Recensioni d’annata, 2004. Una babele onirico-grafica

Una babele onirico-grafica
Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2004

Quello che più inquieta dell’universo fantastico di David B. è la contiguità, quasi l’identità delle sue proiezioni straordinarie con il mondo della vita quotidiana, con le sue angosce e le sue ironie. E che il quotidiano sia al centro delle sue storie è evidente tanto nelle produzioni più esotiche ed esoteriche, (come Guerra di Demoni, Mare Nero 2000, una variazione sul giapponismo, o l’intrigante incubo da bouquiniste Les incidents de la nuit, Coconino Press, 2002) quanto in quelle più autobiografiche, come Il grande male, o Babel.

Molti lettori italiani sono già familiari con questo modo ironico e sentito di trattare il quotidiano. Chi ha letto Persepolis, di Marjane Satrapi, ne ha un’idea: della Satrapi, infatti David B. non è stato solo l’editore (nella sua veste di fondatore de L’Association) ma palesemente anche l’ispiratore. E per quanto brava lei sia – e lo è davvero – non è questo un caso in cui l‘allievo abbia superato il maestro.

Il grande male è l’opera autobiografica che ha accompagnato la vita del suo autore dal 1996 al 2003, in cui David B. racconta la propria infanzia e adolescenza, sino alla maturità, segnata dal rapporto con il fratello maggiore malato di epilessia. I sei volumi dell’edizione originale francese (raccolti ora in due in quella italiana) sono usciti con cadenza all’incirca annuale, con un rallentamento verso la fine, probabilmente dovuto alla maggiore difficoltà di raccontare eventi più vicini al presente.

Quando inizia il racconto Pierre-François ha cinque anni, ma è già dotato di un’immaginazione fervida, che lo porta a rielaborare il suo piccolo quotidiano alla luce delle grandi storie, bibliche e mitologiche, che gli raccontano i genitori. Poi, un giorno, il fratello maggiore Jean-Christophe ha la prima crisi, proprio di fronte a lui. Da quel giorno, e sempre più imperiosamente man mano che il tempo passa e la malattia s’impone, l’immaginario guerresco del piccolo protagonista ha un nuovo personaggio, il Grande Male, l’Epilessia. Il calvario della famiglia attraverso mille tentativi di cura, scientifici ed esoterici, percorre tutte le cialtronerie della medicina ufficiale e i sogni impossibili di quelle alternative, disegnando una sorta di inutile catalogo dei miti salutistici e terapeutici degli anni Sessanta e Settanta.

Al Grande Male non è possibile trovare una cura adeguata, e Jean-Christophe scende, passo dopo passo, la china verso l’abbrutimento fisico e morale. Mentre Pierre-François, trascinato ma non travolto dalle illusioni della propria famiglia, trova la propria via nelle letture e nei personaggi inventati, costruendosi una personale linea di difesa nella creazione di racconti e delle immagini per narrarli, dando vita ai propri incubi e stabilendo con loro una relazione quasi familiare.

Si tratta di una storia a fumetti, è evidente – ma è altrettanto evidente che questo romanzo autobiografico così straordinario non potrebbe fare a meno delle immagini, e non ha nulla da invidiare alla letteratura verbale. È anzi probabilmente più profondo, più complesso, più ricco della maggior parte dei romanzi tout court usciti negli ultimi anni, su cui la critica spende le proprie baruffe.

Sul tema autobiografico, David B. è tornato ancora, dopo Il Grande Male, con un’opera molto più breve, più grafica, a colori: Babel. È un racconto succinto, fatto per chi già conosce gli eventi, una sorta di rappresentazione onirico-grafica della vita a contatto con l’epilessia e i suoi mostri, un poemetto per immagini che ripresenta in forma di simboli visivi i medesimi temi del romanzo che l’ha preceduto.

 

David B.
Il grande male (2 voll., €13.50 e 14.50), Coconino Press, 2003 e 2004
Babel (€ ???), Coconino Press, 2004

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Di una foto di Dettagli (62)

Dettagli (62)

Dettagli (62)

Quando su ci si butta lei,
Si fa d’un triste colore di rosa
Il bel fogliame.

… e poi segue, proprio come qui.

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Diario d’India. Da Benares/Varanasi

Siamo arrivati nella citta’ piu’ sacra dell’India ieri mattina, dopo una massacrante notte in treno, che faceva seguito a una giornata di automobile (10 ore filate) per fare i 250 km di strada tra Pithoraghar (media montagna himalayana) a Bareilly (pianura – ci passa il treno che porta da Delhi a Varanasi).

Dopo le giornate tranquille ad Almora, abbiamo cercato inutilmente un luogo diverso ma altrettanto fascinoso e rilassante. Pithoraghar sembrava il candidato giusto: all’incirca la stessa altitudine, ma un po’ piu’ vicino alle vette che da Almora non si riescono a vedere, causa nuvole (salvo qualche rarissimo momento, con qualche squarcio).

In realta’ Pithoraghar si trova in una conca, bella ma cieca. E la passeggiata che abbiamo fatto su una delle montagne attorno e’ stata molto bella, ma non ci ha mostrato le vette. In compenso ci siamo quasi persi. Dando fede alle asserzioni di due persone diverse e indipendenti tra loro, abbiamo preso uno stradello molto spettacolare che doveva portare a valle.

Dopo circa un’ora di cammino, abbiamo chiesto conferma a un vecchio pastore, dicendogli il nome del paese a cui pensavamo di arrivare, e lui si e’ sforzato in tutti i modi di farci capire che di li’ non ci si poteva arrivare. Molti dubbi; lui sembra molto convinto, ma capivamo bene quel che intendeva dirci? Avevamo due conferme contro una smentita.

Per fortuna e’ passata una jeep piena di sardine, e abbiamo chiesto al conducente, che ci ha confermato le parole del pastore. Ma don’t worry, five kilomters and I’m back. Fantastico! Almeno abbiamo il ritorno assicurato. E cosi’ e’ stato, in 17 sulla jeep, con anche due persone in piedi attaccate fuori.

Qui e’ ovviamente un altro mondo. Fa caldo, e il Gange e’ altissimo. I ghat, cioe’ le scalinate che scenderebbero al fiume, sono completamente sommersi. Qualche giovane ci dice che nella sua vita non ha mai visto il fiume cosi’ alto. Dall’acqua emergono le sommita’ dei lampioni che illuminano la passeggiata dei ghat. Bisogna andare per stradelli, ed emergere sul fiume ogni volta che si puo’. Qualche strada e’ del tutto sommersa, e ci arrivano le barche anziche’ le automobili. In un punto non possiamo che bagnarci i piedi sino alla caviglia per passare, in questo miscuglio di acqua del Gange (con tutte le sue virtu’) e acqua delle canalette cittadine (insomma, piccole fogne all’aperto).

Su quel che emerge dei ghat ci sono molte persone, specie vecchi, che si immergono. Molti anziani vengono ad abitare a Varanasi per morirci, perche’ morire qui facilita il superamento del samsara, ovvero del ciclo doloroso delle reincarnazioni.

Abbiamo visto anche le pire dove bruciano i morti, e una parte del rito funerario. C’e’ un ghat apposta. Ora e’ sommerso. Quindi tutto succede nel vicolo subito dietro. (solo uomini a operare ed assistere: le donne si commuovono troppo, e l’anima del defunto che gira li’ attorno sarebbe ostacolata al distacco definitivo, dal pianto di una persona cara).

Ci portano a vedere un negozio di sete. Facciamo acquisti. Troppo belle. Ci portano qui e ci portano la’. Qui il turista e’ come il maiale: non si butta via niente. Tutte le sue parti sono buone da sfruttare. Stamattina ci hanno portato all’alba (ore 5) a fare un giro in barca, per un prezzo che e’ solo il doppio di quello indicato dal Lonely Planet. Suggestivo, ma solo in parte, e per troppo poco tempo: non arriviamo nemmeno ai ghat principali.

E il Gange e’ altissimo. Oltre alle sommita’ dei fari di illuminazione, emergono le guglie dei tempietti sui ghat. E’ tutta un’altra cosa rispetto alla Varanasi delle foto turistiche, nelle quali, dal fiume, le case sopra sembrano quasi in collina. Qui il fiume stesso si trova all’altezza di quella collina. Mi immagino quello che sta sotto: siamo sospesi a mezz’aria, dieci metri sopra quello che si vede in quelle foto. La meraviglia e’ nascosta in quest’acqua bigia, che corre veloce portando via qualcosa ogni tanto (anche un cadavere abbiamo visto, ieri).

Ma, nel complesso, Benares non e’ affatto un inferno. Rispetto alle grandi citta’ rumorose dell’India sembra sporca non piu’ che altrettanto, e persino meno rumorosa. C’e’ una bella atmosfera. Si capisce che qui succedono anche cose interessanti. E’ la capitale della musica indiana, e c’e’ l’universita’ piu’ importante del paese.

L’esperienza davvero avvolgente la vivo in in tempio, durante un darshan, cioe’ una cerimonia, con il ritmo ossessionante delle campane al chiuso e fianco alle orecchie, e l’odore del fumo aromatico, e i gesti delle cerimonie, e il caldo, e le rondini che in tutto questo entrano ed escono dalla porta aperta verso il fiume.

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Recensioni d’annata, 2004. Macchine emotive per raccontare storie di nulla

Macchine emotive per raccontare storie di nulla
Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2004

Sembrano provenire da un altrove remoto le cinque storie inedite che Gipi presenta in Esterno Notte, ma si tratta di un altrove interiore, come isole della coscienza o della memoria che escano d’improvviso dalle brume, per restare, quasi magicamente, fissate sulla carta. E di magia, in questi brevi testi narrativi per immagini, ce n’è parecchia.

È il primo libro, questo, che Gipi pubblica, ma numerose storie sue erano già uscite su riviste – storie belle, intriganti, ben costruite. Eppure il salto di qualità che si incontra su queste pagine è stupefacente. Le si legge e rilegge, queste storie, alla ricerca del nocciolo della loro magia, cercando di capire come facciano a emozionare il lettore così tanto, a comunicare questa sensazione di profondità del ricordo, quasi di paura.

Non è solo questione di invenzioni visive, ma anche nel semplice modo di rappresentare il suo mondo Gipi appare dalla prima tavola come un maestro. Ci sono questi monocromi dipinti a olio, che combinano la rappresentazione realista con una vaga parodia – messi a contrasto con immagini disegnate a pennino, ora per giustapposizione di vignette, ora addirittura sovrapposte alla pittura, quasi due realtà diverse nello stesso spazio.

E poi c’è la parola, il racconto, le voci dei personaggi. Una costruzione di polifonie e contrasti, in cui una vena lirica molto intensa si trova temperata da un’ironia leggera e amara.

Tre di queste storie sono frammenti autobiografici, storie di nulla, non-storie. O magari suggerimenti rispetto a quello che in seguito è accaduto davvero, che qui viene taciuto. Ma intanto si delinea il ritratto di un piccolo mondo e delle sue emozioni – che appaiono in questo modo come messe a nudo, liberate dalle pastoie narrative che rischierebbero di farle apparire convenzionali, già raccontate, come spesso accade, da milioni di storie.

Poi ci sono altri due racconti, quello di un malavitoso colto da una sorta di crisi esistenziale in un momento di tensione (uno scambio di prigionieri tra bande rivali), e l’ultimo, il più lungo, “Muttererde”, l’incubo di una caccia ai clandestini a bordo di una petroliera, sull’oceano, d’inverno. E qui si riesce forse a individuare almeno una delle strategie di cui Gipi fa uso per costruire le proprie macchine emotive. Nella storia dei malavitosi è il contrasto tra due contesti narrativi tradizionalmente diversissimi, come il tormento interiore e la tensione per la situazione di pericolo. In “Muttererde” è il contrasto tra la grandiosità spaventosa dell’oceano ostile, e il tarlo di inumanità e idiozia che corrode la casa comune dei personaggi, la petroliera Muttererde (“Madre Terra”, in tedesco).

Ma non si tratta di accostamenti facili. Come in ogni ricetta che avvicina ingredienti dai sapori lontani, la sapienza sta nella scelta degli altri elementi, che servono per farli “legare”. Qui sarà forse la maestria visiva, o la capacità di costruire un ritmo emotivo fatto di tanti elementi diversi; ma che non rallenta mai.

 

Gipi
Esterno notte
Coconino Press, Bologna 2003
96 pagg. 13 €

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Diario d’India. Da Almora (siamo sempre qui)

Siamo sempre qui perche’ e’ difficile staccarsene. Ieri giornata di relax totale, per smaltire lo stress delle jeep. Stamattina alle 8 finalmente le nuvole si sono squarciate, e abbiamo visto, laggiu’, le grandi cime imbiancate, quelle tra i 7000 e gli 8000 metri.

Poi, partenza. Un viaggio piccolo piccolo per arrivare a Binsar, dove c’e’ una riserva protetta, detta (come sempre qui) Santuario della vita selvaggia. L’unico problema e’ che il Santuario si fa pagare la bellezza di 600 rupie a testa, il prezzo piu’ alto che io abbia mai pagato in India per un luogo pubblico – e il Lonely Planet parlava di un biglietto da 100 rupie…

Pazienza. Paghiamo, entriamo e camminiamo. Oltre alla visita a questo bellissimo pezzo di foresta, questa gita ha un altro scopo. In una baita da qualche parte nel parco, Tiziano Terzani ha passato alcuni anni della sua vita, e ci piacerebbe vederla.

Dopo un paio di ore di cammino arriviamo a un piccolo tempio di Lord Shiva, con un simpatico piccolo brahmino. Sta seduta li’ anche una signora, dall’aria distinta. Ci saluta con un saluto inconsueto, e ci mettiamo a parlare con lei. Ci dice che il tempio e’ del XIV secolo, e che lei e’ la proprietaria del resort in alto, quasi in cima alla montagna. Allora la chiediamo se sa qualcosa della casetta di Terzani, e lei sorride, e dice che Tisciano era un grande amico di suo padre, e che, nel libro che racconta l’esperienza; si riferisce a lui come “il vecchio” (lo dice in italiano). Poi ci dice che e’ stata anche a Firenze da lui, e conosce benissimo tutta la sua famiglia.

Poi si ferma e dice: aspettate, adesso vi faccio guidare sino al resort, poi telefono che vi preparino il pranzo, e poi dico che vi facciano visitare la biblioteca di mio padre e la casetta di Tisciano. E poi verso le 5 c’e’ qualcuno dei miei che scende a Kazar Devi (dove stiamo noi) e se volete vi da’ un passaggio. Io pero’ non posso venire con voi perche’ devo andare a controllare come vanno le cose in fabbrica (una fabbrica di tessuti e scialli, dalla quale abbiamo gia’ fatto acquisti).

E cosi’ eccoci accuditi da un gentile servitore che non parla una parola d’inglese, ma ci accompagna per un ripido sentiero sino al resort. Li’ ci offrono subito dell’acqua, poi un te’, e poi, dopo un po’, un ottimo pranzo – tutto con rilassati tempi indiani. Poi la biblioteca e poi ci portano per un altro sentiero poco lontano, a una casetta a due piani, piuttosto bella (ma molto piu’ spartana della lussuosa villa in alto). Ed ecco: lui stava li’, in questo bel posto a 2400 m, con veduta delle grandi cime (salvo nel periodo dei monsoni, cioe’ questo).

Al ritorno facciamo una deviazione per arrivare in cima al monte, e quasi ci perdiamo. Soprattutto, perdiamo l’appuntamento con la macchina che ci deve portare a casa. E ci facciamo quindi a piedi gli altri 6 km del ritorno.

Sulla strada in basso aspettiamo per un po’, ma non tanto,  una scatola da sardine per tornare a casa.

Fine. Stanchissimi.

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Recensioni d’annata, 2003. Ricordo di Guido Crepax. La sua matita disegnava il desiderio

Ricordo di Guido Crepax. La sua matita disegnava il desiderio
Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2003

Guido Crepax è stato noto al grande pubblico italiano soprattutto come autore di fumetti fortemente e raffinatamente erotici, costruiti attorno ad alcune eroine, il nome di una delle quali è ormai universalmente associato al suo: Valentina. Ma solo i lettori appassionati di fumetti di valore sanno quanto importante sia stato il suo contributo al raggiungimento della maturità di quest’arte sottovalutata. Guido Crepax non è stato soltanto un narratore e disegnatore così bravo da permettere che venisse riconosciuta dignità culturale alle sue fantasie erotiche nell’Italia perbenista degli anni Sessanta e Settanta, ma anche uno che ha inventato un modo nuovo di raccontare a fumetti, sperimentando una quantità di tecniche espressive che sono in seguito entrate stabilmente nel linguaggio del fumetto d’autore.

La sua storia di fumettista è legata a doppio filo a quella della rivista Linus, che nasce nel 1965 con l’esplicito programma di far conoscere agli italiani il fumetto di qualità, e gli pubblica dopo pochi mesi la sua prima storia: “La curva di Lesmo”. È la prima volta di Crepax fumettista, ma è anche la prima volta che Linus dedica tanto spazio a un autore italiano. È una storia centrata su un personaggio dotato di un ultrapotere, una versione un po’ particolare delle storie dei supereroi che arrivavano dagli USA o degli eroi negativi che stavano impazzando in Italia. La differenza, rispetto a questi modelli un po’ ingenui, era tuttavia evidente appena si incominciasse a leggere, sia per il disegno, raffinato e del tutto alieno agli effetti dinamici mirabolanti, sia per il modo di raccontare, attento alla psicologia dei personaggi e alle loro relazioni umane – al punto che il superpotere di Neutron, il protagonista, era fin dall’inizio un aspetto marginale delle vicende, assai poco influente nella dinamica complessiva.

È all’interno di questa storia che fa la sua prima comparsa Valentina, destinata a innamorarsi di Philip Rembrandt, alias Neutron, e ben presto a sposarlo. E poi, negli anni successivi, storia dopo storia, destinata a diventare ben più importante di lui nell’economia dei racconti. Neutron perderà infatti progressivamente il suo potere, e finirà per scomparire anche fisicamente dalla vita di lei – mentre le storie di Valentina vireranno verso una costante contaminazione tra reale, memoria e immaginazione, in cui l’erotismo sarà, volta per volta, sempre più presente.

Siamo quindi debitori a Crepax di aver dato all’erotismo per immagini un aspetto difficilmente attaccabile dai censori, che nei medesimi anni in cui si iniziavano a dispiegare le morbose fantasie di Valentina avevano gioco facile (e spesso non del tutto immotivato) a condannare molte altre produzioni visive. Il gioco condotto da Crepax era troppo evidentemente consapevole e intellettuale, troppo pieno di riferimenti culturali e – possiamo aggiungere noi – troppo graficamente innovativo, per poter essere assimilato a quello povero e pacchiano dei prodotti pornografici, a fumetti o di ogni altro tipo.

Oggi non ci resta che salutare un maestro che se ne va, a settant’anni, dopo averci insegnato mille modi conturbanti di riconoscere e disegnare i nostri desideri più segreti, e mille nuovi modi di fermare il tempo sullo spazio della carta.

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Della serie: mappe, estate e vacanze.

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Diario d’India. Da Almora (di nuovo)

Come e’ faticoso viaggiare in questo paese! Abbiamo lasciato ieri il grosso dei bagagli ad Almora e siamo partiti per stare via due notti, e vedere alcuni posti nel raggio di 75 km. Qui 75 km vogliono dire o 3 ore abbondanti di bus, oppure 2 e mezza di taxi collettivo. Si puo’ pensare che il taxi collettivo, che costa di piu’ ed e’ piu’ veloce, sia preferibile al bus; ma non e’ cosi’. Il taxi collettivo e’ una grossa jeep: tre posti davanti, tre in mezzo e quattro dietro di traverso. Totale apparente 10 persone. Oggi (e anche altre volte) eravamo in 17: immaginate come, e capirete perche’ sia comunque meglio il bus. Ma di bus ce n’e’ pochi qui, e non vanno dappertutto come le jeep.

Ieri siamo stati a Kausani, dove c’e’ un ashram dedicato a Gandhi, che vi risiedette qualche tempo negli anni Trenta per scrivere il suo commento alla Bagavadgita. Io il testo di Gandhi non l’ho letto, ma so che la Gita e’ un testo molto amato dagli Indiani, e che riguarda (anche) la decisione morale e politica. Tutto torna, direi.

C’e’ un piccolo museo sul Mahatma, una sua statua, e un’atmosfera molto intima. Si aggiunga che eravamo avvolti dalle nuvole (o dalla nebbia, se si preferisce), e il tutto assumeva un’aria anche un po’ misteriosa. Eravamo gia’ stati fermi tre ore perche’ si era messo a piovere a dirotto.

Stamattina, col sole, abbiamo preso il solito shared taxi e siamo andati nella vicina Baijnath, per vedere un complesso di templi del IX/X secolo, che mi aspettavo simile a quello di Jageswar. Purtroppo era molto piu’ piccolo, e meno emozionante. Bello, comunque; posto su un’ansa del fiume, una decina di edifici, e quasi nessuno intorno.

Mancato il bus per un pelo, di nuovo col taxi a Bageshwar. Li’ c’e’ un tempio ancora piu’ piccolo (seppur fascinoso pure lui). Non c’e’ piu’ niente da fare ed e’ ancora mezzogiorno. Allora studiamo la possibilita’ di fare un colpo di vita e fare un salto di due giorni a nord, tra le montagne grandi, che da qui non si riescono a vedere a causa delle nuvole del monsone. Ma l’ultimo bus diretto e’ gia’ partito, e non ci sono taxi che ci vadano.

Quindi, si torna a casa, ad Almora, in anticipo. Troviamo con facilita’ lo shared taxi, ma il viaggio sembra non finire mai, stretti come sardine in questa scatola di latta ballonzolante sulle incerte strade indiane, con buche e torrenti.

Almeno non fa caldo. Buonanotte.

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Diario d’India. Da Almora (ancora)

Oggi siamo stati a Jageshwar, un posto in mezzo alla foresta dove c’e’ un tempio del VII secolo (e un villaggio gli e’ ovviamente cresciuto di fianco per accogliere i pellegrini).

Devo dire che e’ abbastanza impressionante. Siamo arrivati stamattina verso le 10, con tempo molto nuvoloso, molto umido. In mezzo a questi giganteschi cedri himalayani, c’era questo groviglio di piccoli e grandi edifici di culto, dentro il recinto generale. Tutti in pietra spesso coperta di muschio, generalmente a pianta quadrata (talvolta con un piccolo atrio, quelli grandi) con sopra una alta copertura a forma di piramide tronca bombata, con uno strano fastigio rotondo in cima.

Dietro al recinto un cedro doppio davvero gigantesco, e una colonna di fumo che gli saliva di fianco. Dentro al recinto un sacco di gente (e’ in corso un festival religioso), che cammina, fa cerimonie, cerca di coinvolgerti, ti annoda un braccialetto di corda (segno votivo – ma gli devi dare qualche rupia). Nel recinto, tra piccoli e grandi, ci sono piu’ di 110 edifici; hanno tutti la stessa forma a base quadrata, ma ci sono quelli alti un metro e mezzo e quelli di 15 metri. Le decorazioni sono affascinanti, e ne ho scattato un sacco di foto.

Ma quello che non si puo’ fotografare e’ la fascinazione complessiva di questo luogo con la foresta sullo sfondo, del colore grigio della roccia, con tutti i colori vivaci dei vestiti delle donne, gli odori, i suoni delle cerimonie (tamburi, campane, voci salmodianti…), il coinvolgimento collettivo che finisce per prenderti talmente tanto che a un certo punto ti senti quasi soffocare, come fossi arrivato alla saturazione dei sensi…

Ho capito perche’ gli indiani sono cosi’ indifferenti al frastuono infernale del traffico nelle loro citta’. Nel tempio e’ lo stesso, anche se le voci e i suoni sono quelli piu’ armoniosi (se presi uno per uno) delle cerimonie: l’effetto d’insieme e’ comunque quello di una stranamente coinvolgente cacofonia.

Quando siamo usciti, dopo almeno tre ore, da questo labirinto di templi tempietti templini, siamo entrati in un “ristorante” dove abbiamo pranzato con 60 rupie a testa (75 centesimi di euro). Poi siamo usciti dal paese per andare a vedere l’altro tempio, quello “solo” del IX secolo, a circa un kilometro.

Un recinto molto piu’ piccolo, con appena una decina di edifici. Ma li’ non c’era quasi nessuno. Altro fascino, ma pure quello molto apprezzabile. E poi, qualcuno sa se sia solo un caso che le decorazioni di questi templi hanno vari punti di contatto con le decorazioni dei templi dei Maya? Deve essere un caso, pero’ la somiglianza, qua’ e la’, non e’ piccola.

Un piccolo dettaglio contingente, per cambiare registro. Quando discutete sul prezzo col taxista, attenti a non capire six hundred, quando lui dice sixteen hundred. Non e’ la prima volta che ci casco. L’inglese di molte persone qui e’ cosi’ approssimativo che ci si intende alla bene meglio. Ma in qualche caso nascono anche dei problemi…

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Diario d’India. Da Almora

Diciamo che le condizioni in cui si scrive questo diario non sono sempre delle piu’ favorevoli. Ora ci troviamo ad Almora (che e’ qui), a 2000 metri, in mezzo alle montagne himalayane (dopo – va detto – una giornata di viaggio in bus senza fine, ieri).

Il clima e’ piacevolissimo, dopo i grandi caldi dei giorni scorsi. Il paesaggio e’ alpino, con pini, boschi e aria pura. La differenza piu’ notevole e’ che qui il cespuglio infestante e’ la canapa indiana; si’, proprio quella, la cannabis indica, quella che si fuma. Ne ho visto piu’ oggi che in tutta la mia vita.

Pero’ sta li’, e non e’ che posso farci qualcosa direttamente. Quindi la guardo, e basta. Anzi, no, la annuso e assaggio. Ma non funziona.

Abbiamo visitato un piccolo tempio dove Vivekananda ha passato del tempo a meditare. E Vivekananda e’ stato un grande personaggio. Senza di lui probabilmente niente Gandhi…

Poi abbiamo camminato dal posto dove stiamo, in alto su un crinale, giu’ fino alla citta’, Almora, a 8km, piu’ in basso. All’inizio non sembrava nemmeno di essere in India, tanto tutto era pulito e perfetto. Poi, piano piano, l’India e’ arrivata, con tutti i suoi pregi e difetti.

Abbiamo fatto un po’ di shopping e poi abbiamo cercato di informarci su come tornare su in taxi. Ci hanno detto che ci sono dei taxi collettivi per 30 rupie, che si prendono li’, a 50 metri. Andiamo li’, ma taxi non se ne vedono. Aspettiamo, chiediamo. Ci dicono che non sono li’, ma piu’ avanti, 50 metri. Andiamo avanti anche di 100, pero’ niente. Chiediamo: si’ si’, avanti 50 metri. Insomma, di 50 metri in 50 metri avremo fatto quasi un km, pero’ alla fine il taxi c’era davvero.

Mi domando: cosa impedisce agli indiani di dire, che so?, “subito dopo la stazione di servizio”?

Qui l’architettura delle case e’ gia’ di tipo nepalese, e la gente e’ piccolina e porta i pesi sulla schiena con una cinghia sulla fronte. Non sembra di essere a Cortina, non solo perche’ manca la fighetteria, ma anche perche’ non siamo ancora in zona di rocce e cime. Qui e’ tutto verde di boschi e prati, anche se poi tutto e’ piuttosto ripido, e i torrenti sono fiumi.

Sono nell’albergo, una guest house di campagna con pochi ospiti occidentali. C’e’ una piccola festa perche’ il gestore compie gli anni. Sono arrivati altri ragazzi occidentali dalle guest house vicine. C’e’ un bel clima. Il fumo gira.

Domani, gita in un posto qui vicino, dove ci sono dei bei templi. Il taxi ci passa a prendere alle 8. Buona notte.

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Diario d’India. Da Rishikesh

Post brevissimo, che il tempo fugge. Rishikesh, dove mi trovo, sta sul Gange appena dentro le montagne dell’Himalaya. Il Gange e’ gia’ un grande fiume, qui, e la sua corrente ha la velocita’ di un torrente.

Qui e’ pieno di ashram dove fare yoga, e di giovani e meno giovani occidentali che inseguono il proprio mito – e magari quello dei Beatles, che inaugurarono la stagione negli anni Sessanta.

Il posto e’ molto bello, molto turistico, ma anche molto spirituale. Un sacco di gente si bagna, non proprio nel fiume (che ti porta via) ma almeno con la sua acqua.

C’e’ un’umidita’ pazzesca, anche se il caldo non e’ terribile. Ma basta per essere sempre sudati, grondanti.

Domani altro lungo viaggio in bus. Qui non finiscono mai.

Ovviamente c’e’ un sacco di sporco anche qui, come dappertutto. Prima o poi trovero’ il tempo di scrivere la riflessioni che ho fatto sul rapporto tra sporcizia diffusa e giustizia sociale. Non adesso.

Rispetto a Delhi e’ un altro vivere, comunque. Domani ci inoltreremo tra le montagne. Pero’ non da qui, dove l’inondazione ha distrutto le strade. Dobbiamo tornare giu’ e risalire da un’altra parte. Cercate Almora su google.

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Funzionalismo da agriturismo?

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Diario d’India. Da Delhi (ancora)

Delhi non mi vuole bene. Ieri, dopo aver riposato un po’, sono uscito. Destinazione: Red Fort, il grande Forte Rosso dei Moghul e poi degli Inglesi e poi ora simbolo dell’India libera. Chiuso.Non ho capito bene il motivo. Qualcuno ha parlato (o cosi’ ho capito) di una festa dove i musulmani mangiano (in effetti sul grande prato davanti ci sono i preparativi di quello che potrebbe anche essere un immenso banchetto – e siamo alla fine del Ramadan; una guardia mi dice che sara’ chiuso fino al 15 agosto. Ok, niente forte rosso.

Pero’ qui davanti c’e’ il tempio dei jainisti, quello grande dove curano gli uccelli feriti. Il cancello e’ aperto. Entro e ci giro attorno. Ma il tempio e’ chiuso: apre solo la mattina. Ok, niente tempio jainista.

Consulto la guida e vedo che a poca distanza c’e’ Jama Masjid, la piu’ grande moschea dell’India. Andiamo. Da fuori e’ davvero imponente. L’avevo gia’ vista mooolti anni fa. Gli orari sembrano compatibili, e non ho voglia di entrare subito. Mi siedo un po’ sui gradini davanti, e mi guardo attorno.

Quando decido che e’ il momento di entrare, mi avvicino all’ingresso e faccio per togliermi i sandali. Ma il guardiano mi fa segno di no, che non posso entrare, e di sedermi su una delle sedie che sono li’. Sono proprio davanti a un cartello con il regolamento; vi si dice che i non musulmani possono entrare fino al tramonto, eccetto che nei momenti di preghiera. Il tramonto e’ lontano, quindi sara’ un momento di preghiera, penso.

Aspetto. Osservo il guardiano e la sua mimica. Mi rendo conto che ha un viso e una gestualita’ molto espressivi, ma che emette sempre lo stesso suono rauco. Dopo un po’ capisco che e’ muto. Ma sembra simpatico, e scherza con gli altri guardiani. Aspetto ancora, poi provo a avvicinarmi. Seduto li’! sembra gridare lui, coi gesti. Poi fa anche un gesto come dire (o almeno a me sembra): due minuti.

Aspetto. Aspetto. La stessa scena si ripete altre tre volte, a lunghi intervalli di tempo. Alla fine, in un momento in cui lui si e’ allontanato, chiedo a un altro guardiano quando potro’ entrare. Domattina, mi risponde, da adesso in poi e’ solo per fedeli. Ma come, l’altro guardiano mi ha detto di aspettare! No. Non ti ha detto di aspettare. Ti ha detto di sedere li’!

Ecco: Delhi non mi vuole bene. Fatico a ritrovare la strada per la metro Decido che c’e’ ancora tempo. Vado a Connaught Place, il centro di New Delhi. Magari trovo qualche info sui bus. Magari mangio li’. Quando arrivo mi rendo conto che non c’e’ luogo dove raccogliere info sui bus. Giro un po’ e poi consulto la guida per un ristorante. Nelle immediate vicinanze ce n’e’ solo di ultracari. Io mangerei un pollo, o della carne: fare il vegetariano per troppi giorni di seguito mi fa male.

Alla fine trovo un ristorante tamil. Va bene. La cucina tamil e’ buona. Ma e’ ovviamente strettamente vegetariana. Delhi non mi vuole bene. Ne’ io voglio bene a lei: troppo grande, caotica. Rivoglio Jodhpur o Udaipur, e la loro tranquillita’.

Stamattina sono andato al Museo Nazionale, dove ho visto tante belle cose, dal 2500 a.C. sino ad oggi. All’una avevo fame e mi sono guardato intorno alla ricerca di una caffetteria. Ho seguito quelle che mi sembravano le indicazioni e mi sono ritrovato in una specie di mensa, con solo indiani. Ma il cartello parlava chiaramente di prezzi (che erano cancellati) per i dipendenti e per i visitatori. Cosi’, ordino un piatto. Quando il tizio mi dice il prezzo non ci credo: 15 rupie (ce ne vogliono 80 per fare un euro), come dire 20 centesimi. Non e’ una montagna di roba, ma mi sfamo. Nell’intingolo c’e’ persino qualche pezzetto di ciccia!

Pensando che Delhi mi detesti un po’ meno arrivo a piedi di nuovo a Connaught Place, con l’intenzione di sfruttarne il parco per riposarmi. Dopo un po’ di ricerche trovo un prato sotto un albero, e sto li’.

Sono proprio a due passi dalla metro, e cosi’ scendo. Stamattina, all’andata, non c’era nessuno, ed e’ stata comodissima. Ma la fila inizia gia’ in fondo alle scale, e io dovrei persino fare il biglietto (10 rupie). Allora torno su e contratto con un riscio’ il passaggio per ben 50 rupie.

Ed eccomi qua. Ora vado a mangiare, e poi all’aeroporto a prendere mio figlio. Domattina bus per Rishikesh. Non so quando potro’ continuare questo diario. Se tutto va bene i prossimi giorni saro’ in montagna, e non so quanti Internet point riusciro’ a trovare, o se avro’ il tempo di scrivere.

Non saro’ piu’ a Delhi per un po’, almeno. Evviva!

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Diario d’India. Da Delhi

Delhi alle 10 di mattina, piove lento e sottile ma fitto. Fanghiglia dappertutto. Ho passato la notte in treno dopo aver salutato Udaipur. La compagnia degli indiani, quando non hanno secondi fini, e’ molto piacevole. In scompartimento con me c’era una famiglia con una bambina di circa 6 anni, con cui il padre giocava (qui i genitori, anche i padri, sono sempre molto teneri con i bambini), un altro uomo giovane che e’ arrivato elegantissimo in giacca cravatta e scarpe nere, e dopo un po’ e’ andato a cambiarsi (maglietta, pantaloncini e ciabatte), e una signora di mezza eta’ che fa la medica omeopatica, e mi ha spiegato un sacco di cose dell’omeopatia (mentre l’ayurvedica e’ solo una medicina normale un po’ vecchiotta), e mi ha detto che in India l’omeopatia e’ diffusissima.

Tutto benissimo finche’ siamo stati svegli, dunque. Poi si preparano le cuccette, e in realta’ non si dorme: c’e’ chi parla al telefono (l’omeopata), chi accende la luce, chi e’ salito in una stazione intermedia e deve fare il letto; il controllore entra un minuto per controllare non so cosa, accende la luce, ci guarda, conta, spegne la luce e se ne va. Insomma, dormire e’ un’opzione che si puo’ esercitare solo a piccoli tratti. E poi verso le 5 la luce viene accesa stabilmente e la notte e’ formalmente terminata.

Arrivo a Delhi alle 6.45 e trovo subito l’hotel (ma siccome voglio una camera con la finestra, me la daranno solo alle 11). Allora vado in stazione di New Delhi per fare due biglietti di treno, uno per me e uno per mio figlio che arriva domani. Meraviglie della burocrazia indiana: il biglietto per lui non lo posso fare, perche’ non c’e’ il passaporto. E per quel treno li’ non si potra’ fare nemmeno subito prima, perche’ parte troppo presto la mattina. Ho capito: si va in bus, come sempre…

Adesso sono quasi le 11. Vado in hotel, mi faccio una doccia e vado a letto.

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Diario d’India. Da Udaipur (ancora ancora)

Una cosa che si impara in India e’ non avere fretta. Fondamentalmente non ho molto da fare. Le cose da vedere sono in numero limitato a Udaipur, almeno quelle citate sulla bibbia del turista. Pero’, siccome si sta bene, ci si muove un po’, si va a vedere una cosa senza fretta, poi si incontrano i francesi con cui avevi chiacchierato ieri sera dopo cena, e poi gli spagnoli gia’ incontrati a Jaipur e poi a Pushkar, e poi gli italiani che fanno casino, e poi tutti gli indiani che ti domandano ueriufrom e uotsiorneim, e quando gli dici italiano loro dicono “150 la galina canta” (tutti). E poi piove e il primo rifugio che trovi e’ un negozio di vestiti dove il gestore ti offre una sedia e due chiacchiere e ti dice che si ricorda quando giravano “Natale in India” (Natale in India! mica La dolce vita) proprio li’ davanti al suo negozio, e avevano sempre bisogno di qualcosa. E cosi’ ti viene in mente che hai bisogno di un paio di pantaloni e una camicia, e dopo un po’ di contrattazione li acquisti entrambi per 900 rupie (11,25Euro), ma ti resta il dubbio di esserti fatto fregare dalla prontezza con cui lui ha smesso di discutere.

E poi vai a vedere il tempio di Vishnu, quello bello del XVII secolo, il primo tempio decente in questa terra dove i musulmani hanno prima o poi distrutto tutti i templi antichi induisti. E questo e’ proprio bello, non grande ma fittissimo di decorazioni, bello architettonicamente, e molto sacrale. A me sta piu’ simpatico Shiva di Vishnu, ma non si puo’ chiedere tutto. Ci sono persino, nel lungo fregio di figurine scolpite alla base, quelle in posizioni erotiche, quelle che ti domandi dove siano finite nelle nostre chiese (e c’erano, sino a sei-sette secoli fa, andare a Modena per credere). Insomma, e’ vita pure quella: perche’ non puo’ essere sacralizzata?

Poi c’e’ il rito di Internet (questo), che fa parte della giornata, e il ritiro in qualche angolo o sulla bella terrazza dell’hotel a scrivere i pensierini della sera sul quadernino. Insomma, perche’ uno devrebbe avere fretta?

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Recensioni d’annata, 2002. Dino Buzzati. Le tavole inquietanti

Dino Buzzati. Le tavole inquietanti
Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2002

A trent’anni dalla morte, Dino Buzzati continua oggi a inquietare i suoi lettori. Personaggio atipico della letteratura italiana è stato nel corso della sua vita, e tale rimane ancora oggi, legato a una visione fantastica della realtà che in Italia, a parte lui e pochissimi, non ha mai avuto grande fortuna.

Ma la diversità di Buzzati non si esaurisce con la sua differenza come letterato: tra il 1966 e il 68 egli lavorò infatti a una strana opera, nella quale la storia non viene raccontata soltanto attraverso le parole, e in cui la sua passione per il disegno e la pittura poteva esprimersi narrativamente. Poema a fumetti fu così pubblicato da Mondadori l’anno seguente, il 1969, e nonostante i commenti imbarazzati della critica (che faticava ad accettarne l’idea ed era imbarazzata dai numerosi nudi che vi comparivano) fu un clamoroso successo di pubblico (esaurito in pochi giorni e ristampato dopo meno di due mesi) e fruttò a Buzzati un premio letterario.

Nonostante il titolo, non si trattava di una normale storia a fumetti. Buzzati era sì un grande consumatore e conoscitore di racconti per immagini, come testimonia la sua biblioteca personale e come dimostra una sua nota foto che lo ritrae mentre disegna in casa propria – e alle sue spalle si vede benissimo, appesa agli scaffali, una locandina di Diabolik. Ma non era certo un fumettista; e quello che portò a compimento nei due anni di lavoro finì per essere un fumetto assolutamente anomalo, in cui un geniale dilettante ricostruiva a modo suo le tecniche di rappresentazione e di montaggio visivo e narrativo.

Nel convegno “Buzzati, fumetti e altre visioni”, che si è tenuto a Belluno e a Feltre dal 12 al 14 settembre è serpeggiata infatti, tra le molte altre cose, la confessione di un’esperienza comune a molti (compreso chi scrive): delusi da una prima lettura e poi lentamente conquistati e affascinati durante le successive. Buzzati sapeva benissimo di aver prodotto un’opera inconsueta, al punto che ne fece dono alla moglie dicendole che non la si sarebbe pubblicata prima di vent’anni – e fu solo lei a insistere con Mondadori, a sua volta un po’ perplesso. Se si trattava di un’opera a fumetti – e certamente lo era – era comunque anomala persino per i lettori abituali di racconti per immagini; figuriamoci poi come doveva apparire per il pubblico più tradizionalmente letterario!

Questa anomalia è stato uno dei temi ricorrenti del convegno, organizzato dai Comuni di Belluno e Feltre e dall’Associazione Internazionale Dino Buzzati diretta da Nella Giannetto. Nei tre giorni di lavoro si è esplorato l’universo culturale degli anni Sessanta a cui Buzzati faceva riferimento, tra letteratura colta, pittura, fumetto, fotoromanzo e pubblicazioni erotiche, di livello sia raffinato che popolare – e ne è uscita l’immagine di una persona controcorrente, interessata e attenta sia alle forme di comunicazione consacrate dall’accademia e dalle consuetudini intellettuali, sia a quelle emergenti o del tutto sotterranee, se non talvolta palesemente osteggiate persino dalla giustizia.

La bella mostra “Buzzati 1969: il laboratorio di Poema a fumetti”, curata da Mariateresa Ferrari, è stato l’inevitabile punto di partenza di queste riflessioni. La mostra infatti documenta, tavola per tavola, quali siano state le fonti di Buzzati, e come sia proceduto l’attento lavoro di costruzione visiva – gli studi grafici, la scelta dei modelli, le riprese fotografiche, il passaggio dalle fotografie ai disegni… E scopriamo così davvero dal vivo la varietà dei suoi interessi visivi, e la sua capacità di integrare nel racconto suggestioni apparentemente lontanissime – comprese le proprie, quelle che nel corso della sua attività di pittore si erano già materializzate sulla carta o sulla tela negli anni precedenti.

La mostra, pure molto ben allestita, è aperta a Palazzo Crepadona, a Belluno, sino al 31 ottobre – ma per chi non avesse modo di arrivarvi esiste anche un ottimo catalogo, pubblicato da Mazzotta, con i saggi di Alessandro Del Puppo e Roberto Roda, oltre a quelli della curatrice. Una seconda mostra, più piccola ma non priva di interesse, centrata sui dipinti di Buzzati e di alcuni “buzzatiani”, è aperta sino alla stessa data presso la Galleria d’Arte Moderna di Feltre.

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Diario d’India. Da Udaipur (ancora)

Post breve. Giornata contemplativa. Il lago si lascia guardare.

Ho anche visto il palazzo del Maharaja locale, bellissimo come al solito, tutto bianco, appollaiato sulla riva del lago. E poi ho fatto persino una gita in barca, per vedere il mondo dall’acqua, visitare un’isolotto elegante (con una bella torre antica) ed essere sorpresi dal monsone in tutto il suo splendore.

Piu’ sto qua e piu’ mi sembra che le giornate diventino brevi. Forse e’ solo che mi sto abituando ai ritmi indiani, e tutto si fa con tale calma che alla fine e’ passato un sacco di tempo.

E poi ci sono un sacco di templi in questa citta’, piu’ che in qualsiasi altra che abbia visitato in questi giorni. E moltissimi sono templi di Shiva (o parenti), come si capisce dal tipico Toro Nandi in adorazione davanti al lingam. Sulla riva del lago c’e’ una piccola area dove ne ho contati almeno otto, uno dopo l’altro, piccolini e tutti differenti, ma tutti con il Toro Nandi e il lingam.

Namaste’.

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Diario d’India. Da Udaipur

Sono arrivato da poco a Udaipur, citta’ magica sulle sponde di un bel lago quasi alpino. In effetti, arrivando col bus, abbiamo attraversato un bel po’ di montagna, e qui siamo dall’altra parte, appena sotto.

C’e’ poco da raccontare, oggi, salvo 8 ore di bus. Le montagne erano molto belle. Mi veniva voglia di scendere e fermarmi li’ per un po’. E’ comunque finalmente un paesaggio diverso.

Ora c’e’ il sole, ma per quasi tutto il viaggio ha piovuto. Mi domando come debba essere questa bella campagna verde (quella prima delle montagne) dopo nove mesi che non piove…

Jodhpur l’ho salutata con un sospiro, ieri dera dalla terrazza dell’hotel, guardando in alto il forte. Sino a poco prima avevo chiacchierato con due studiosi di sanscrito (lei svizzera italiana, lui francese), che vivono un po’ qua un po’ la’ per l’Europa dove trovano una borsa di studio. Dev’essere dura la vita degli studiosi di Sanscrito in Europa! Ma anche fascinosa. Lui ha vissuto due anni a Pondicherry, lei uno a Delhi. Ci sono vite peggiori.

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Recensioni d’annata, 2001. Male di vivere, una telenovela

Male di vivere, una telenovela
Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2001

Non so se sia corretto definire Daniel Clowes un autore minimalista. Certo le tematiche più o meno sono quelle, ma a differenza degli autori minimalisti, che assai spesso sono in grado di suscitare in me una noia mortale, le storie di Clowes, nonostante la dimensione sottilissima degli eventi che vi vengono narrati, hanno la portata ritmica ed emotiva di storie serrate di azione.

E’ una strana, singolare ricetta. I personaggi di Clowes sono spesso persone normali, semplicemente minate ciascuno dal proprio specifico male di vivere. Vivono una vita qualsiasi, fatta di eventi che sembrerebbe non valga la pena di raccontare – eppure, quando è Clowes a raccontarli, sono altrettante tragedie classiche, o shakespeariane.

Forse il bandolo della matassa, per capire come questo materiale umano così irrilevante possa acquisire nelle sue mani tanto rilievo, sta nell’osservare l’altro tipo di personaggi che ricorrono nell’universo di Clowes. E qui la memoria corre alle opere di una grande protagonista della rappresentazione del male di vivere americano: Diane Arbus. Tutti ricordiamo le sue foto di persone comuni, una galleria di orrori festivi, di inconsapevoli depravazioni da party, di tristezze in vacanza: tanto più terribili quanto più ostentanti questa inconfondibile marca di normalità.

Clowes è probabilmente meno maniacale e meno terribile della Arbus, ma solo perché un’ombra di ironia scende sempre a rendere più lieve la sua mano, e l’orrore si trasforma nelle sue storie in malinconia, la depravazione in semplice infelicità, spesso neppure compresa sino in fondo dal soggetto che la vive. A differenza della Arbus, poi, che trovava i propri soggetti e li eternava con la fotografia, Clowes adopera lo strumento assai più mediato del disegno; e all’icastica immobilità della narrazione fotografica sostituisce la fluidità articolata di un autentico raccontare, sviluppato nel tempo. Insomma: un autentico fumettista, e di grande, autentico talento.

Negli Stati Uniti, dove vive e lavora, Clowes pubblica una rivista aperiodica, Eightball. Eightball è realizzata interamente da lui, e contiene, a puntate, le storie da lui scritte e disegnate. Queste storie vengono spesso raccolte in volumi, e ne sono usciti parecchi in lingua originale. I lettori italiani ne possono trovare invece solo tre: L’antologia ufficiale di Lloyd Llewellyn, pubblicato da Telemaco nel 1992, Ghost World, pubblicato da Phoenix nel 1999, e David Boring, in uscita in questi giorni da Coconino Press. E’ di quest’ultimo volume che intendo parlare.

David Boring rappresenta indubbiamente un punto di arrivo, il prodotto della maturità di un vero narratore, che compie quest’anno i suoi quaranta. Il tipo di storia non è diverso dalle storie che Clowes ha sempre raccontato: solo viene in qualche misura accentuata qui una vena lievemente surreale che è spesso presente anche altrove, e aggiunge alle storie sfumature vagamente oniriche.

David Boring, il protagonista di questa storia, è un giovane tra i venti e i trent’anni. Un giovane con delle capacità, che riesce in quello che fa, e gode di un successo particolare con le donne. Ma appare ammalato di una singolare forma di atarassia, che non gli impedisce tutto sommato di agire, ma è come se un velo separasse le sue azione dalla possibilità di viverle davvero. Poi David si innamora, e lei pare ricambiarlo ma insieme gli si nega. E alla fine, dopo esserglisi finalmente concessa, scompare. Alla disperazione di David si aggiunge ora il colpo di scena: uno sconosciuto gli spara alla testa, ferendolo gravemente.

Durante la convalescenza, assistito dalla madre e da un piccolo gruppo di amici, ritirato su un isolotto senza contatto col mondo, David incomincia a esplorare i propri ricordi. E incomincia, in particolare, a cercare di ricostruire l’immagine di un padre che lui non ha mai conosciuto: la madre, infatti, arrivata per gelosia a detestarlo, ne ha cancellata ogni traccia. Ma David aveva trovato, qualche tempo prima, una storia a fumetti che aveva realizzato suo padre, disegnatore minore del genere supereroi. In questa storia (una tipica storia di genere con tutti i luoghi comuni dei supereroi anni sessanta) e nelle sue evoluzioni, che ci vengono presentate piano piano, David cerca l’immagine del padre. E’ come un puzzle da ricostruire, un puzzle che diventa ancora più complesso quando sua madre gli trova la rivista e la straccia in mille pezzi.

David guarirà e ritroverà le tracce dell’amata solo una volta che si sarà ricostruito una vita sentimentale con un’altra, e allora ancora una volta la pressione della memoria lo porterà nelle direzioni più strane. La storia continua a lungo, come una telenovela di grande qualità, in cui colpi di scena che altrove potrebbero apparire tipiche mosse di genere vengono raccontati con tale intensità da restituirci la loro vivezza primaria, la loro carica emotiva autentica – quella che il mestiere degli sceneggiatori televisivi non è più (non è mai?) stata capace di restituire ai loro – nonostante questo – innumerevoli spettatori.

I lettori di David Boring saranno probabilmente assai meno di quelli di Beautiful, ma in fondo non si tratta davvero di una storia per tutti. Non che Clowes sia complicato da leggere, ma forse questo mondo di sfumature emotive richiede un’attenzione di cui non tutti i lettori sono disposti a fare uso. Un’attenzione, comunque, assai ben ricompensata.
Daniel Clowes
David Boring
Coconino Press, Bologna, 2001
128 pp. £.28.000

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Diario d’India. Da Jodhpur (ancora)

Jodhpur si sta rivelando sorprendente. Sto persino facendo la pace con il Rajastan. Ha un centro storico bellissimo, e anche sorprendentemente tranquillo (per gli standard indiani, ovviamente). Se non fosse per l’onnipresente sporcizia e immondizia sparsa da tutte le parti, sarebbe decisamente gradevole.

E poi c’e’ il forte. Da fuori e’ impressionante. Da dentro e’ bello, sicuramente, ma e’ un po’ reggia, e questo mi stufa. Ma l’architettura e’ davvero particolare, diversa da tutto quello che conosco. Il Forte di Amber a Jaipur resta meglio, ma pure questo si difende bene.

Devo dire che pero’ quello che ho goduto di piu’ sono una serie di cose attorno e non dentro al forte. Per esempio il giardino, molto curato e incantevole, col “giardino di giorno” pieno di fiori dai colori brillanti, e il “giardino di notte” con i fiori che si aprono col buio e spargono i profumi con l’umidita’ della notte, e insieme a loro una massa di piante dalla vegetazione fitta e scura. Da restarci a lungo, cosa che ho fatto.

Da quel lato si scende all’altra parte della citta’ vecchia, con i quartieri dei bramini, pieni di palazzi antichi e bizzarri, piazzette con piante enormi che fanno ombra, templi e nessun occidentale in giro. Pero’, per questo, anche nessun ristorante.

Preso dai morsi della fame ho finito per comperare due cosette fritte, che in India sarebbero da evitare. In verita’ erano buonissime (meglio di qualsiasi altra cosa abbia mangiato qui), pero’ bisogna augurarsi che l’olio in cui hanno fritto non fosse in uso da troppe settimane. Per ora lo stomaco non ha reagito malamente, per cui probabilmente mi e’ andata bene.

Ritornando verso il forte ho voluto provare una via diversa, e mi sono ritrovato per ben due volte di fronte a un lago (due laghi diversi). Erano insieme riserve d’acqua e ostacoli per il nemico. Tutti e due incantevoli, persino puliti (qui l’acqua e’ di solito sozza). Stavo facendo una strada ripida e mi aspettavo, alla sommita’, una svolta o una discesa, e invece mi sono ritrovato quasi coi piedi nell’acqua, col lago che strabordava leggermente e ne usciva un ruscello che scendeva per la strada. Io avevo visto il ruscello, ma quando vedi dell’acqua che corre pensi di solito a un tubo aperto, non a un lago che trabocca.

Attorno e’ tutto verde, rocce e mura di fortificazione. Nell’acqua un sacco di pesci e cormorani che pescano. Poi e’ arrivato un uomo che si e’ seduto e ha incominciato a buttare pasta di pane ai pesci. Sono stato li’ un bel po’. Poi sono uscito e ho preso un’altra strada che credevo mi riportasse nel forte. Invece sono finito sul secondo lago, molto simile al primo, ma con qualche bella architettura sui lati, e un sacco di gente a dar da mangiare ai pesci.

Ho poi trovato la strada giusta. Sono risalito al forte e sceso dal mio lato della citta’, quello del mercato. Poi, eccomi qui. Domani, Udaipur.

Un po’ di turisti europei ci sono, pero’ non tanti, e davvero si perdono nella massa strabordante dei locali. Persino al forte il rapporto era 1 a 10. Molti spagnoli, francesi, italiani, meno tedeschi e inglesi. Ieri seri ho fatto due chiacchiere con una coppia israeliana che si sta facendo un giro di quattro mesi, una settimana ogni posto. Quando ho chiesto che cosa trovano da fare tanto tempo nello stesso posto hanno riso, e hanno detto che di solito gli Israeliani stanno un mese in ogni posto, non una settimana: loro sono quelli veloci.

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di Daniele Barbieri

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