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Della comunicazione visiva e della lista

Ritorno dal congresso di Venezia dell’Associazione Internazionale di Semiotica Visiva con alcune idee che provo qui a metter giù. Lo spunto me lo danno due delle diverse relazioni interessanti che ho ascoltato. La prima, di Vincenza Del Marco, riguardava la ricerca delle immagini sul Web e le difficoltà affrontate dai motori di ricerca per renderla possibile, con la conclusione che, tutto sommato, i motori che si basano sulle parole che accompagnano le immagini restano ancora più efficaci di quelli che si basano sulla somiglianza formale (eidetica e/o cromatica). La seconda, di Omar Calabrese, riguardava la natura di ”lista” (sulla scorta del libro recente di Eco) di diversi (non tutti) dipinti di Bruegel il vecchio, in particolare I proverbi fiamminghi e I giochi di bimbi.

Del discorso di Calabrese (che ha toccato più punti di quelli di cui mi occupo qui) mi interessa l’osservazione che, affinché il contenuto del dipinto possa essere concepito come lista (di proverbi, di giochi…) è necessario che gli elementi che costituiscono la lista siano ben riconoscibili e chiaramente concettualizzati: non a caso, infatti, sia dei proverbi che dei giochi (come dei diversi tipi di cecità che si possono osservare ne I ciechi) esistono liste verbali dell’epoca, da cui si vede chiaramente che i singoli elementi sono ben definiti. L’altra osservazione importante riguarda invece il modo di organizzare lo spazio, secondo una sorta di griglia di base prospettica, che permette di posizionare chiaramente ciascun elemento singolo, ponendolo in relazione con gli altri – e che deriverebbe, secondo la plausibile ipotesi di Calabrese, dalla frequentazione di Bruegel con il disegno delle carte geografiche dell’epoca, sulle quali era frequente non solo la visione assiale, ma anche quella assonometrica.

Ho già ragionato, in un post precedente di questo blog (e anche, in generale, su tutti i post etichettati con il tag sistemi di scrittura), sul legame che esiste tra la lista/tabella e la dimensione grafica. Dagli studi sull’antichità mesopotamica sappiamo che le liste sono precedenti alla scrittura intesa come trascrizione della parola orale, e che tutta una serie di capacità classificatorie (e matematiche) provengono da questa capacità di organizzazione grafica che ancora precede la parola scritta.

Insomma, le liste sono strumenti di organizzazione concettuale del mondo precedenti alla parola scritta, e che permettono di classificare, ordinare e contare su base grafica. Naturalmente, quando entra in gioco la parola, le liste si trovano ulteriormente avvantaggiate, perché la parola soddisfa con facilità il primo dei due requisiti elencati sopra: la riconoscibilità univoca e la chiarezza concettuale. Così, la lista (o tabella) di parole (o anche numeri, ovviamente) diventa facilmente il prototipo di un’organizzazione spaziale rigorosa (in questo caso, cartesiana) di concetti ben distinti e sufficientemente univoci.

Si noti che esiste un tipo particolare di lista che gode di un privilegio particolarissimo: quello di rendere graficamente la successione del discorso orale. Ne avete un esempio sotto gli occhi: questa lista di parole che state scorrendo in questo istante, organizzata secondo semplici regole che ne assicurano la sequenzialità (sinistra-destra, poi alto-basso), ha la proprietà di corrispondere, con sufficiente approssimazione, a una sequenza di discorso orale. Solo la sua natura grafica ci permette di coglierne la natura di lista: nell’oralità primaria la lista pura e semplice non c’è. Il passaggio attraverso la scrittura ci permette però di coglierla.

Voglio provare ora a fare un esperimento concettuale. Immaginiamo una tabella o diagramma cartesiano dove, nell’angolo in alto a sinistra posizioniamo le liste e tabelle fatte di parole (scrittura sequenziale compresa), intese come esempi (1) di massima chiarezza e distinzione dei singoli elementi e (2) di più rigorosa e definita organizzazione dello spazio che li organizza. Da questo massimo, procedendo orizzontalmente verso destra, immaginiamo di diminuire il valore (1), ovvero di porre artefatti visivi i cui singoli elementi sono, andando verso destra, progressivamente meno ben definiti. Andando verso il basso, invece faremo diminuire il valore (2) ponendo artefatti visivi con un’organizzazione complessiva sempre meno chiara. In questo modo, nell’angolo in basso a destra dovrebbero finire gli scarabocchi, ovvero le organizzazioni spaziali più confuse di oggetti per nulla definiti (quali sono infatti le unità di uno scarabocchio? lo scarabocchio è tale proprio perché non c’è nessuna chiara suddivisione possibile).

Tra i due estremi della lista/tabella verbale e dello scarabocchio può essere posizionata tutta la comunicazione visiva: verbale, non verbale e combinata. Una buona segnaletica, per esempio, come può essere quella che si trova ormai in tutti gli aeroporti, va posizionata praticamente nel medesimo angolo in alto a sinistra delle liste verbali: vi troviamo degli elementi ben distinti, univocamente significativi, organizzati secondo una griglia. È facile su questa base riconoscere alla segnaletica lo statuto di scrittura non verbale.

Tuttavia (e questo vale ancor di più per la scrittura verbale) le cose sono un po’ diverse quando la natura dei singoli elementi non ci è ancora del tutto chiara, perché ci troviamo ancora in una fase di apprendimento. Le segnaletiche sono create per essere autoapprese, e sono quindi molto più facili da acquisire della scrittura verbale; tuttavia al primo contatto con una segnaletica non è detto che i singoli elementi ci appaiano già del tutto chiari. In questo caso dovremo dunque posizionarla nel nostro diagramma un po’ spostata verso destra.

Un dipinto figurativo si trova invece posizionato di una certa e non piccola misura ancora più in basso e più a destra. Quanto spostato dall’origine esso sia dipenderà dalla qualità dell’organizzazione spaziale e dalla riconoscibilità dei singoli elementi. Tra i dipinti figurativi, quelli di Bruegel analizzati da Calabrese sono presumibilmente i più vicini all’angolo in alto a sinistra – ma certamente non possono arrivare a coincidere con la posizione delle liste verbali. Nella pittura è infatti necessariamente presente proprio una resistenza all’organizzazione troppo stringente e alla troppo semplice definizione degli elementi: un dipinto interessante non può assomigliare al tabellone di una stazione, il cui pregio è proprio quello di evitare di procurarci sorprese. Il valore di un dipinto, viceversa, sta proprio nel sorprenderci.

D’altra parte, il dipinto non può nemmeno raggiungere la posizione dello scarabocchio: neppure quello ci procura sorprese: la sua assenza di qualsiasi struttura lo impedisce.

Una tavola a fumetti, da parte sua, tende tende più del dipinto ad avvicinarsi all’angolo in alto a sinistra. Essa gode di un’organizzazione tabulare chiara (la gabbia grafica) e di elementi ben distinti (le singole vignette); tuttavia questi sono a loro volta al loro interno organizzati secondo una logica che è parente di quella del dipinto figurativo. Le tavole a fumetti tendono dunque a tenersi non lontano dal lato superiore, ma spaziano abbastanza nella dimensione orizzontale: l’elementarità delle figure dei Peanuts, per esempio, tende a posizionare il lavoro di Schulz piuttosto a sinistra nella nostra tabella, mentre la complessità di quello di Dave McKean o di Lorenzo Mattotti posizionerà il loro lavoro più a destra. Questo significa anche che McKean e Mattotti sono visivamente più interessanti (e meno semplici) di Schulz: il che, ovviamente, è sotto gli occhi di tutti.

Si potrebbe continuare il gioco, provando a posizionare lavori del mondo della grafica, della fotografia, del disegno tecnico e di vari generi illustrativi. Ma qual è l’utilità di questo gioco? Certo, il posizionamento è spesso difficile e quasi sempre discutibile. Ma il fatto di poter confrontare tutte le possibili comunicazioni visive nella medesima tabella ci permette (visivamente e tabularmente) di considerarle come istanze diverse di un medesimo principio, evitando o lasciando in subordine la tradizionale opposizione tra parole e immagini. Nel nostro diagramma le parole sono semplicemente immagini definite in modo molto chiaro, proprio come gli elementi di una buona segnaletica.

Naturalmente, la chiarezza e definizione di cui parliamo è una chiarezza e definizione, per così dire, di primo livello. Qualunque parlante italiano è in grado di riconoscere univocamente le parole del testo che avete sotto gli occhi – e il grande vantaggio della scrittura, specie se tipografica, è proprio questo. Quanto a interpretarne il senso, poi, l’univocità non c’è più. Tant’è vero che la scrittura poetica, prototipo dell’ambiguità e inafferrabilità completa del senso, segue di solito un’organizzazione spaziale che è ancora più regolata di quella della prosa: parte dell’effetto che produce deriva assai probabilmente dal contrasto tra questa organizzazione tabulare particolarmente rigorosa e l’abbondanza delle sorprese interpretative che ne saltano fuori. (E anche i Peanuts di Schulz, così semplici visivamente, trasmettono in realtà interpretazioni molto complesse)

Poi esiste anche la poesia visiva, che gioca proprio sull’allontanamento dalla posizione standard verso il basso, e talvolta persino verso destra, come accade, per esempio, negli Zeroglifici di Adriano Spatola, ai confini tra poesia e arti visive. L’accento sulla rilevanza della dimensione visuale significa infatti anche complicare il gioco sulla riconoscibilità dei singoli elementi e sull’organizzazione spaziale – e giustifica le perplessità di chi si domanda se questa si possa chiamare ancora poesia.

Che cosa ha a che fare tutto questo con i motori di ricerca per le immagini? Riflettiamo un attimo: la ricerca, o almeno quella che si fa sul Web, è un’operazione concettuale, ovvero si cerca qualcosa, e questo qualcosa dev’essere sufficientemente definito. Insomma, la ricerca stessa, così concepita, gode delle stesse proprietà delle liste (ed è pure internamente basata su quelle grandi liste che sono i database). Non c’è da stupirsi che funzioni bene per quelle cose che stanno sull’angolo in alto a sinistra del nostro diagramma, e sempre meno bene man mano che ci se ne allontana. Temo che dunque non si tratti solo di un problema tecnico, destinato a essere risolto in pochi anni.

P.S. Perché non inserisco un’immagine, che dia una chiara idea visiva del mio diagramma? La risposta è che si tratta di un esperimento concettuale, e non di un modo per creare una vera e propria mappa. Se mostrassi il diagramma dovrei per forza dare un posto preciso alle cose, e l’attenzione di chi legge questo post si sposterebbe sul dove metterle (un po’ più in alto, un po’ più in basso, più a sinistra, più a destra…). È poi un esperimento anche nel senso che si tratta di un’idea appena abbozzata, che mi appare suggestiva perché permette di mettere insieme tutto il campo del visivo. Ma richiede certamente ancora molto raffinamento per poter diventare una teoria.

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10 comments to Della comunicazione visiva e della lista

  • ragionamento interessante (e grazie: sempre interessanti i convegni aisv).
    Anche se la diversa natura semantica – quella “informativa” della lista e quella “estetica” dell’arte (fumetto incluso) – rendono particolarmente sdrucciolevole il discorso.

    • Sì, però l’esperimento (e tale per il momento resta) mi sembra interessante proprio perché sul mio diagramma le comunicazioni informative tendono ad agglomerarsi verso l’angolo in alto a sinistra, mentre le comunicazioni estetiche visuali ad occupare l’area centrale.
      Il mio diagramma organizza solo il piano dell’espressione delle comunicazioni visive (la chiarezza dei singoli elementi e dell’organizzazione è semplice riconoscibilità). Però anche solo con questo mi sembra che si osservino delle zone con caratteristiche comunicative particolari, e i diversi linguaggi visivi tendono a occupare aree diverse, probabilmente anche a ragione della loro natura prevalentemente informativa oppure estetica.
      C’è comunque molto da ragionarci. Per ora è solo uno spunto.

  • un ospite

    Salve. Credo che sarebbe interessante leggere quest’ultimo post insieme a quelli precedenti sul lineare e sublime nell’arte, e sul “plagio” di Mac Cay. Si potrebbe dire forse che la nascita del fumetto sia legata ad un incremento di riconoscibilità, univocità e chiarezza concettuale operato da mac cay sul lavoro di Rip e Job (maggiore sequenzialità e sintesi delle forme), che è anche un ritorno all’arcaicità delle forme lineari. non è un caso forse, la contiguità fra la stilizzazione operata da mac cay e la nascita del liberty e quindi del concetto di Stile e di design industriale. Little Nemo è anche una sorta di logo stilizzato, che rientrerebbe perfettamente nella parte in alto a sinistra della tabella, diversamente dai personaggi di Rip e Job.

    • Non la vedo così semplice. Intanto McCay mette in gioco una dimensione tabulare della pagina complessiva che rende il gioco visivo molto più interessante, ma anche molto meno chiaramente definito nelle sue regole. In altre parole, finché l’organizzazione sequenziale delle vignette è semplice e rigorosa, il passaggio da una vignetta all’altra significa solo il passaggio da un evento al successivo; ma quando le varie parti della pagina iniziano a rinviarsi tra loro visivamente, questa semplicità si perde. Da questo punto di vista quindi il lavoro di McCay andrebbe posizionato – nel mio diagramma – più in basso (e non più in alto) di quello di Rip e Job.
      Quanto alla stilizzazione delle figure, anche qui le cose sono complesse. Da un lato è vero, infatti, che una certa semplificazione delle linee porta le figure di Little Nemo nella direzione di una grammatica figurativa più precisa e meno naturalistica (che poi troverà in fumetti come i Peanuts la sua espressione più estrema), però è anche vero che il fascino delle figure di McCay sta poi nello scarto che viene continuamente applicato a queste medesime regole (e lo stesso si potrebbe dire, in misura minore, di Schulz). Questa dialettica tra stilizzazione ed espressività è uno dei “proprium” del fumetto, e la sua irrisolvibilità fa sì che il fumetto non possa diventare una semplice “forma di scrittura” (di cui ho parlato in un post precedente) ma neanche permette che si possano realizzare dei fumetti davvero “astratti”.

  • caro ospite: il tuo spunto sulla contiguità con la cultura (e industria) del design lo condivido. E molto 😉
    La sola parte che ritengo discutibile è il concetto di “nascita” (il fumetto era già “nato” da un pezzo, ai tempi di Arts&Crafts).
    Però la maturazione del design moderno ha molto a che fare col boom del fumetto nella sua nuova identità culturale di fine Ottocento: prodotto di consumo inserito nelle logich di una crescente “character culture” fondata su stilizzazione, riconoscibilità, ‘univocità’ (come dici tu). Spinte che portano allo sviluppo del concetto di marchio modenro. Un fenomeno ben spiegato da Ian Gordon nel suo libro, che parte da Buster Brown per ricostruire il rapporto tra comics e la nascente consumer culture di fine 800.

  • Grazie Matteo dell’osservazione. In effetti condivido anch’io (al di là della polemica sulla data di nascita del fumetto) l’osservazione di Ospite che la componente di semplificazione grafica che caratterizza la narrazione per immagini di quel periodo sia in qualche modo collegata con la nascita della comunicazione visiva in senso moderno, di cui il marchio è un elemento cruciale.
    Però la stilizzazione è funzionale al riconoscimento di un’individualità. Per quanto riguarda marchi e aziende, va benissimo. Per quanto riguarda il fumetto è invece solo una faccia della medaglia: da un lato si deve poter riconoscere con facilità i personaggi e le situazioni, dall’altra essi devono rimanere espressivi e vivaci (e non solo comunicare espressività e vivacità in modo indiretto, come fanno i segni della scrittura verbale). La prima esigenza va verso la stilizzazione, la seconda va invece in senso inverso.

    • un ospite

      Sì, avevo considerato l’organizzazione formale delle vignette parte della grammatica con la quale mac cay le legava l’una all’altra e mi riferivo esclusivamente alla stilizzazione di little nemo in quanto personaggio ed icona, che è ciò che manca ai disegnatori francesi dello stesso periodo e che me li avrebbe fatti collocare in un’altra parte della tabella da questo punto di vista.

      Altrimenti, certo, non è così semplice, sono d’accordo.

      battuta: Questa tabella contiene se stessa in alto a sinistra?

      saluti

      • E’ più che una battuta; il problema implicito faceva parte del gioco.
        Sicuramente la tabella sarebbe posizionata in alto; quanto a sinistra dipende da quanto chiaramente riesco a definire i suoi oggetti. Se suppongo di poter dare una descrizione verbale convincente di ciascuno, allora sta anche a sinistra. Se invece voglio provare a dare delle rappresentazioni iconiche dei singoli elementi, può darsi che debba stare anche un poco (ma davvero poco) più a destra.

    • “da un lato si deve poter riconoscere con facilità i personaggi e le situazioni, dall’altra essi devono rimanere espressivi e vivaci”.
      Certamente, condivido al 100%. La comparazione col design serve a spiegare solo un aspetto (per semplificare : l’avvento di una “character culture” figlia dei processi di standardzzazione del visivo) per aiutarci a cogliere quella fase di boom industriale del prodotto a fumetti.
      Ma il bello (o il difficile) è che il fumetto, in termini generali, non è certo spiegabile solo con l’idea di “arte applicata”, come si tende a fare (semplifico) per il design.

  • […] Eisner | Leave a Comment  Colgo l’occasione del dialogo seguito al mio post precedente (Della comunicazione visiva e della lista) per ricollegarmi ai temi di un libro importante appena uscito: è il libro di Will Eisner, […]

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