Sto studiando e riflettendo per un convegno di metricisti a cui sono stato invitato per fine novembre (La metrica dopo la metrica, Padova 27-28 novembre). Nel corso delle mie letture mi è venuta a mente un’ipotesi, di cui scrivo qui anche per farmi chiarezza.
Una cosa su cui vari antropologi insistono è il fatto che le strutture regolari che si trovano, per esempio, nelle forme dei villaggi delle culture tradizionali (quelle che la lingua italiana tradizionale chiamerebbe selvagge, ma mi sembra un termine molto crudo e un po’ discriminante), oppure nelle cicatrici rituali del volto di certi popoli africani, hanno come scopo quello di distinguere l’appartenenza a una cultura e società umana dalla naturalità di fondo dell’ambiente. In altre parole, la cultura si distinguerebbe dalla natura imponendo artificiosamente ai propri costrutti un ordine ritmico che la natura normalmente non ha (o almeno non in quei termini).
La nostra cultura e società non ha bisogno di enfatizzare allo stesso modo quelle stesse cose o altre analoghe. Siamo già sufficientemente separati dalla natura per sentire il bisogno, semmai, di enfatizzare i punti di contatto, alla ricerca di una naturalità di fondo che percepiamo come perduta. La hybris della modernità è (anche) questo senso di perdita della natura, di incolmabile distanza, di scarsa appartenenza all’ecosistema.
Potremmo ipotizzare che anche le strutture metriche della poesia tradizionale siano strutture regolari che servono (anche) a marcare la culturalità, l’artificialità della parola poetica rispetto alla spontaneità e naturalità di quella quotidiana. Non dimentichiamo che anticamente, e tutt’ora nelle culture orali, i narratori narravano in versi; e la forma ritmica del racconto in versi caratterizzava dei veri e propri riti di ascolto, quelli da cui nasce poi il teatro. La parola poetica era dunque la parola massimamente sociale, culturale – contrapposta a una parola quotidiana non del tutto separata dal sottofondo naturale, in quanto ne condivideva i ritmi troppo complessi e l’origine non progettata, spontanea.
Se una visione del genere fosse accettabile (ed è questa l’ipotesi che sto facendo) il destino della metrica tradizionale sarebbe segnato in una modernità che ha più bisogno di riconoscersi nella natura che di distinguersi da lei. La nascita del verso libero, come abbandono di strutture ritmiche troppo regolari e canoniche, sarebbe allora l’abbandono di una modalità tradizionale di contrapposizione al dominio naturale sopravvissuta al proprio bisogno (come spesso accade con le istituzioni). Da artificiali che erano, certe strutture ritmiche canoniche (in poesia come nei villaggi) vengono sentite come artificiose. Bisogna piuttosto cercare una nuova naturalezza.
Ma le cose non sono così semplici. Il bisogno di strutture rituali – che una volta si accompagnava positivamente a queste regolarità, qualificando le regolarità rituali come a loro volta artificiali e culturali, dunque umane – non è in realtà diminuito, perché i riti sono comunque costitutivi del legame sociale. Ci si trova dunque nella situazione paradossale per cui si ha comunque bisogno di riti (caratterizzati da ritmi regolari) mentre le regolarità vengono sentite come artificiose, meccaniche, antinaturali e quindi tendenzialmente da evitare.
In questa contraddizione costitutiva del nostro modo di vivere socialmente, la poesia patisce, fatica a trovare un posto, perché rappresenta implicitamente il retaggio di un mondo in cui la contraddizione non esisteva. Il verso libero è la sua ultima linea di resistenza, ovvero la condizione contraddittoria di una regola (metrica) che nega la propria regolarità (metrica), permettendo in qualche modo la fruizione rituale che la poesia richiede, e insieme parzialmente negandola in nome dell’espressività personale, qualcosa che per noi è certamente più naturale dell’artificioso meccanismo iterativo.
Da qui, tutta la debolezza e tutto il fascino della poesia del Novecento (e oltre), schiacciata dalla (quasi) scomparsa delle sue condizioni normali di esistenza, e costretta a cercare gli stigmi della naturalità dopo aver portato per millenni il vessillo della culturalità!
Poiein è fare (essere) e viene dalle Muse figlie di Zeus e Mnemosyne, Memoria della Vita – consonanza essenziale, ‘magia’ o religione anzi fede (cioè certezza) di contatto col divino (oltre-umano) che ci ospita proprio nel porci dei limiti-condizioni di esistenza; tutti i miti cosmogonici sono poesia, perché è nella vibrazione simpatetica il senso dell’Adam-umanità quale ponte sonoro tra materia e luce (massa e energia, spirito e corpo, vita e morte, manifestazione e mistero etc): il ritmo è naturale (con varianti, ma regolate: dal cuore alle orbite planetarie) anche nei versi proprio per poter ricordare l’essenziale-vitale, da cui oggi ci siamo tanto separati (dia-bolicamente) da illuderci di poter prescindervi: coi risultati psichici, sociali e ormai cosmici che tutti patiamo. “Siamo come gatto Silvestro nella lavatrice.” diceva Zanzotto circa nel 2000: e proprio il suo iper-sperimentalismo a-metrico proviene anzitutto da una conoscenza per esperienza e attraversamento profondo di tutte le metriche tradizionali, verso una ricerca (entro tale centrifuga totale) di qualche nuovo ovvero antico cioè sempiterno polo di condensazione-unificazione: come andar a tentoni nuovamente in cerca di aggregati fono-semantici, cioè di suoni e quindi di significati, in produzioni di nuovi sim-boli verbali, contro la dia-bolicità attuale che lui viveva direttamente nella strage del paesaggio, cioè appunto di quel rapporto biunivocamente proficuo uomo-natura – anche umana, perché la disgregazione appunto coinvolge tutti i livelli, l’umano in primis ed è da qui cioè da noi che bisogna ripartire (sempre).