Del razionalismo selvaggio

Non ho mai riletto La distruzione della ragione di György Lukács. Mi toccò studiarlo per un esame universitario molti anni fa, e mi sembrò un libro vergognoso. Poiché non l’ho riletto, non voglio parlare di Lukács ma solo dell’impressione che ne trassi allora e del perché questo fatto mi colpisca ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Quanto a Lukács, mi auguro davvero di essermi a suo tempo sbagliato, e che, a una rilettura più attenta della mia di allora, vi si possano trovare anche quei pregi che io allora non vi ho trovato.

Scritto dall’Ungheria socialista dei primi anni Cinquanta, il libro di Lukács descrive il modo in cui i filosofi occidentali hanno variamente messo in crisi (e poi distrutto, in una deriva verso il fascismo) l’idea di ragione. Quello che mi turbava nel leggerlo era che Lukács non mostrava mai (almeno ai miei occhi) il minimo dubbio sulla validità della propria concezione di ragione, che era poi quella hegeliano-marxista-leniniana di una dialettica storica inevitabilmente progressiva, destinata a culminare nella realizzazione del Comunismo.

Anch’io, all’epoca, mi reputavo comunista, ma ero orgoglioso dei miei dubbi sulla razionalità del processo storico, e delle mie incertezze su quale potesse essere il modo migliore e più razionale di costruire il Socialismo. Tanto più che Lukács sparava ad alzo zero non solo contro filosofi dichiaratamente e pacificamente irrazionalisti, ma anche contro Wittgenstein e chi ne derivava, contro la fenomenologia e gli esistenzialismi, e in generale contro posizioni che io ero abituato a considerare decisamente più razionali della sua.

Oggi credo di sapere perché le parole di Lukács mi dessero tanto fastidio. È che trovavo che quella fosse l’espressione più spavalda e prepotente di un atteggiamento fondazionalista che nella filosofia ha sempre avuto una certa diffusione, e che pretende di poter giustificare razionalmente il mondo, ovvero di poter trovare e descrivere una ragione filosofica fondamentale per cui le cose sono così e così, e non in un altro modo. (Si può immaginare quanto felice io sia stato, qualche anno dopo, il mio incontro con la filosofia di Richard Rorty, che è l’antitesi di tutto questo)

Il punto è che i razionalismi di questo tipo non si rendono conto che la ragione è semplicemente la regola di un pensiero funzionale, mentre non ha veramente un ruolo nelle questioni sostanziali. In altre parole, nella misura in cui ci proponiamo uno scopo, il pensiero razionale è lo strumento più potente che abbiamo per procedere verso la sua realizzazione; e nella misura in cui uno scopo dipende da un altro, è certamente il pensiero razionale quello che ci mette in grado di distinguere e organizzare. Ma gli scopi primari della nostra esistenza non sono razionali, e pertengono piuttosto alla regione del mito. La ragione potrà aiutarmi a trasformare il mito in mitologia, cioè esplicitazione del mito, parola del mito; ma io devo essere consapevole che anche dietro a questa trasformazione sta agendo certamente un altro mito, e che gli effetti delle mie comprensioni razionali modificano il mito sottostante sempre in maniera più rapida e incisiva di quanto possa mai recuperare quella medesima comprensione.

L’ideologia che stava alle spalle di Lukács, cioè il comunismo, ha fallito proprio perché non si è resa conto di questo, pensando di potere gestire razionalmente la società, mentre il suo agire razionale non faceva che enfatizzare il sottofondo incontrollato – e il dominio, una volta abolita la sua componente economica, veniva perpetuato in altre forme, politiche e ideologiche. L’ipertrofia della ragione le ha reso impossibile vedere i propri stessi limiti, e la dialettica hegeliana è diventata nella realtà una dialettica di forze oscure e incontrollate, rese nel loro operare potenti proprio da quello strumento, la razionalità, che le avrebbe dovute eliminare!

L’ipertrofia della ragione non ha caratterizzato soltanto le ideologie comuniste. In fondo Marx non ha fatto che sviluppare gli stessi presupposti razionalisti che stanno alla base dell’Illuminismo e dello sviluppo del capitalismo. L’economia capitalista è a sua volta fondata sul principio (capillarmente applicato dai suoi operatori) di un progetto razionale di sviluppo attraverso il controllo, cosa che presuppone, tendenzialmente, la prospettiva di un controllo totale della natura.

Naturalmente, senza un progetto razionale non c’è modo di costruire una società complessa, ma il razionalismo ipertrofico che non si accorge dei propri limiti tende a sopravvalutare il progetto rispetto alla sua verifica sul campo. In questo le società capitalistiche non sono meno ideologiche di quanto fossero a loro tempo quelle comuniste, ma il razionalismo vi si trova parcellizzato nell’azione di una miriade di soggetti, mossi dal mito soggiacente e resi potenti dallo strumento razionale.

Potremmo chiamare razionalismo selvaggio questa fiducia cieca e irrazionale nel potere totale della ragione, e in particolare della ragione scientifica – che costituisce la nuova forma di oggettivismo di cui i razionalismi economici si rivestono. E questo non perché la scienza abbia in sé qualcosa di sbagliato: anzi, nella misura in cui è applicato, il metodo sperimentale non permette che un’ipotesi possa fondare una teoria almeno finché non riceve sufficiente conferma dai fatti. È che la ragione è oggi soprattutto il mito di se stessa, un argomento sbandierabile da qualsiasi parte politica come emblema di ciò che ci salverà – e quindi incontrovertibile, incontestabile, miticamente vera.

Il razionalismo selvaggio è la maschera dei giochi del potere, dei giochi dell’inconscio. Ha dilagato anche nell’arte del Novecento, sotto forma di avanguardie, ovvero gruppi di artisti che pretendevano di sapere come dovesse essere l’arte, e che a volte utilizzavano la propria riconosciuta abilità artistica personale come prova del fatto che essi, proprio come Lukács, sapevano quale fosse la direzione indicata dalla storia. L’assurda vicenda della musica colta contemporanea è un evidente esempio di quanto il razionalismo selvaggio non sia stato che il supporto di una fazione musicale, quella di Darmstadt: tanto rivoluzionaria prima di prendere il potere quanto conservatrice e repressiva una volta che ha avuto il suo Palazzo d’Inverno.

Se la ragione usata entro i limiti della ragione ci può forse salvare, il razionalismo selvaggio, non riconoscendo i propri limiti e il proprio affondare i piedi nel mito e nell’irrazionale, ci consegna inesorabilmente ai demagoghi che hanno individuato benissimo i propri personalissimi scopi, e sfruttano molto razionalmente la potenza mitica delle televisioni per ottenere e conservare il potere. Come ci insegnò straordinariamente bene il nazismo, la ragione serve anche a pianificare la distruzione, o il dominio di qualcuno su qualcun altro. Basta che gli scopi siano sufficientemente precisi da non avere conflitti tra loro. Gli scopi di Berlusconi sono purtroppo precisissimi. Quelli degli esseri umani in generale lo sono molto meno. È per questo che lui, proprio come Lukács, sa qual è la verità.

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Della parola disincarnata

Con questo post mi limito a segnalare che è on line da oggi sul numero 2 (Corpo e linguaggio) della Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio un mio articolo dal titolo “La parola disincarnata: dal corpo alla scrittura“, in cui vengono sviluppati più ampiamente una serie di temi che sono stati affrontati anche in diversi post di questo blog (in generale quelli etichettati con il tag “sistemi di scrittura”). Un intero paragrafo era anche stato citato all’interno del post del 1 aprile “Della poesia in prosa”.

Riporto qui di seguito l’abstract dell’articolo (abstract che sulla rivista appare in inglese):

Non è possibile stabilire una corrispondenza diretta tra la parola orale, legata al suono, e la parola scritta, legata alla visione. Il suono scorre, fluisce, la visione resta; i suoni vibrano dentro di noi, le cose viste appaiono esternamente di fronte a noi: quando passa, storicamente, dalla prima dimensione alla seconda, la parola diventa astratta e disincarnata. Analizziamo qui in questi termini diverse forme di testualità, e il percorso storico seguito dalla parola per distaccarsi dalla corporeità. La poesia rimane ancora oggi il tipo di scrittura che mantiene i legami più forti con la dimensione orale: in poesia, infatti, continuano a giocare un ruolo determinante le dimensioni ritmica e rituale, vicine per loro natura all’universo del suono. Nella prosa la separazione è stata più netta, ma ha richiesto comunque un processo molto lungo, che ha avuto il suo momento cruciale nel trionfo della razionalità della Filosofia Scolastica. Nel passaggio dalla lettura ad alta voce dell’antichità alla lettura silenziosa, interiore, dei moderni, la parola scritta si separa radicalmente da quella orale, imponendo decisamente la propria forza di astrazione.

Mi piacerebbe approfittare di questo spazio di discussione per sentire qualche opinione e magari anche obiezioni sulle tesi che sviluppo in questo articolo.

Non ho ancora letto gli altri articoli presenti sulla rivista, ma dai titoli mi sembra che vi siano affrontati comunque diversi temi interessanti.

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Dell’optocentrismo, della scrittura e della musica

Percorsi vari di riflessione e di studio mi riconducono a un bellissimo libro che avevo letto qualche tempo fa: I segni della voce infinita. Musica e scrittura, di Gianluca Capuano (Milano, Jaca Book 2002). Il tema del libro è la scrittura, in relazione al suono – quello della parola, certo, ma soprattutto quello della musica. La tesi principale del libro è che il nostro modo di concepire le cose è vincolato a quello che Capuano chiama optocentrismo, ovvero una centralità della dimensione visiva (ottica) in relazione alla quale vengono valutate (e spesso svalutate) anche le conoscenze che noi ricaviamo dagli altri sensi. L’optocentrismo trova le sue origini, per quello che riguarda l’Occidente, nella filosofia di Platone, ma poi rimane pressoché indisturbato nella sua posizione dominante sino a oggi – anche perché al centro del privilegio della visione si trova certamente la scrittura, in quanto parola (cioè pensiero) che si vede. Nella prima parte del libro, Capuano ci illustra la posizione di Platone, e poi, nella seconda, il modo in cui il privilegio accordato alla visione è sfociato durante il Medio Evo nell’invenzione di una scrittura per la musica, la quale ha assunto un ruolo via via più importante non solo nella trasmissione, ma anche nella concezione della musica stessa, sino a trasformarla intimamente – anzi, fino a diventare, per gran parte delle persone che si occupano di musica, il mezzo principale per studiarla, produrla e analizzarla.

Voglio partire da qui per fare in questo post alcune riflessioni sulla scrittura e sulla comunicazione visiva in genere, specie quando applicate a una dimensione così diversa come è quella del sonoro.

In primo luogo, credo che l’optocentrismo sia di parecchio anteriore a Platone, anche se è stato certamente lui a farne il cuore di tutta la filosofia a seguire. Se riflettiamo sugli usi consueti del linguaggio, ci accorgiamo che le nostre metafore cognitive sono in generale di carattere visivo: si parla di idee (dal greco eidos, cioè forma), di osservazione (scientifica), di vedere le cose come stanno, di vedere lontano; e certamente non di ascolto (scientifico) o di udire le cose come stanno, né tantomeno di udire lontano. Queste ultime espressioni, anzi, ci appaiono grottesche, insensate. Parliamo piuttosto di ascolto interiore, o di sentire, per riferirci alla propriocezione, specie se emotiva.

Certo, questo nostro uso potrebbe essere una conseguenza della diffusione anche a livello popolare delle concezioni platoniche, tuttavia, di nuovo, l’etimologia ci suggerisce che la vicinanza concettuale tra il vedere e il sapere precedesse Platone. Il termine latino video (cioè vedo) è legato etimologicamente all’inglese witness (cioè, il testimone, colui che sa perché ha visto) e wisdom (saggezza), ma anche al tedesco wissen (sapere, conoscere) e ai termini sanscriti veda (vedere, comprendere, sapere, ma anche la denominazione dei libri della saggezza induista, risalenti almeno al 1000 a.C.) e vidya (conoscenza intuitiva, diretta). L’optocentrismo è dunque presumibilmente un pregiudizio molto antico tra gli indoeuropei – ma non mi stupirei di scoprire che di questo pregiudizio soffrono tutti gli umani del pianeta. In fin dei conti, la vista è davvero il più raffinato e potente dei nostri sensi, e gli studi sull’oralità primaria mostrano una serie di caratteristiche comuni alle culture che non conoscono la scrittura, che tendono comunemente a perdersi una volta che la scrittura sia acquisita.

Il tema è sconfinato. Voglio limitarmi a una curiosità, relativa proprio al rapporto tra musica e scrittura – che la dice lunga, a mio parere, sull’importanza che la dimensione visiva ha assunto anche per il mondo della musica. E racconterò una storia.

Questa storia ha inizio verso la fine del Medio Evo, quando la notazione musicale ha già diversi secoli di vita, e ha raggiunto un livello di notevole sofisticazione. Questo livello è richiesto anche dalla complessità che la musica ha raggiunto, a sua volta resa possibile dal fatto di poter essere scritta. I maestri della musica polifonica di quegli anni sono soprattutto fiamminghi, anche se poi molti di loro vengono a lavorare per le corti italiane. Nel 1436 Guillaume Dufay compone il mottetto Nuper Rosarum Flores, in occasione dell’inaugurazione della cupola di Santa Maria del Fiore di Firenze, progettata da Filippo Brunelleschi. È un fatto noto che Dufay struttura il mottetto secondo delle proporzioni matematiche, anzi geometriche, cioè spaziali: che sono quelle stesse che reggono il cupolone del Brunelleschi, e sulla base delle quali l’architetto ha edificato la sua (per l’epoca) incredibile costruzione.

Ma come si colgono all’ascolto queste proporzioni visive che avvicinano il mottetto di Dufay alla cupola di Brunelleschi? In realtà non si colgono, anche se, certo, se ne sente l’effetto. Al semplice ascolto non c’è modo di comprendere che il mottetto contiene quelle relazioni. E allora, se non si sentono, a che servono?

Per rispondere, bisogna tenere presente che, per l’ascoltatore dell’epoca, c’è sempre, oltre a lui, un altro ascoltatore privilegiato, che è in grado di cogliere immediatamente qualsiasi proporzione nascosta, perché la vede immediatamente, anzi l’ha già vista: quell’ascoltatore è ovviamente Dio, a cui qualsiasi mottetto è prima di tutto dedicato. Il fatto che un brano musicale (ma in generale una qualsiasi opera d’arte) contenga un messaggio nascosto, e comprensibile solo a Dio, è per l’epoca un fatto normale e normalmente apprezzato.

Però c’è un altro fruitore privilegiato del mottetto di Dufay, che è il musicista che legge la partitura. Anche lui può cogliere le relazioni matematiche (mentre ulteriori segreti rimangono nascosti, destinati al solo Dio), non perché le sente ma perché le vede.

Baude Cordier, Tout par compas, Codex Chantilly, ca. 1400

Baude Cordier, Tout par compas, Codex Chantilly, ca. 1400

Baude Cordier, Belle Bone Sage, Codex Chantilly, ca. 1400

Baude Cordier, Belle Bone Sage, Codex Chantilly, ca. 1400

Questo criterio di una visibilità importante quanto e più dell’udibilità è cruciale per moltissime composizioni del Quattrocento fiammingo, sino al punto di incentivare la creazione di partiture esse stesse con forme particolari, come quella famosa a forma di cuore (anche citata da Capuano) contenuta nel codice Chantilly (intorno al 1400). Senza arrivare a questi estremi, in quest’epoca le inversioni speculari (inverso, cioè le stesse note con i rapporti invertiti, e retrogrado, cioè le stesse note a partire dall’ultima verso la prima) stanno già giocando da tempo un ruolo importante: e parlare di speculare significa già mettere in gioco una dimensione visiva, che l’ascolto non è in grado autonomamente di riconoscere. Il bellissimo e famoso rondeau di Guillaume de Machaut “Ma fin est mon commencement” prevede tre voci: tra le prime due c’è un canone retrogrado (ovvero la seconda canta una melodia che è il retrogrado della prima), mentre la terza canta la propria melodia prima per moto retto e poi retrogrado. (Qui poi, persino il testo concorre al gioco speculare, come si può vedere a questo link).

L’idea di Dio come fruitore privilegiato si perde tra Cinque e Seicento, però mai del tutto. E anche le arditezze geometriche dei musicisti medievali vengono tendenzialmente abbandonate con il tramonto della polifonia. È un declino progressivo e mai totale, che trova un fantasmagorico ritorno di fiamma nell’opera del vecchio Bach, Johann Sebastian.

È un fatto ben noto, infatti, che i suoi contemporanei gli preferirono di gran lunga i figli, specialmente Johann Christian e Carl Philipp Emmanuel. Johann Sebastian era troppo difficile, troppo geometrico, troppo fuori moda, per gli azzimati e superficiali ascoltatori del Settecento. Lo si apprezzava più per la complessità del contrappunto che per la qualità del melodista. E d’altra parte, lui stesso, da bravo luterano, componeva sostanzialmente a maggior gloria di Dio, seguendo il proprio spirito e poco curandosi (però anche curandosi) del piacere dei propri ascoltatori.

Al di là della visione di lui che potevano avere i suoi contemporanei, Johann Sebastian rappresenta davvero una singolare combinazione: da un lato uno straordinario inventore di motivi e di melodie, dall’altro un matematico della musica, il più straordinario gestore di ars combinatoria che sia mai vissuto. Attraverso questa incredibile combinazione di passato e di presente, la musica di Johann Sebastian attraversa il proprio tempo, e lo supera quasi dimenticata per circa un secolo: quasi dimenticata, perché anche se nessuno l’ascolta più, tutti i musicisti la studiano, perché lì stanno le risposte a tutti i problemi del contrappunto.

Poi, Bach viene riscoperto almeno due volte. La prima dal romantico Felix Mendelssohn, che – pur così affascinato dal rigore geometrico da scrivere a propria volta i propri preludi e fughe – ne ripropone soprattutto l’aspetto di melodista e orchestratore: il Bach delle Messe, delle Passioni e delle Cantate, insomma. La seconda, ancora un secolo dopo, quando la sua fama è già piena, da Arnold Schoenberg, che fa del contrappunto di Bach il modello per la propria nuova tecnica compositiva: la dodecafonia.

Siamo negli anni Venti del Novecento. Schoenberg sta cercando un metodo compositivo che lo liberi dai vincoli della tonalità. Lo trova per mezzo di un espediente geometrico, con l’invenzione del concetto di serie dodecafonica, ovvero una serie di dodici note, in cui compaiano tutti (e dunque una sola volta) i dodici toni in cui è divisa la nostra scala. Invece di basare le proprie composizioni musicali sul concetto di tensione tonale, come si era fatto sino a quel momento, Schoenberg inizia a fare uso di questa tecnica, che ha al centro la serie dodecafonica e le sue permutazioni, con particolare risalto di quelle speculari: l’inverso, il retrogrado e l’inverso del retrogrado.

Se si leggono gli scritti teorici di Piet Mondrian di quei medesimi anni, vi si trova il medesimo spirito in una forma ancora più estrema. Mondrian arriva proprio a teorizzare una musica così antinaturalistica e così astrattamente geometrica quale Schoenberg non arriverà mai a comporre. D’altra parte, Mondrian lavora proprio in quel campo del visivo da cui la musica dovrebbe essere lontana.

E invece la tendenza della scuola di Vienna sarà proprio quella, prima con il grande allievo di Schoenberg, Anton Webern, e poi con gli esiti della scuola di Darmstadt del dopoguerra, quando Pierre Boulez arriverà a teorizzare un serialismo integrale, applicato non solo all’armonia ma a tutti parametri della composizione musicale.

Questo trionfo di una concezione geometrica, e quindi di base visiva, della musica segnerà tutta la musica colta della seconda metà del Novecento. La tendenza diventerà regola, così imperativa da sollevare persino le proteste di alcuni tra i musicisti più sensibili, pur appartenenti alla medesima scuola – perché di questo tipo sono le osservazioni che Gérard Grisey muove nel 1980 alla nozione di ritmi retrogradabili promossa trent’anni prima da Messiaen, definendoli risultato di una utopia basata su una “visione spaziale e statica del tempo”.

Sylvano Bussotti, Siciliano (immagine tratta da Andrea Valle, La  notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

Sylvano Bussotti, Siciliano (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)


R. Moran, Four Visions (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

R. Moran, Four Visions (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

A. Logothetis, Odyssee (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

A. Logothetis, Odyssee (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

Non c’è da stupirsi se, all’interno di questa concezione visiva della musica, l’aspetto visivo della partitura ritorni a guadagnare importanza, come già era accaduto nel Quattrocento. Complice l’idea di musica aleatoria, ovvero basata in parte sul caso, o sulle scelte dell’interprete, le partiture finiscono per essere talvolta più delle immagini di carattere evocativo, destinate a stimolare l’immaginazione dell’esecutore, che non notazioni musicali vere e proprie, oppure una combinazione delle due. Come dire che la musica nasce, in tutto o in parte, dall’immagine: il trionfo definitivo del visivo sul sonoro. L’optocentrismo platonico portato alle sue estreme conseguenze.

Era un vicolo cieco. La musica colta contemporanea di oggi lo sa.

Altre strade che ha seguito la musica, nei medesimi anni, l’hanno invece portata molto più lontana dalla dimensione scritta di quanto non accadesse nella tradizione pre-schoenberghiana. In un mondo in cui per i critici musicali e i musicologi la musica si identificava con la partitura, ovvero con la sua dimensione scritta, questa non era una direzione facile. Ne parla un altro bel libro che affronta questi temi, quello di Davide Sparti che ha per titolo Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz (Bologna, Il Mulino 2007), dove si capisce davvero quanto poco del fascino delle sonorità di John Coltrane possa essere ricondotto all’universo visivo. Per quanto comunque il riferimento al visivo e alla scrittura ci sia, e non possa ormai che esserci, almeno in una qualche misura: la musica non potrà mai più essere un fatto sonoro puro.

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Dei miracoli e della credenza

Permettetemi una (sentita) divagazione. Incrocio questo articolo interessante su Nazione Indiana, e, pur approvando incondizionatamente quello che c’è scritto (compresa l’ammirazione per l’impegno sociale di Émile Zola), mi permetto di aggiungere una piccola riflessione personale sul miracolo e sulla religione.

Zola dubitava (ragionevolmente) della verità dei miracoli che avvenivano (e avvengono) a Lourdes. Ne dubito anch’io. Ma supponiamo per un attimo che siano veri, e che ci siano veramente delle guarigioni inspiegabili in quel luogo. Che cosa ne consegue? Che esiste Dio? Non sappiamo neanche come facciano a esistere i buchi neri, ma nessuno prende questo come prova dell’esistenza di Dio.

Allora il miracolo sarebbe non solo qualcosa per cui non abbiamo una spiegazione naturale, ma qualcosa per cui non abbiamo una spiegazione naturale e che non appartiene a una categoria di fatti inspiegati del medesimo tipo? Come dire, se succede regolarmente non è un miracolo (è solo qualcosa per cui non è ancora stata trovata una spiegazione), mentre se succede una tantum lo è. Ma le guarigioni di Lourdes appartengono a una categoria: sono tutte guarigioni che accadono a Lourdes.

Prima di tirare in ballo la divinità, bisognerebbe saperne molto di più di quanto ne sappiamo sui processi naturali. C’è stato un tempo in cui i vulcani e i terremoti erano manifestazioni del divino: come facciamo a dire che un domani non potremo spiegare naturalisticamente le guarigioni improvvise? (sempre che esistano, certo) Magari a Lourdes valgono alcune regole fisiche differenti; e magari ci sono altri posti in cui succede lo stesso.. Che oggi qualcosa ci appaia inspiegabile non comporta che sempre quel qualcosa resterà inspiegabile.

Il fatto è che le guarigioni improvvise colpiscono l’immaginario popolare assai più dei buchi neri; e hanno un legame mitico con un’idea primitiva di divinità, che si manifesta frequentemente nel mondo. Ma una divinità che si manifesta frequentemente nel mondo mi pare più vicina a Zeus e Apollo che non al Dio delle religioni monoteiste. Una divinità che si manifesta nel mondo ne è inevitabilmente parte, e quindi può certamente essere un dio che ci guarda dall’alto, ma non il Dio onnipotente e onnisciente.

Insomma, sempre che esistano, i miracoli di Lourdes sono la prova che ci sono un sacco di cose ancora da imparare del mondo che ci circonda, compreso – magari – che esistono gli dei dell’Olimpo, del Wahlalla, o di qualche altro empireo; o che magari a Lourdes stesso abita uno di questi dei. Non sono certo la prova che il papato dice la verità (e tutto questo indipendentemente dal fatto che il Dio monoteista esista o meno, e che ci crediamo o meno).

Oppure (tanto per restare in tema cristiano) se in realtà fosse il diavolo a compierli? Penso che molto dipenda da quello che noi vogliamo credere. D’altra parte, questo è anche il limite della stessa conoscenza scientifica.

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di Daniele Barbieri

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