità oltre te
E null’altro su cui posare lo sguardo.
E
quando il freddo la sapeva lunga sulle
mie ossa
di creatura scaltra ma senza piani
ricordavo che non potevo,
e l’indomani sarei
(andata)
dove terminano
tutte le stazioni
E le ore
E le curve
E i punti di fuga
E le infinite funzioni matematiche.
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AUTOSTRADE
I
Volavo
come un angelo
dalle grandi ali
dolorose
per dimostrarti
crederti
cederti
sussurrarti
un avanzo di paradiso,
ubriaca e compunta
dinanzi
all’erebo e alla pietà
che veleggiano
alla velocità del suono
sulle curve
sotto i tunnel
intorno ad ampie costate
irte d’abeti
a laghi come specchi
e poi nel vento di lungomare
tra palmizi,
venuto da lontanissimo.
IV
E il cielo mi faceva
azzurra,
pesava su di me
insostenibile
di sole
tra le ciglia,
e pregavo
con la mente
accesa,
diamantina,
scintillante di blu
come le infinite speranze
distanze
e,
mio respiro (splendente),
felice
come mai.
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Ho sotto gli occhi questa raccolta di Caterina Davinio, Fenomenologie seriali, Campanotto 2010, testi italiani con traduzione a fronte in lingua inglese, e sono perplesso. Se i testi fossero tutti come il primo dei tre che riporto qui sopra, potrei dire che si tratta di una buona raccolta; e invece la maggior parte sono più simili ai due testi successivi (parti diverse, queste, di una sezione unitaria più ampia), che non riesco a farmi piacere.
Eppure i tre brani condividono una certa uniformità stilistica, e non sono poi così diversi tra loro. Che cos’è che rende il primo, almeno ai miei occhi, un testo riuscito, e gli altri due no?
Ma i dubbi si assommano ai dubbi. Potrei dire che, in generale, questo tipo di stile poetico non incontra in generale i miei favori. Nonostante questo, il primo testo continua a piacermi. Per gli altri due non c’è un “nonostante questo”: non c’è niente in loro che riscatti lo stile che non so apprezzare. Ma se il problema è in generale un problema di stile, e non di singolo testo (anche se poi i singoli testi possono fare eccezione, di quando in quando) mi resta comunque il dubbio che la mia difficoltà ad apprezzarlo sia legata a un qualche tipo di inevitabile partigianeria per stili più vicini ai miei, come poeta.
Per fortuna il primo testo mi piace, il che mi permette di pensare che il mio giudizio possa non essere troppo di parte. Non è facile però capire perché quello mi funzioni e gli altri no. Proviamo.
Intanto, sul mio problema generale con lo stile di Caterina Davinio. Mi verrebbe da dire, come di getto, che questo modo di frazionare i versi sta agli antipodi di quello auspicato (e praticato) da Amelia Rosselli, a cui mi sento viceversa molto vicino. Ho citato varie volte questa affermazione della Rosselli nel saggio intitolato “Spazi metrici”: “In effetti nell’interrompere il verso anche lungo ad una qualsiasi terminazione di frase o ad una qualsiasi sconnessa parola, io isolavo la frase, rendendola significativa e forte, e isolavo la parola, rendendole la sua idealità, ma scindevo il mio corso di pensiero in strati ineguali e in significati sconnessi. L’idea non era più nel poema intero, a guisa di un momento di realtà nella mia mente, o partecipazione della mia mente ad una realtà, ma si straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o da nessuna parte.” È proprio questa sensazione che conduce la Rosselli a utilizzare un verso che quasi non è un verso, in cui viene sottolineata la continuità anziché la frattura del discorso nell’andare a capo.
Qui, viceversa, è dominante la frattura. In questo, di per sé, niente di male, se non un pericolo; ovvero che la frattura, ripetuta molte volte, finisca per diventare il motivo ricorrente e ossessivo. Se questa ossessione è controllata, può essere anche un forte strumento espressivo, proprio come accade nel primo dei tre componimenti qui sopra. Se invece non lo è, finisce per ingenerare noia, stanchezza, senso di ripetizione, come succede nei successivi due.
Nel primo componimento il dominio della frattura sembra coerente col discorso che viene condotto, con questa esitazione, questa “assenza di piani”, con questo non arrivare a fare, che culmina nel bel crescendo degli ultimi quattro versi, che deve la sua forza proprio alla presenza (e dominanza) della frattura. Il verso che si allunga proprio mentre tematizza l’astrazione e l’impossibilità di raggiungere gli asintoti, è una bella invenzione conclusiva, e un bel modo per far finire le parole proprio nel punto più forte della progressione.
Quindi, bene, brava. Ma poi il miracolo non si ripete più. Non posso riportare ovviamente tutta la raccolta, ma qualche altro componimento ha un’efficacia simile a questo. La maggior parte, purtroppo assomiglia invece di più ai successivi.
In loro la frattura del verso breve tende a ripetersi, a stancare. E poi entrano in scena gli “angeli / dalle grandi ali /dolorose”, i “laghi come specchi”, “la mente / … /diamantina, / scintillante di blu / come le infinite speranze”, e tanti altri orpelli del poetichese. Non che non li si possa proprio usare (persino nei versi della Rosselli ci sono cose così) ma se vengono spiattellati in questo modo, posti al centro del discorso (e qui la frattura agisce da focalizzatore, e come!), senza nessuna presa di distanza, come se non fossero espressioni usurate dall’uso poetico, allora io proprio non posso permettermi di apprezzare.
Umberto Saba era capace persino di usare la rima fiore/amore, definendola “la più antica difficile del mondo”: era ben consapevole che la difficoltà derivava dalla sua estrema usura. Se non si è consapevoli di questo, oppure, pur essendone consapevoli, non si è capaci di uscire dalla calotta delle modalità usurate, non si ottengono grandi risultati – o, almeno, non grandi per me.
Conoscendo la scrittura della Davinio, che considero una voce forte della contemporaneità, desidero commentare il post, e dico subito che non ne condivido l’impostazione e gli argomenti. Qui la critica militante non c’entra e non rende un buon servigio alla critica chi, poeta, o aspirante tale (non conoscendo Barbieri ho fatto una rapida ricerca on line), per analizzare il lavoro altrui parte, come termine di paragone, dal proprio e dai propri affini, anche se la cosa è forse in parte inevitabile… Del resto il recensore confessa di partire da se stesso, tenta di razionalizzare e di analizzare null’altro che la propria totale – e probabilmente reciproca – mancanza di affinità con questa autrice validissima e originale nel panorama italiano, a mio avviso non rendendo giustizia a un libro bellissimo. Ognuno nel proprio blog, critico, poeta o semplice lettore, nella propria finestra autopromozionale, scrive quello che vuole, ci mancherebbe!, fa cultura, parla e sparla di ciò che vuole, forse dimentico che chi critica si espone a sua volta ad un giudizio critico. Io conosco questo libro e altri di questa autrice e ritengo apprezzabili sia la prima che le altre due poesie: Davinio, frequentatrice della letteratura e dell’arte visiva, è capace di immagini efficaci e taglienti, di luminosa semplicità e maestosità. E non fanno eccezione i laghi come specchi, gli angeli e la luce abbagliante del sole che inonda e rende abbacinanti e splendenti, addirittura estatici, alcuni passaggi e paesaggi di questi versi, qui del tutto estrapolati dal contesto. Dico ciò non per difendere l’autrice di cui si parla, che non ne ha bisogno, avendo un nutrito seguito di lettori ed estimatori, ma avendo molto apprezzato in particolare il libro di cui si tratta nel post e moltissimo numerose delle poesie incluse nel volume (non menzionate qui), tra l’altro finalista e segnalato in vari premi nazionali. Davinio si avvale di un linguaggio tagliente e forte, modellato su un afflato vitalistico e “fisiologico”, antiletterario, antiborghese, e tuttavia colto e sottilmente sperimentale, come sottolineato anche da Muzzioli nella postfazione e dal traduttore americano nella nota critica. Credo che andare a caccia di ipotetiche “debolezze” in questo contesto, in un libro forte e bellissimo, non renda giustizia allo stesso, non serva al lettore. Alcuni versi più deboli di altri esistono in ogni poeta, non ne sono esenti Pascoli, D’annunzio, Montale, Ungaretti e Leopardi, perfino Dante nella Divina Commedia… Scusi la sincerità. Gianni C.
Che il basarsi sui propri gusti sia in parte inevitabile è uno dei temi del mio discorso. Del resto, da quale altro punto di vista può partire un critico? Da quello degli altri? E come recepirebbe e valuterebbe quel punto di vista se non di nuovo dal proprio? Il punto semmai è che non ci si può fermare al semplice gusto, e se si vuole fare una critica che abbia un senso, bisogna analizzare le proprie sensazioni e i testi che le producono, alla ricerca delle ragioni testuali di ciò che si sente; e almeno, in questo modo, si fornisce a chi ci legge il criterio per valutare quello che scriviamo. Non vedo altre strade oneste, per quanto questa sia fallibile. L’alternativa sarebbe partire da dei principi forti, e valutare l’aderenza del testo a questi principi; anche questo criterio è onesto, ma lo ritengo ottuso, perché ha già deciso a priori che cosa è bene e che cosa è male, e non sarà mai capace di riconoscere la novità.
Quanto alle “debolezze” non ne sono mai a caccia; purtroppo sono loro, semmai, che mi saltano agli occhi nonostante la mia renitenza a volerle vedere. La delusione che mi ha provocato questo libro è che, nonostante alcune composizioni al suo interno siano decisamente riuscite (come la prima che cito), la maggior parte mostra i difetti che ho spiegato. E certamente non potevo citarle tutte.
Infine, sono contento per la Davinio che abbia tanti fan, che trovano ragione di apprezzare ciò che fa. Ma questo non incide minimamente sulla mia opinione (che peraltro riguarda esclusivamente quello di cui parlo qui) né in positivo né in negativo, e nemmeno dovrebbe. Se mi lasciassi influenzare dalla fama (in positivo o in negativo) dovrei apprezzare (o disprezzare) autori sono perché sono di grande successo. Quello che rivendico è piuttosto il fatto che il giudizio che do su un’opera è prima di tutto il mio, e si sostiene solo sull’argomentazione che lo appoggia, e se ha un pubblico valore è esclusivamente perché le mie argomentazioni hanno un valore. Questo, ovviamente, ha dei limiti, ed è fallibile; e se mi si dimostra che ho sbagliato, posso anche arrivare a riconoscerlo. Ma l’argomento della notorietà non mi interessa.
Grazie dell’intervento.
La notorietà dell’autrice non è un argomento e non è il mio argomento; credo di aver portato degli argomenti supportati anche dall’analisi di altri critici. La prima cosa che mi chiedo di fronte a un testo poetico è se la poesia c’è o non c’è. “E il cielo mi faceva / azzurra,” è un verso bellissimo. E aggiungo che la poesia talvolta c’è in versi che conservano delle opacità e dei momenti irrisolti ed è del tutto assente nel grigiore uniforme di altri frutto di sapiente orchestrazione. Saper cogliere la poesia dipende anche da chi legge e ci sono giorni in cui non siamo in grado di trovare poesia nemmeno in Montale e Leopardi.
Il giudizio espresso da Daniele Barbieri mi trova in buona sostanza concorde. Certo è che devo leggere tutta la silloge della Davinio per potermene fare un’idea complessiva “forte”. In questo un blog non può essere d’aiuto. Andrò quindi a cercare “Fenomenologie seriali” per essere confortato o sbugiardato da quanto qui dico. E dico che se “E il cielo mi faceva / azzurra” può essere un buon attacco – per quanto leggermente sdilinquito – è il resto del quarto testo di “Autostrade” che mi pare scivoli vertiginosamente verso immagini poco “affilate” e molto vicine a una rimasticatura di stilemi molto sentiti e molto detti (anche meglio). Ma è qualcosa che ho incontrato in altre sillogi di altri autori, tutti convergenti su un tipo di poesia simile a questa (e sì, altri poeti, che scrivono un differente tipo di poesia, incappano in differenti “qualcosa”; nessuno ne è esente su questa faccia di terra). Non è però la cosa che mi disturba i leggere i testi della Davinio. Quello che mi disturba in tutti, tutti i difensori di qualsivoglia poeta (scrittore) è l’acrimonia verso chi osa dire qualcosa di non elogiativo nei confronti del proprio autore o dei propri autori.
A me che la Davinio abbia successo e venda e sia conosciuta e che “Fenomenologie seriali” sia “tra l’altro finalista e segnalato in vari premi nazionali” non può far altro che immenso piacere. Non mi fa piacere alcuno il modo in cui ci si confronta con chi si espone proponendo una sua, personale, opinabile quanto si vuole, disamina critica ai testi.
In ultimo vorrei dire che una critica non positiva, ma certo non ingenerosa verso l’autrice quale è quella di Barbieri, mi spinge a leggere i suoi testi molto più delle pre e postfazioni positive, molto più delle critiche di critici senza nome sbandierate a mo’ di minaccia e chissà dove postate o pubblicate.
Sarò anche io ingeneroso, sarò anche un fiancheggiatore di Barbieri, ma cavolo caro il mio Gianni C. (Celati? visto che parliamo di traduzione in inglese…), il tuo tono a mio parere “piccato”, non rende un buon servigio all’autrice.